Come la Sacra Scrittura ci dichiara due tipi d’orazione

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

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TRATTATO V. DELL'ORAZIONE

 

 

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CAPO V. Come la Sacra Scrittura ci dichiara queste due sorta d'orazione.

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1. Natura dell'orazione mentale ordinaria.
2. Natura della straordinaria.
3. Per conto nostro contentarci dell'ordinaria.

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1. Queste due sorta d'orazione, delle quali abbiamo parlato, ci vengono meravigliosamente dichiarate dallo Spirito Santo nell'Ecclesiastico. Dice ivi dell'uomo savio, il quale dalla Chiesa è interpretato per l'uomo giusto: «Egli di buon mattino svegliandosi rivolgerà il cuor suo al Signore, che lo creò, e al cospetto dell'Altissimo farà la sua orazione» (Eccli, 39, 6). Mette prima l'orazione ordinaria, dicendo che il giusto si leverà la mattina di buon'ora, che è il tempo comodo per l'orazione, e per questa molto rammemorato nella Scrittura. Così in più luoghi dei Salmi leggiamo che diceva David: «Al mattino mi porrò innanzi a te… Prevenni il mattino ed alzai le mie grida… Prima del mattino a te si volsero gli occhi miei per meditare la tua legge… A te aspiro al primo apparire della luce» (Ps. 5, 4; 118, 147-48; 62, 1). Dice poi, svegliandosi, perché intendiamo che conviene stare all'erta e non addormentarsi, né farsi, a modo di dire, un cuscinetto dell'orazione. Di più dice che «darà il suo cuore» in potere dell'orazione, per significarci che non sta ivi solamente col corpo, tenendo poi il cuore in altri affari; ché questo non è fare orazione, anzi è questa chiamata dai Santi «una sonnolenza di cuore» ed effetto di cuore sonnacchioso e rilassato. Che è di grande impedimento per l'orazione, perché impedisce la riverenza che dobbiamo avere per trattare con Dio. E qual è quella cosa che cagiona questa riverenza nell'uomo giusto? Eccola. Il considerare che sta alla presenza di Dio e, che va a parlare a quella sì grande Maestà, questo lo fa stare con riverenza e con attenzione. Questa è la preparazione e disposizione colla quale abbiamo da andare all'orazione.

Ma vediamo che orazione è quella che fa il giusto. Aprirà la sua bocca nell'orazione e comincerà col chiedere a Dio perdono dei suoi peccati e col confondersi e pentirsi di essi (Eccli. 19, 7). Questa è l'orazione che noi altri abbiamo da fare dalla parte nostra, piangere le nostre colpe e peccati, e chiedere a Dio misericordia e perdono di essi. Non ci dobbiamo contentare di dire: già feci una confessione generale nel principio della mia conversione, e allora mi trattenni alcuni giorni in piangere e in pentirmi dei miei peccati. Non conviene che, confessati i peccati, ci dimentichiamo di essi, ma che procuriamo di tenerli sempre dinanzi agli occhi, come confessa di sé che faceva il Santo David: «Il mio peccato mi sta sempre davanti» (Ps. 50, 5).

Dice molto bene S. Bernardo sopra quelle parole: «il talamo nostro è fiorito» (S. BERN. in Cant. serm. 46, n. 6). Il tuo letto, cioè il tuo cuore, se ne sta tuttavia puzzolente; non è finito ancora di levarsi via da esso il cattivo odore dei vizi e delle male inclinazioni che portasti dal secolo; e hai ardire d'invitare lo Sposo, che venga ad esso; e già vuoi trattare d'altri esercizi alti ed elevati d'amore e d'unione con Dio, come se tu fossi perfetto? Tratta prima di mondare e di lavar molto bene il tuo letto con lagrime, dicendo con David: «Laverò di pianto tutte le notti il mio letto; il luogo del mio riposo irrigherò colle mie lagrime» (Ps. 6, 6). Tratta prima di adornarlo coi fiori della virtù, e poi inviterai lo Sposo che venga ad esso, come faceva la Sposa. Tratta del bacio dei piedi, umiliandoti e dolendoti grandemente dei tuoi peccati; e del bacio delle mani, cioè d'offrir a Dio opere buone, e di procurar di ricevere dalle sue mani le vere e sode virtù; e cotesto altro terzo bacio della bocca lascialo per quando Dio si compiacerà d'innalzarti ad esso.

Si dice d'un Padre molto antico e molto spirituale, che se ne stette vent'anni in questi esercizi della via purgativa; e noi altri subito ci stanchiamo e vogliamo salire al bacio della bocca e ad esercizi d'amore di Dio. Vi bisogna buon fondamento per tirar su una fabbrica tanto alta. E v'è in questo esercizio, oltre molti altri beni e utilità, di cui appresso parleremo, questo particolar bene, che è un rimedio molto grande e una medicina molto preservativa per non cader in peccato. Perché uno che continuamente sta odiando il peccato e confondendosi e dolendosi d'aver offeso Dio; sta molto lontano dal commetterlo di nuovo. E per contrario avvertono i Santi, che la cagione d'esser caduti alcuni, che parevano molto spirituali e uomini di orazione, e forse erano tali, è stato il mancamento di questo esercizio; perché si diedero di tal maniera ad altri esercizi e ad altre considerazioni soavi e gustose, che si dimenticarono dell'esercizio della cognizione di se stessi e della considerazione dei loro peccati. Onde vennero a fidarsi troppo di se medesimi e a non camminare con tanto timore e circospezione quanto dovevano; e con ciò incorsero in quello in cui non dovevano incorrere. Perché presto si dimenticarono della loro bassezza, presto anche caddero dall'altezza nella quale pareva loro di essere. Per questo dunque conviene grandemente che la nostra orazione per lungo tempo sia il piangere i nostri peccati, come dice il Savio, sin a tanto che il Signore ci porga la mano e ci dica: «Amico, vieni più in su» (Luc. 14, 10).

 

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Due tipi di orazione mentale

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

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TRATTATO V. DELL'ORAZIONE

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CAPO IV. Di due sorta d'orazione mentale

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1. Orazione mentale ordinaria e straordinaria.
2. La straordinaria è dono speciale di Dio.
3. Non si ha da pretendere

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1. Lasciata da parte l'orazione vocale, tanto santa e tanto usata nella Chiesa di Dio, tratteremo adesso solamente della mentale, della quale parla l'Apostolo S. Paolo scrivendo a quei di Corinto: Orerò, canterò e alzerò la mia voce a Dio con lo spirito e col cuore (I Cor 14, 15). Due sorte vi sono d'orazione mentale: una è comune e ordinaria; l'altra è specialissima, straordinaria e molto sublime, la quale più è ricevuta che fatta, come dicevano quei Santi antichi, molto esercitati nell'orazione. S. Dionigi Areopagita dice del suo maestro Ieroteo che era patiens divina (De Div. Nomin. [auct. nic.] c. 2, § 9)2, il che vuol dire che più stava ricevendo quello che Dio gli dava, che facendo. Tra queste due sorte d'orazione v'è molto gran differenza; perché la prima si può in qualche modo insegnare di qua con parole; ma la seconda non può esser da noi insegnata, perché non si può con parole spiegare: «perché non saputa da nessuno, fuorché da chi la riceve» (Apoc. 2, 17). È una manna nascosta, che niuno sa quel che sia, se non chi la gusta. E né anche quel medesimo che la gusta può spiegare come ella sia fatta, neppure egli stesso comprende intieramente come vada la cosa; come notò molto bene Cassiano, il quale porta a questo proposito una sentenza di Sant'Antonio abate, chiamata da lui divina e celeste. «Non è perfetta orazione, diceva il Santo, quando uno si ricorda di sé, o intende quel che ora» (CASS. Coll. 9 abb. Isaac, c. 31). Questa alta e sublime orazione non comporta che colui che ora si ricordi di sé, né che faccia riflessione in quel che sta facendo o, per dir meglio, patendo più che facendo.

Come avviene di qua molte volte, che sta una persona tanto assorta e ingolfata in un negozio, che non si ricorda di sé, né ove stia, né fa riflessione sopra quel che pensa, né avverte come lo pensa. Ora così in questa perfetta orazione sta l'uomo tanto assorto e rapito in Dio, che non si ricorda di sé, né intende come stia quella cosa, né dove vada, né donde venga; né bada allora a metodi, a preamboli, né a punti, né al venire ora una cosa ora un'altra, come avveniva allo stesso Antonio, e l'apporta Cassiano (ID. loc. cit. col. 807), che cominciava l'orazione verso la sera, e se ne stava in essa sin a tanto che il sole la mattina seguente levandosi gli batteva su gli occhi; e si lamentava ora del sole, perché si levava tanto per tempo a togliergli il lume che Nostro Signore gli dava interiormente. È S. Bernardo dice di questa orazione: «È rara questa ora, ed è sempre breve il tempo che si spende in essa» (S. BERN. Serm. 23 in Cant. n. 15); poiché per lungo che sia diventa un soffio. E S. Agostino, sentendo in sé questa orazione, diceva: M'avete dato, o Signore, un affetto e una dolcezza e soavità tanto nuova e inusitata, che se la cosa andrà avanti, io non so che fine sarà per avere (S. AUG. confess. l. 10, c. 40).

Ed anche in questa medesima specialissima orazione e contemplazione mette S. Bernardo tre gradi: il primo lo paragona al mangiare; il secondo al bere che si fa con più facilità e soavità che il mangiare, perché non vi è la fatica del masticare; il terzo all'inebriarsi (S. BERN. Serm. 87 de divers. n. 4). Ed apporta a questo proposito quello che dice lo Sposo nei Cantici: «Mangiate, o amici, e bevete, e inebriatevi, carissimi» (Cant. 5, 1). La prima cosa dice, mangiate; la seconda, bevete; la terza, inebriatevi di quest'amore: e questa è la cosa più perfetta. Tutto questo è più ricevere che fare. Alcune volte l'ortolano cava l'acqua a forza di braccia dal suo pozzo; alcune altre, standosene egli con una mano sopra l'altra, viene la pioggia dal cielo, la quale inzuppa la terra, e l'ortolano non ha da far altro che riceverla e avviarla ai piedi degli alberi, acciocché rendano frutto. Così sono queste due sorte d'orazione, che l'una si cerca coll'industria aiutata da Dio, e l'altra si trova fatta: per la prima tu vai faticando, mendicando e campando di questa mendicità; la seconda ti mette innanzi una mensa che Dio t'ha preparata per saziare la tua fame, mensa ricca ed abbondante. «M'introdusse il re nei suoi penetrali» (Cant. 1, 3), diceva la Sposa dei sacri Cantici. «Li consolerò nella casa mia d'orazione» (Isa. 56, 7), dice Dio per bocca d'Isaia. Vi rallegrerò e v'accarezzerò nella casa della mia orazione.

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Orazione: è facile, eccellente e necessaria

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

 

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TRATTATO V. DELL'ORAZIONE

 

 

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CAPO III. Siamo grandemente debitori a Dio per aver resa facile una cosa che da una parte è tanto eccellente e dall'altra tanto necessaria.

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1. Possiamo sempre pregare.
2. Il Signore dà sempre udienza.
3. Non s'infastidisce che gli si chieda
4. Profittiamone

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1. Sarà cosa ragionevole che consideriamo e ponderiamo qui la grande e singolare grazia fattaci dal Signore, mentre essendo da un canto l'orazione una cosa di sua natura tanto alta ed eccellente, e dall'altro essendo a noi tanto necessaria, ce l'ha fatta a tutti tanto facile, che sempre è in mano nostra il farla, e in ogni luogo e tempo la possiamo fare. Mi sta accanto l'orazione, perché ad ogni ora che voglia la possa fare a Dio, che mi dà la vita, dice il Profeta David (Ps. 41, 8). Mai non si serrano quelle porte della misericordia di Dio, ma a tutti sono sempre aperte; sempre lo troveremo disoccupato e desideroso di farei del bene; anzi egli stesso ci sta sollecitando perché gli domandiamo.

2. È molto buona quella considerazione che si suole apportare a questo proposito. Se Dio desse licenza che una sola volta al mese tutti quelli che volessero potessero entrare a parlargli, protestandosi che egli molto volentieri darebbe loro udienza e farebbe loro delle grazie, sarebbe questa una cosa da stimarsi grandemente; poiché si stimerebbe ancora se la facesse un re temporale. Or quanto più è ragionevole che stimiamo l'offrirei Dio questo favore e l'invitarci ora non solo una volta al mese, ma ogni giorno e molte volte il giorno? Dice il profeta David, abbracciando tutti i tempi: La sera, la mattina, il mezzo giorno esporrò e rappresenterò al mio Dio i miei travagli e le miserie, e ho gran fiducia che tutte le volte e in qualsisia tempo che io ricorrerò a lui mi esaudirà e mi favorirà (Ps. 54, 18).

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Della necessità che abbiamo dell’orazione

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO V. DELL'ORAZIONE

 

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CAPO II. Della necessità che abbiamo dell'orazione.

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1. Si deduce dai nostri bisogni.
2. E mezzo ordinario della grazia.
3. Mezzo per ben regolare la vita.
4. Specchio in cui contemplare se stesso.
5. E come il calore vitale.
6. Rimedio di tutto

 

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1. Quanto necessaria ci sia l'orazione ne abbiamo una troppo grande esperienza: piacesse al Signore che non ne avessimo tanta! Perché siccome l'uomo ha tanta necessità del favore di Dio, per essere soggetto a tante cadute, assediato da tanti e sì gravi nemici e tanto bisognoso di molte cose spettanti sì all'anima come al corpo; non ha altro rimedio che il ricorrere sempre a Dio, chiedendogli con tutto il cuore che lo favorisca e lo aiuti in tutti i suoi pericoli e necessità, conforme a quello che disse il re Giosafat, vedendosi circondato dai nemici: «Non sapendo noi che dobbiamo fare, questo solo ci rimane, di rivolgere a te i nostri occhi» (II Paral. 20, 12). Essendo noi tanto deboli, e trovandoci tanto poveri e bisognosi né sapendo quel che dobbiamo fare; non abbiamo altro rimedio che alzar gli occhi a Dio e chiedergli coll'orazione quelle cose delle quali siamo bisognosi. E così Celestino Papa, in una sua Epistola decretale, per insegnare l'importanza di questa orazione, dice: lo non so cosa migliore da potervi dire, che quello che disse Zosimo mio predecessore: «Che tempo v'è nel quale non abbiamo necessità dell'aiuto di Dio? Nessuno. Dunque in ogni tempo, in tutte le cose e in tutti i negozi abbiamo da ricorrere a lui con l'orazione per chiedergli favore. perché è gran superbia che un uomo debole e miserabile presuma qualche cosa di sé» (COELESTIN. I PAP. Ep.21, c. 9).

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Del valore e dell’eccellenza dell’orazione

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO V. DELL'ORAZIONE

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CAPO I. Del valore e dell'eccellenza dell'orazione

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1. Gli angeli presentano a Dio le nostre orazioni.
2. Eccellenza dell'orazione.
3. L'orazione è conversazione con Dio.

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1. Il glorioso Apostolo ed Evangelista S. Giovanni nella sua Apocalisse (Apoc. c. 8, 3-4) dichiara bene il valore e l'eccellenza dell'orazione. Dice egli che stava l'angelo dinanzi all'altare, e teneva in mano un incensiere d'oro, e gli fu data una gran quantità d'incenso, che erano le orazioni dei Santi, acciocché le offrisse nell'altare d'oro che stava dinanzi al trono di Dio; e che il fumo dell'incenso dalla mano dell'angelo salì in alto verso la maestà del medesimo Dio. S. Giovanni Crisostomo (S. CHRYS. Opus imperf. in Matth. hom. 13), trattando di questa visione, dice: In questa vedrete quanto alta e preziosa cosa sia l'orazione; poiché essa sola nella divina Scrittura viene comparata al timiama, che era una composizione d'incenso e di altri fragrantissimi odori. Perché, come l’odore del timiama ben composto diletta grandemente, così l'orazione fatta come si deve è molto soave e grata a Dio, e rallegra e ricrea gli angeli e tutti quei cittadini del cielo. Di maniera tale che S. Giovanni dice, che tendono nelle loro mani certi vasetti d'oro pieni di meravigliosi odori, che sono le orazioni dei Santi, ai quali vanno del continuo appressando il purissimo loro odorato (così spiegandosi in quel modo col quale di qua ci possiamo noi spiegare) per godere di questo soavissimo odore. «Avendo ognuno di loro nappi d'oro pieni di materie odorifere, che sono le Orazioni dei Santi» (Apoc. 5, 8).

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Terza specie di unioni non buone

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO IV. DELL'UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XX. Terza specie di unioni non buone: per alterare l'Istituto.

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1. Gran male del collegarsi per alterare l'Istituto.
2. Costoro devono essere cacciati dalla religione.
3. Dio ispira i fondatori delle religioni.
4. Esempio di S. Francesco d'Assisi.
5. Eresiarchi e innovatori.
6. La Compagnia di Gesù confermata dal Concilio di Trento.
7. Stima in che l'ebbe Cardo Cervino.
8. Bolle dei Papi Gregorio XIII e XIV.

 

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1. La terza specie di adunanze e di amicizie particolari è peggiore e più contraria all'unione è carità fraterna che le precedenti; ed è quando alcuni particolari s'uniscono e s'adunano fra di loro per alterare l'Istituto della religione e le cose statuite in essa santamente. S. Bernardo dichiara molto bene a questo proposito quel passo dei Cantici: «I figli della madre mia hanno preso a combattere contro di me» (Cant.1, 5); nel quale la Sposa si lamenta, in nome della Chiesa, di quel che ha patito dai suoi figliuoli. Non è, dice il Santo (S. BERN. Serm. 29, n. 2), perché non si ricordi quanto ha patito dai Gentili, dai Giudei e dai tiranni; ma piange più particolarmente quel che le penetra più dentro all'anima, che è la guerra che le fanno i nemici domestici e intrinseci, la quale è molto peggiore e più pregiudiziale di quelle che le possono fare quanti nemici sono di fuori.

Questo medesimo possiamo applicare alla religione, la quale è un membro principale della Chiesa e cammina coi passi medesimi coi quali ella ha camminato. I miei propri figliuoli, essa dice, hanno prese le armi contro di me. Io li ho allevati, li ho fatti ammaestrare negli studi e li ho addottrinati con tanta mia spesa, travaglio e fatica; e queste armi, che ho date loro acciocché combattessero con esse contro il mondo e convertissero anime a Dio, le hanno rivoltate contro di me, e con esse fanno guerra alla loro stessa madre. Considerate se questo è dolore da sentirsi!

Ma sebbene è cosa da sentirsi grandemente, non abbiamo da meravigliarci di simile persecuzione; poiché lo stesso S. Francesco in vita sua l'ebbe nella sua religione. E la Chiesa cattolica, anche mentre vivevano i Santi Apostoli, patì questa persecuzione dai suoi propri figliuoli, i quali se le ribellavano con errori ed eresie che inventavano. Vanno i membri seguendo il loro capo, che è Cristo, il quale camminò per questa strada dei travagli e delle persecuzioni; perché con esse si purificano meglio gli eletti, come l'oro nel crogiuolo. E così l'Apostolo S. Paolo disse: «Fa di mestieri che vi siano anche delle eresie, affinché si palesino quelli che fra voi sono di buona lega» (I Cor 11, 19). E Cristo nostro Redentore, come si legge in S. Matteo, dice: «Necessaria cosa è che vi siano degli scandali, ma guai all'uomo per colpa del quale viene lo scandalo» (Matth 18, 7), Vi hanno da essere scandali nella Chiesa, scandali vi hanno da essere nella religione: questo non si può evitare, perché siamo uomini; ma guai a colui che sarà cagione di tali scandali: sarebbe meglio per lui ch'egli non fosse nato.

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Seconda specie di unioni non buone: cercare protettori

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO IV. DELL'UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XIX. Seconda specie di unioni non buone: cercare protettori.

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1. Non cercare protettori nella religione.
2. Perché dannoso alla comunità.
3. Cerchiamo solo il profitto spirituale: esempio di Salomone.
4. E non l'appoggio degli uomini.

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1. Vi è una seconda specie di amicizie particolari, differenti dalle passate, perché hanno altro fine differente, e che non sono meno pregiudiziali alla comunità e all'unione e carità fraterna, anzi più. Queste sono quando uno, desideroso di salire, di farsi valere e di essere riputato e stimato, si unisce e aderisce a quelli che gli pare che lo potranno aiutare. Cassiano dice (CASSIAN. Coll. 7 ab. Theo) che, come le infermità grandi del corpo si vanno generando a poco a poco, così le infermità spirituali e i mali grandi dell'anima si vanno anch'essi a poco a poco generando. Dichiariamo ora in che modo si vada generando nell'anima questa infermità, e insieme andremo dicendo della via ordinaria per la quale viene a guastarsi e a rovinarsi uno studente religioso.

Esce uno dal noviziato con buon profitto, per grazia del Signore, con grande stima delle cose spirituali e con molta affezione ad esse, come la ragion vuole che ne esca. Va ai collegi; ed ivi col fervore degli studi comincia ad allentare negli esercizi spirituali, o lasciandoli in parte, o facendoli per usanza o per complimento, senza cavar frutto da essi; che viene ad esser lo stesso. Passa innanzi, e come già per una parte gli vanno mancando le armi spirituali, perché non fa più i suoi esercizi come deve, e per l'altra la scienza gonfia e cagiona vanità; va a poco a poco apprezzando e stimando quel che tocca ingegno e talenti, e scemando di apprezzamento e di stima per quello che tocca virtù o umiltà. Questa è la porta per la quale entra e comincia ordinariamente tutto lo sconcerto, disordine e detrimento degli studenti; onde si dee avere grande avvertenza per ben premunirvisi. Va diminuendo in essi il pregio e la stima della virtù, dell'umiltà, della mortificazione e di tutto quello che concerne le cose spirituali, spettanti il loro profitto; e a proporzione va crescendo il pregio e la stima delle lettere e delle abilità, parendo loro che quella abbia da esser la via per cui hanno ad avanzarsi, a distinguersi e a condursi ad esser riputati e stimati. E così cominciano a drizzar la mira a questo bersaglio, e desiderano esser tenuti per persone di buon ingegno e di buoni talenti; e per questo fine ambiscono che riesca loro bene l'argomentazione e la conclusione. Così si gonfiano di vento e cercano tutte le occasioni per spiccare e far mostra di sé, e forse per oscurare gli altri, acciocché non vadano loro innanzi. Quindi passano più oltre e cominciano a procurare di cattivarsi il maestro e il consultore e tutti quelli che pensano che li potranno aiutare e mettere in grazia dei Superiori; e stringono con essi amicizia. Tutto in ordine al fine di avanzarsi, di farsi valere, di essere riputati e stimati e per avere questi Padri più gravi favorevoli nelle cose loro.

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Prima specie di unioni non buone: amicizie particolari

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XVIII. Prima specie di unioni non buone: amicizie particolari.

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1. Amicizie particolari dannose alla comunità.
2. Sono da aborrirsi.
3. Esempio.

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   1. Abbiamo finora trattato de1l’unione ed amor buono e spirituale; ora andremo trattando di tre specie che si trovano d’amore non buono né spirituale, ma cattivo e pregiudiziale.
   Il beato S. Basilio nelle Costituzioni monastiche (S. BAS. const. monast. c. 29) dice che i religiosi devono avere grande unione e carità fra di loro; ma in maniera tale, che non vi siano amicizie né affezioni particolari, per queste facendo lega insieme due, o tre: perché questa non sarebbe carità, ma divisione e sedizione, ancor che simili amicizie paiano buone e sante. E nel primo sermone ascetico discendendo circa questa materia più al particolare, dice: «Se si troverà che alcuno porti maggiore affezione ad un religioso che ad un altro, benché sia per esser suo fratello carnale, o per qualsivoglia altro rispetto; sia questo tale castigato, come chi fa ingiuria alla carità comune». E del come si faccia questa ingiuria alla comunità ne rende ivi la ragione, che più espressamente ancora poi replica nel sermone seguente (ID. l. cit. col. 886), dicendo: perché colui che ama uno più che un altro, dà chiari indizi di non amar gli altri perfettamente; perché non li ama tanto quanto quell’altro; e così con questo offende gli altri e fa ingiuria a tutta la comunità. E se l’offendere uno solo è cosa tanto grave, che il Signore dice che è toccar lui nella pupilla degli occhi suoi (Zach. 2, 8), che cosa sarà l’offendere tutta una comunità, e comunità tale? Onde ingiunge colà S. Basilio molto caldamente ai religiosi, che in nessuna maniera amino più particolarmente uno che un altro, né pratichino singolarmente più con questo che con quello; acciocché non facciano torto, né diano a persona occasione d’offendersi: «non dando noi ad alcuno occasione d’inciampo», come dice l’Apostolo (II Cor. 6, 3) ma, abbiamo un amore e una carità comune e generale verso di tutti, imitando in questo la bontà e carità di Dio, il quale distribuisce il suo sole e la sua pioggia sopra di tutti ugualmente. «Il quale fa che si levi il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi, e manda la pioggia per i giusti e per gl’iniqui» (Matth. 5, 45).
   E dice il Santo che queste amicizie particolari sono nella religione un gran semenzaio d’invidie e di Sospetti, e ancora di odi e di inimicizie, ed inoltre sono cagioni che vi siano divisioni, circoli e partiti, che sono la peste della religione. Perché ivi uno palesa le sue tentazioni; un altro i suoi giudizi; questi le sue querele; quegli altre cose segrete che dovrebbero esser taciute; ivi sono mormorazioni e qualificazioni di questo e di quello, e alle volte ancora del Superiore. Ivi si attaccano i difetti dell’uno all’altro, di maniera che ciascuno in pochi giorni fa vedere in se stesso quelli che gli ha attaccati il compagno. E finalmente sono cagione queste amicizie della trasgressione. di molte regole, e del far uno molte cose che non deve, per corrispondere al suo amico, come lo provano quelli che hanno simili amicizie.

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Esempi di giudizi temerari

Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XVII. Si conferma quel che si è detto con alcuni esempi di giudizi temerari.

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1. Dell’abate Isacco.
2. Di Totila, re dei Goti.
3. D’un monaco.
4. Di Fra Leone.
5. Di S. Francesco d’Assisi.
6. D’un altro monaco.
7. Dell’abate Machete.
8. D’un altro monaco.

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   1. Nelle Vite dei Padri si racconta dell’abate Isacco, che venendo egli un giorno dalla solitudine, nella quale viveva, ad una congregazione di monaci, giudicò male d’uno, tenendolo per degno di pena, perché vide in esso alcuni indizi di poca virtù. Ritornandosene poi verso la sua cella, trovò su la porta di essa un angelo in piedi, il quale gl’impediva l’entrata. Di che dimandandogli il santo abate la cagione, rispose l’angelo, che il Signore l’aveva mandato per dirgli ove voleva o comandava che gettasse quel monaco, ch’egli già aveva giudicato e condannato. Allora l’abate, conoscendo la sua colpa, dimandò perdono al Signore; e l’angelo gli disse, che il Signore gli perdonava per allora; ma che per l’avvenire si guardasse bene di farsi giudice e di dar sentenza contro alcuno, prima che il Signore, il quale era il giudice universale, lo giudicasse (De vitis Patr. l. 3. n. 137; l. 5, lib. 9, n. 3).

   2. Narra S. Gregorio di Cassio, vescovo di Narni, gran servo di Dio, che era naturalmente molto rubicondo e acceso di faccia; e che vedendolo Totila, re dei Goti, giudicò che quella cosa procedesse dal bere assai. Ma il Signore ebbe cura di pigliar subito la difesa dell’onore del suo servo, permettendo che il demonio entrasse repentinamente in un ufficiale del re, che portava il suo stocco, e che lo tormentasse lilla presenza del re e di tutto l’esercito. Condussero perciò l’indemoniato al santo uomo, il quale facendo sopra di lui orazione e il segno della croce, lo liberò subito dal demonio. Per il quale successo il re mutò il suo giudizio e da lì innanzi fece di lui grande stima (S. GREG. Dial. c. 6).

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Le radici da cui procedono i giudizi temerari

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composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.

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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA

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CAPO XVI. Delle cagioni e radici dalle quali procedono i giudizi temerari e dei loro rimedi

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1. La superbia.
2. La propria malizia.
3. Che fare se si vedesse cosa apertamente cattiva?
4. L’interna avversione.
5. Dio non si sdegna, e ci sdegneremo noi?
6. perché Dio permette dei difetti anche nei Santi. Le imperfezioni dei Santi.

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   1. La prima radice, dalla quale sogliono nascere i giudizi temerari, è quella stessa che è ancora radice di tutti gli altri mali e peccati, cioè la superbia; ma in particolar modo è radice di questo. S. Bonaventura (S. BONAV. Stim. amor. p. 3, c. 4) nota qui una cosa degna di considerazione, e dice che le persone che si tengono per spirituali, sogliono esser più tentate in questa materia di giudicare e di qualificar altri; onde pare che vogliano metter in esecuzione quello che l’Apostolo S. Paolo disse in altro senso: «L’uomo spirituale giudica di tutte le cose» (I Cor 2. 15). Pare a costoro di veder in sé doni speciali di Dio; e mentre dovrébbero essere con ciò più umili, a volte se ne pavoneggiano e si pensano di essere qualche cosa; e in confronto di loro fanno poco conto degli altri, quando li vedano andare meno ritirati, o più affaccendati e distratti in cose esteriori. E quindi viene in essi un certo spirito riformativo dell’altrui modo di vivere, dimenticandosi di se medesimi.

   Dicono i Santi che la semplicità è figliuola dell’umiltà perché il vero umile tiene gli occhi aperti solo per vedere i difetti e mancamenti propri, e li tiene serrati per non veder quelli del suo prossimo; e trova sempre tanto che guardar in sé e tanta materia da piangere, che non se gli alzano gli occhi né il pensiero ai difetti e mancamenti altrui: onde se uno è vero umile, è molto lontano da questi giudizi. E così i Santi danno per molto importante rimedio, tanto contro questo vizio, quanto contro molte altre cose, che teniamo gli occhi aperti solamente per vedere i difetti nostri, e serrati per non vedere i difetti dei nostri prossimi, acciocché non siamo come gl’ipocriti, che nel Vangelo leggiamo da Cristo spesse volte ripresi perché facevano tutto il rovescio. «È perché osservi tu una pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, e non fai riflessione alla trave che hai nell’occhio tuo?»  (Matth. 7, 3).

   Il tener sempre gli occhi volti ai nostri propri difetti reca seco grandi beni e utilità: reca umiltà e confusione; reca timor di Dio e raccoglimento di cuore; reca gran pace e quiete: ma l’andar osservando i difetti altrui reca seco grandi mali e inconvenienti, come sono superbia, giudizi temerari, sdegno contro il fratello e vilipendio di esso, inquietudini di coscienza, zeli indiscreti e altre cose che turbano il cuore. E se talvolta vedrai qualche difetto nel tuo prossimo, ciò sia, dicono i Santi, per cavarne frutto. S. Bonaventura (S. BONAV. in Reg. Novit. c. 13) insegna un buon modo di far questo, dicendo: Quando vedrai nel tuo fratello qualche cosa che ti dispiaccia, prima di giudicarlo entra cogli occhi della mente dentro te stesso e guarda se è in te qualche cosa degna di reprensione; e se vi è, ritorci la sentenza contro te stesso e condannati in quella cosa, nella quale volevi condannar l’altro, e di’ col Profeta: «Io sono quegli che ho peccato, io quegli che ho operato iniquamente» (II Reg. 24, 17). Io sono lo scellerato e perverso, che non merito di baciare la terra che l’altro calca, e ho ardire di giudicarlo? Che ha che fare quel che io vedo nel mio fratello con quel ch’io so di me stesso? S. Bernardo (S. BERN. Varia et brev. Docum.) insegna un altro modo molto buono che possiamo usare in questo. «Se vedrai, egli dice, in un altro qualche cosa che ti dispiaccia, rivolgi subito gli occhi a te medesimo, e guarda se quella cosa è in te; e trovandovela, troncala subito. E quando vedi nel tuo fratello qualche cosa che ti piace, rivolgi similmente gli occhi a te stesso, e guarda se quella è in te; ed essendovi, procura di conservarla; non essendovi, procura d’acquistarla». In questa maniera da ogni cosa caveremo frutto e utilità.

 

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