Uguaglianza in basso

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LA
TUNICA STRACCIATA

di Tito Casini




















«L’esperienza ha mostrato come il ripiegamento

sull’unica categoria del “comprensibile a tutti”

non ha reso le liturgie davvero più comprensibili,

più aperte, ma solo più povere.»




(Card. Joseph Ratzinger, nel cap. IX del volume Rapporto sulla fede,
1985, edizioni San Paolo)

Uguaglianza
in basso

Era il
comunismo, tipicamente romagnolo, di un tempo, che al proletario, al contadino, all’operaio,
non diceva: «Un giorno mangerai anche tu la bistecca, vestirai bene, ti scarrozzerai,
ti divertirai, farai istruire i tuoi figlioli eccetera eccetera, come i signori»;
ma: «Anche i signori noi li costringeremo, un giorno, a mangiare come te la
cipolla, a lavorare nel campo o in fabbrica, a andare a piedi, abbassar tutti la
testa, e zoca e manera, ciocco e mannaia, per chi tentasse di alzarla».
Un comunismo fatto di odio – odio per una «classe», più che di
amore per un’altra – che dell’odio si vale ancora ma al servizio di un più
attraente programma. Chi rivendicava, un tempo, «la terra ai contadini»
dice oggi: «La terra ai signori, se gli piace di lavorarsela», e come
i signori vuol mangiare, vestire, divertirsi, abitare una bella casa, con qualche
quadro e mobile antico, come ci vuole: innalzare, insomma, e in tutto, il proprio
livello. Livello culturale, anzitutto – «Non in solo pane vivit homo»:
essi lo han capito, sia pure in parte – e son figli dell’«autentico popolo»,
in ogni ordine e grado di scuola, i più volenterosi studenti. E voialtri?

Voialtri, triste a dirsi, li avete considerati e trattati, con la vostra liturgia
«proletaria», se non vogliamo dir «classista», col criterio
deprimente e umiliante di quel primo comunismo: voi avete portato in chiesa, nella
preghiera, quella mentalità arretrata e offensiva che l’ignominia dei vostri
testi ci fa sentire ancor più volgare. «La messa di noi ciuchi»:
così ho sentito definir da un del popolo la «vostra» messa, e
non m’è parso che la sua voce tradisse riconoscenza per voi.



«Sì, tu sei ciuco», voi avete detto al popolo, al nostro popolo,
col vostro 7 marzo: «ciuco, senza tua colpa, e al ciuco non giova scuola, per
cui noi non ci confonderemo a istruirti, a spiegarti che cosa significhino certe
cose, anche se all’apparenza facili, specie per te ciuco italiano. Ai ciuchi
si dà la paglia e noi te la diamo, imponendo per altro a tutti lo stesso foraggio.
Non più dunque – uscendo dal figurato e principiando dal principio – In
nomine Patris…
che tu non sai nè puoi saper come si traduca, ma «In
nome» (anzi «Nel nome», per farti subito gustare il genere di paglia,
un po’ grossa, per te preparata), come non sai nè puoi saper che Confiteor
vuol dire «Confesso», che Gloria vuol dir «Gloria»,
Deo gratias vuol dir «Grazie a Dio», Credo vuol dir «Credo»,
Sanctus vuol dir «Santo», Pater noster, «Padre nostro»,
Agnus Dei, «Agnello di Dio» (da non confondersi con l’abbacchio),
non sum dignus, «non son degno», Ite, in ultimo, «andate»
(«in pace», abbiamo aggiunto per te, ma attento a non sbagliare indirizzo!)
e scusaci se per evitar quiproquo abbiamo lasciato in latino due parolette che ai
tuoi orecchi di ciuco potevano parer, tradotte, un’imprecazione… Tu sei ciuco,
caro popolo, e in considerazione di questo non abbiamo badato ne alla grammatica
nè, tanto meno, all’estetica, alla poesia, alla bellezza, cose che non si
mangiano e di cui tu ridi, come noialtri. Che ne sai tu, per esempio, ossia che t’importa
della consecutio temporum? Passato prossimo o passato remoto per te fan lo stesso
(salvo agli effetti del mangiare), e così, con buona pace della sintassi,
noi ti facciamo caracollare fra l’uno e l’altro: «discese dal cielo…
s’è fatto uomo … fu pure crocifisso» (tra l’altre cose!)
«è risuscitato…» Item, che differenza c’è, per
te, che non ce la faresti certo a capire che cosa significhi «in unitate»,
fra il dire «nell’unità», come par che voglia la teologia, e il
dire «in unione», come abbiamo riformato noialtri? A ogni buon conto,
noi rammentiamo all’Eterno Padre, in una piccola parentesi, che anche Gesù
è Dio («in unione col tuo Figlio, che è Dio»: non
manca che il «pure») e la dolcezza della parola «Salvatore»,
seguita dalla parola «Padre», non ci toglie di vedere in Lui quasi un
colonnello al cui ordine si deve scattare e dir signorsì: «Obbediente
al comando
del Salvatore…»

Chi salva non comanda: ama – ammonendo, per amore, e ammaestrando
– e chi è salvato non obbedisce: riama, che include il più
perfetto obbedire; e permettete, Eminenza, questo raglio in mezzo al vostro discorso,
per dirvi che anche i ciuchi… eh, via, non esageriamo! e io vi assicuro, Eminenza,
io che facendo parte dei branco ne sono, qui, il portavoce, che le cose stanno esattamente
all’opposto: il popolo sente, e in verità non ci vuol molto, la «barbarie»,
la «bruttezza inammissibile, intollerabile» della «messa nuova»,
riformata, la bellezza di quella che gli avete portato via… senza la malizia, sia
detto, dell’antiquario o del pataccaro nei riguardi dell’inesperto campagnolo, non
percependo voi stessi il valor del baratto.

Vivaddio, il vostro antesignano Scipione Ricci (come i protestanti, del resto) aveva
barattato il latino con un volgare, per quei tempi, assai meno volgare del vostro,
e nondimeno voi sapete come venne accolta dal popolo la sua messa: coi randelli e
l’aut-aut, gridato sotto le finestre dei preti: «O Messa antica o bastonate
nuove!» Quei preti preferirono la Messa antica; non tanto, forse, per le minacce
quanto perchè videro, in atto, la bruttezza e gl’inconvenienti della riforma…
e lasciate che divaghi, a questo proposito, per raccontarvi quel che successe in
una di quelle chiese dove la riforma, appoggiata come si sa dal Granduca, era comunque
entrata in vigore.





Testo tratto
da: Tito Casini, La tunica stracciata. Lettera di un cattolico sulla riforma liturgica,
con prefazione del Card. Antonio Bacci, Firenze 1969/2, pp. 41-44.