«Procreazione
Responsabile»
di Lino Ciccone
4. MA COME COMPORTARSI?
Se la lettura
di fede della situazione ha fatto maturare la decisione responsabile nei coniugi
di accogliere il dono di una nuova vita, nessun problema morale particolare si pone
per il loro comportamento sessuale. Si pone invece nel caso opposto, ed è
il problema di quale dev’essere il loro comportamento sessuale perché rispetti
e promuova i valori in gioco, cioè perché sia responsabile.
Il principio formulato dal Concilio
(«Gaudium et Spes», n. 50)
Il Concilio non
affrontò il problema ora accennato, perché lo studio di esso era stato
affidato già da Giovanni XXIII a un’apposita commissione. In una nota del
testo della GS si preannuncia che la soluzione la darà il Sommo Pontefice
dopo la conclusione dei lavori da parte della Commissione. Ma il Concilio non mancò
di formulare il principio fondamentale per tale soluzione, nei termini seguenti:
«Il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione
e dalla valutazione dei motivi, ma dev’essere determinato da criteri oggettivi,
desunti dalla natura della persona e dei suoi atti, e che rispettano in un contesto
di vero amore il pieno significato della mutua donazione e della procreazione umana»(GS
51).
Dell’insufficienza
di buone intenzioni e di validi motivi, si è già detto. Rimane da vedere
quella parte di affermazione che costituisce il principio per dare giusta soluzione
al problema. Da un’attenta analisi di parole che sono state ben soppesate, l’insegnamento
dato qui dal Concilio può essere così schematizzato per maggior chiarezza:
1. i criteri per
la soluzione del problema devono essere «oggettivi», cioè
devono appartenere alla realtà da tutti verificabile, diversa da quella soggettiva
della sincerità di intenzioni e motivazioni;
2. La fonte da
cui desumerli dev’essere:
a) la natura
della persona, cioè la sua struttura essenziale e le sue caratteristiche
proprie, e
b) la natura
degli atti della persona, nel nostro caso dell’atto coniugale;
3. i valori
da salvaguardare integralmente nell’atto coniugale sono:
a) il suo significato
di vicendevole donazione interpersonale,
b) il suo significato
procreativo.
La conseguente
soluzione del problema nella «Humanae Vitae»
La «Gaudium
et Spes»fu promulgata il 7 dicembre 1965. La Commissione di studio terminò
i suoi lavori nel 1966. Paolo VI prese tempo per riflettere, studiare e pregare.
Infine pubblicò l’Enciclica «Humanae Vitae»il 25 luglio
1968.
a) Il criterio risolutivo (HV 12)
La soluzione del
problema viene collocata sul fondamento di una solida dottrina di carattere antropologico,
con particolare attenzione a chiarire la sana concezione di amore coniugale e di
paternità responsabile. Il criterio per la valutazione morale del comportamento
sessuale dei coniugi è costituito dalla inscindibilità dei due significati
propri dell’atto coniugale, il significato unitivo e quello procreativo. Ecco
le parole precise del testo: la dottrina della Chiesa «è fondata sulla
connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di
sua iniziativa, tra il significato unitivo e il significato procreativo, ambedue
insiti nell’atto coniugale».
La consonanza
fedele col principio formulato nel Concilio è di un’evidenza solare già
qui in vari elementi. La consonanza totale emergerà presto. Chi ha affermato
una contraddizione tra l’Enciclica e il Concilio appare in malafede.
È facile
intuire che, in base a tale criterio, risulta oggettivamente lecito solo il comportamento
sessuale che non cancella nessuno dei due significati dell’atto coniugale, illeciti
tutti gli altri. Lo vedremo tra poco.
b) Le ragioni su cui si fonda (HV 12-13)
Ma quali sono
le ragioni che giustificano il criterio dell’inscindibilità dei due significati
dell’atto coniugale? Paolo VI ne accenna solo qualcuna. È compito infatti
della teologia, più che del Magistero, quello di approfondire le basi su cui
poggia la verità annunciata dal Magistero.
La prima di queste
ragioni, esposta nella «Humanae Vitae», fa leva sull’«intima»
struttura dell’atto coniugale. Per comprendere la concisa formulazione, si
tenga presente che il fatto di parlare di «significati» nell’atto coniugale
implica la concezione della sessualità come forma di linguaggio, o di
comunicazione tra persone. Anzi l’atto coniugale è l’espressione, o linguaggio,
specificamente proprio dell’amore coniugale. Perciò la sua «intima struttura»
è tale da poterne esprimere sia la singolare forza unitiva, sia l’interiore
tensione verso la generazione. Sono questi i due significati essenziali dell’atto
coniugale. La loro inseparabilità, o esigenza morale di non sopprimerne nessuno,
è dunque un’esigenza di verità, propria di ogni linguaggio. Solo
così l’amore coniugale viene espresso quale realmente è. Mentre ogni
scissione, cioè ogni soppressione di uno dei due significati, costituisce
un’inammissibile sua falsificazione.
È opportuno
sottolineare che il significato procreativo è tale solo potenzialmente: l’atto
cioè pone, e non può che porre, solo alcune tra le condizioni di una
possibile procreazione. L’effettiva procreazione seguirà o no, a seconda che
quando l’atto viene posto si verifichino oppure no altre condizioni, che non è
l’atto a porre ma «leggi inscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna»
(HV 12). Particolarmente importante tra queste leggi è il ritmico susseguirsi
mensilmente nella donna di un breve periodo di fecondabilità e di periodi
infecondi.
Un’altra ragione
a sostegno dell’inscindibilità dei due significati dell’atto coniugale è
accennata nell’«Humanae Vitae», cioè: l’esistenza di limiti
morali invalicabili nei comportamenti che coinvolgono l’attuazione della sessualità
genitale, e quindi nell’atto coniugale. È quell’attuazione che rende l’uomo
e la donna potenziali collaboratori di Dio Creatore nella procreazione. E in quella
sessualità il Creatore ha inscritto chiare indicazioni circa le modalità
essenziali in cui tale collaborazione va posta. Ogni manipolazione sostanziale di
essa implica la pretesa di farsi «arbitri delle sorgenti della vita umana»
(HV 13).
c) Che cos’è moralmente inammissibile (HV
14)
Una volta stabilita
l’inscindibilità dei due significati dell’atto coniugale, si giunge facilmente
a una fondata valutazione morale del comportamento sessuale di coniugi che hanno
da attuare la decisione, responsabilmente presa, di non dare l’avvio a un processo
generativo.
Dire che è
moralmente inammissibile scindere i due significati dell’atto coniugale, equivale
a dichiarare illecito l’atto coniugale quando è compiuto da sposi che:
-non si amano,
e quindi lo privano del significato unitivo,
-o ne sopprimono
la potenziale procreatività.
In concreto, con
l’occhio a quest’ultimo caso, è chiaramente illecita ogni forma di contraccezione,
e lo è a maggior ragione la sterilizzazione. La contraccezione toglie
il significato procreativo a singoli atti coniugali, la sterilizzazione lo toglie
in radice a tutti gli atti. La «Humanae Vitae»ne parla al numero
14.
Nota. Attorno
alla contraccezione è stata creata una cortina fumogena di confusioni, fino
a spacciare come contraccezione anche alcune forme di aborto vero e proprio. Si ha
contraccezione quando si cerca di impedire la concezione, cioè l’incontro
e la fusione tra ovulo e spermatozoo. Quando invece il mezzo a cui si ricorre mira
a eliminare l’ovulo già fecondato, per esempio rendendone impossibile l’annidamento
nell’utero, si compie un vero e proprio aborto, dato che si sopprime così
la vita umana che cominciava il suo cammino di sviluppo.
Ma allora, una
coppia di sposi che ha motivi seri per evitare di procreare, come deve comportarsi?
Quale comportamento sessuale è lecito? La risposta deriva dallo stesso criterio
dell’inscindibilità dei due significati dell’atto coniugale.
Si è già
visto che la procreatività dell’atto coniugale è sempre e solo potenziale,
e il passaggio a un’effettiva procreazione avviene, oppure no, a seconda che sono
presenti o no altri fattori che non è l’atto coniugale a porre. Perciò
anche l’atto coniugale compiuto nelle fasi infeconde del ciclo femminile è
potenzialmente procreativo. Basterà dunque da parte di quegli sposi la scelta
di compiere l’atto coniugale solo durante tali fasi del ciclo, per dare attuazione
al loro responsabile progetto di fecondità, senza scissione alcuna tra i due
significati dell’atto stesso.
Un simile comportamento
viene denominato «continenza periodica». Fa dunque parte
della castità coniugale. Ed è «responsabile», perché
rispetta i valori in gioco: la dignità di persona nei due coniugi che
agiscono in base a una seria conoscenza della realtà sessuale; l’autenticità
del vicendevole donarsi, basato su una reale padronanza di sé; la veracità
dell’atto coniugale come espressione integra dell’amore coniugale; la condivisione,
tipica della condizione matrimoniale, spinta anche nel più intimo della vita
a due.
In altre parole,
e più brevemente: la doverosa regolazione dell’effettiva fecondità
di coppia viene attuata regolando in modo intelligente e responsabile il Comportamento
sessuale. All’origine di una tale scelta sta dunque evidentemente quella «natura
della persona e dei suoi atti», che abbiamo visto chiamata in causa nel principio
stabilito nella «Gaudium et Spes».
A rendere poi
concretamente praticabile questa regolazione intelligente e responsabile del comportamento
sessuale coniugale, viene il contributo scientifico costituito dai cosiddetti «metodi
naturali». Grazie a essi la donna può individuare con certezza il
periodo fertile e quelli infertili del suo ciclo, e la coppia può attuare
quell’alternanza di fruizione e di astensione nell’attività sessuale che costituisce
la continenza periodica.
Continenza periodica e contraccezione a confronto
Per cogliere più
agevolmente le differenze, dal punto di vista morale, fra continenza periodica
e contraccezione, può essere utile delineare un quadro sinottico che mette
a confronto, punto per punto, le principali caratteristiche dell’una e dell’altra.
La | La |
1. Mantiene sempre nella sua piena verità l’atto coniugale come espressione autentica dell’amore coniugale. | 1. Falsifica l’espressione più propria dell’amore coniugale cancellandone i caratteri essenziali di totalità del dono di sé e di tensione verso la fecondità. |
2. Esige una buona conoscenza della sessualità e della dinamica dell’atto sessuale, elemento indispensabile per un comportamento sessuale responsabile. | 2. Non richiede né sollecita alcuna conoscenza della sessualità, e sotto questo aspetto è deresponsabilizzante. |
3. Esige una solida padronanza di sé e la sviluppa ulteriormente estendendola a uno dei settori più difficilmente padroneggiabili. | 3. Non esige alcuna padronanza di sé, favorisce anzi il predominio delle forze istintive nella persona e nella coppia. |
4. Di conseguenza rende autentico il dono di sé, quindi anche l’amore coniugale che lo detta, e ciò anche nelle sue espressioni sessuali. | 4. Conseguentemente rende molto dubbia l’autenticità del dono di sé e facilita il capovolgimento in egoismo dell’amore, e il corrompersi delle sue espressioni sessuali in un egoismo a due, dove l’uno è per l’altro soltanto, o principalmente, mezzo per il proprio egoistico piacere. |
5. Esige e sviluppa uno stile di corresponsabilità e di impegno condiviso dai due coniugi anche nella sfera più intima della loro vita a due. | 5. Addossa ogni impegno su uno solo dei due, preferibilmente sulla donna, con conseguenti rischi e danni, disimpegnando completamente il partner. |
6. Perciò rende più profonda l’unità dei due, in una vera condivisione della rinuncia e della gioia. | 6. Perciò costituisce un fattore di disunione tra i due. |
7. È conseguente a un’antropologia e a un mondo di valori degno dell’uomo. | 7. È congeniale a un’antropologia e a un mondo di pseudovalori lesivi della vera dignità dell’uomo. |
8. Implica il riconoscimento di Dio come autore primo di ogni vita umana e del proprio ruolo di suoi collaboratori nella procreazione. | 8. Implica il rifiuto di riconoscersi collaboratori di Dio, e la pretesa di farsi arbitri e padroni assoluti del sorgere di una nuova vita umana. |
Da questo confronto
si comprende meglio perché il Magistero arrivi a valutare la contraccezione
come «intrinsecamente disonesta» (HV 16).
Ciò vuol
dire che questo modo di comportarsi è in contrasto con valori morali importanti
e irrinunciabili, non per fattori a esso esterni, come i motivi, le circostanze,
le conseguenze ecc., ma perché è un atto di per se stesso distruttivo
di quei valori. Di conseguenza non esistono situazioni, circostanze, motivi che possono
renderlo lecito.
Questo giudizio,
così netto e severo, riguarda però il comportamento in se stesso,
non le persone che lo adottano. Quando si passa da un atto alla persona, la valutazione
della sua colpevolezza esige una buona conoscenza non dell’atto soltanto, ma anche
della persona, specialmente del complesso suo mondo interiore e della sua storia
personale. Ciò non vale solo per la contraccezione, ma per ogni agire umano,
in qualunque campo. La distinzione tra «peccato» e «peccatore»
c’è sempre stata. Basta pensare che Dio odia il peccato, ma ama il peccatore.
Argomento di conferma in base alle conseguenze (HV
17)
Come argomento
di conferma ulteriore alla valutazione negativa della contraccezione, l’»Humanae
Vitae» nel numero 17 porta l’attenzione anche sulle dannose conseguenze,
fondatamente prevedibili, di una sua legittimazione morale, o anche solo del diffondersi
di una sua accettazione sociale. Tali danni vengono prospettati, come per cerchi
concentrici sempre più larghi, nella vita di coppia, nella moralità
generale specialmente giovanile, nella vita pubblica nazionale e internazionale.
I 25 anni
successivi alla pubblicazione dell’Enciclica hanno dato puntuale e drammatica conferma
a quelle previsioni. Alle constatazioni a tutti possibili, si aggiungono gli studi
di sociologi e di esperti nell’evoluzione dei costumi, tutti concordi nel rilevare
l’apporto enorme dato al rapido diffondersi del libertarismo sessuale, e di una concezione
ludica e banalizzata della sessualità, dall’espandersi di una facile separazione
tra sessualità genitale e generazione, cioè dal diffondersi di forme
nuove di contraccezione, socialmente accettate ed esaltate.
Dell’intreccio
fra il nostro argomento e l’attuazione di politiche nazionali e internazionali per
attuare una drastica e forzata riduzione della natalità, si è già
fatto cenno all’inizio.
Sviluppi dottrinali successivi all’»Humanae Vitae»
Di Paolo VI si
contano una quarantina di interventi, fra discorsi, messaggi e lettere, in tema di
procreazione responsabile. Molto più numerosi, e di difficile conteggio, gli
interventi di Giovanni Paolo II. Non poche volte si tratta di semplici, anche se
forti, riconferme della dottrina esposta nell’»Humanae Vitae». Ma altre
volte si tratta di approfondimenti e sviluppi importanti. Nell’impossibilità
di raccoglierli tutti qui, non resta che fare un breve cenno ad alcuni tra i più
rilevanti.
Fra tutti gli
interventi del Magistero, ce n’è uno che presenta un’importanza evidentemente
singolare, perché ne sono autori, insieme al Papa, i rappresentanti dell’episcopato
di tutto il mondo. Nel 1980 il Sinodo dei vescovi ebbe come tema la famiglia.
Dal Sinodo il Pontefice ricavò i contenuti dell’Esortazione apostolica «Familiaris
Consortio» (22 novembre 1981). Tra i problemi più attentamente
trattati, quello della procreazione responsabile, nei numeri 28-35.
Da notare anzitutto
con quali parole, solenni e impegnative, viene riaffermato il valore della dottrina
contenuta nell’«Humanae Vitae», oltre che nella «Gaudium
et Spes». Quell’enciclica viene qualificata come «un annuncio veramente
profetico» per i nostri tempi; poi si aggiunge: «Questo sacro Sinodo,
riunito nell’unità della fede col Successore di Pietro, fermamente tiene ciò
che nel Concilio Vaticano II (cf Gaudium et Spes 50), e
in seguito nell’enciclica Humanae Vitae viene proposto, e in particolare
che l’amore coniugale deve essere pienamente umano, esclusivo e aperto alla nuova
vita (HV 9)».
La dottrina sulla
procreazione responsabile è dunque «dottrina della Chiesa»
nel senso più forte dell’espressione. A insegnarla non è solo il
Papa (il che sarebbe già sufficiente), ma è anche l’intero Episcopato,
che la propone concordemente come dottrina sinodale e conciliare.
Tra gli approfondimenti
della dottrina, da segnalare in particolare quello sulla contraccezione, come
lesiva anche dello stesso amore coniugale, in quanto ne ferisce l’esigenza
di donazione totale della persona. Giovanni Paolo II non esita a parlare di «una
falsificazione dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato a donarsi
in totalità personale» (»Familiaris Consortio»32).
È questa un’ulteriore conferma del nodo centrale costituito dall’inscindibilità
dei due significati dell’atto coniugale: sono tra loro così profondamente
intrecciati che l’uno implica l’altro, perciò la soppressione dell’uno compromette
anche l’altro. Emerge così più chiaramente la gravità della
devastazione di valori che compie la contraccezione: non è solo contro la
vita, ma è anche contro l’amore.
Questo punto il
Pontefice lo ha ulteriormente sviluppato in uno dei suoi discorsi, il 17 dicembre
1983: la contraccezione «esprime un obiettivo rifiuto a donare all’altro, rispettivamente,
tutto il bene della femminilità o della mascolinità. In una
parola: la contraccezione contraddice la verità dell’amore coniugale».
Cosa bisogna dire
allora del dissenso da questa dottrina? Il dissenso esiste, anche da parte di teologi
e di sacerdoti. Ma senza mezzi termini si deve riconoscere che esso è inammissibile
e ingiustificabile. In teologi e sacerdoti inoltre, esso è anche causa di
gravi danni nella comunità ecclesiale, in cui genera divisioni, e confusione
nelle coscienze.
Giovanni Paolo
II non ha esitato a ribadire con forza: «Quanto è insegnato dalla
Chiesa sulla contraccezione non appartiene a materia liberamente discutibile fra
teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale
degli sposi» (Discorso del 5 giugno 1987).
Per tutti quelli
poi, anche semplici fedeli, che si ritengono autorizzati a comportarsi in modo difforme
dagli insegnamenti dati dal Magistero della Chiesa, valgono le chiare parole del
Concilio: «I figli della Chiesa, nel regolare la procreazione, non potranno
seguire strade che sono condannate dal Magistero» (»Gaudium et Spes»51).
Viene qui opportuno
rilevare una distinzione importante all’interno della dottrina della Chiesa in
tema di procreazione responsabile. C’è una componente «negativa»
e una «positiva». Componente negativa è la condanna morale di
contraccezione e sterilizzazione, positiva è la dichiarata liceità
della continenza periodica.
La componente
negativa fa parte della dottrina morale della Chiesa fin dagli inizi, è
stata costantemente e unanimemente insegnata lungo i secoli e confermata anche nella
prassi penitenziale. È rimasta condivisa da tutte le Chiese cristiane fino
al nostro secolo. (Il primo dissenso è comparso nel 1930, da parte della Chiesa
Anglicana, nella Conferenza di Lambeth.)
Un insegnamento
così caratterizzato è evidentemente di un’autorevolezza vincolante
massima per tutti i credenti. Ha tutte le condizioni per appartenere al patrimonio
delle verità morali qualificate con la nota di quella infallibilità
di cui parla la Costituzione dogmatica «Lumen Gentium»del
Concilio (n. 12 e 25). Si comprende meglio così su quale solido fondamento
poggia la riferita affermazione di Giovanni Paolo II circa l’indiscutibilità
della dottrina della Chiesa sulla contraccezione.
La componente positiva invece, cioè la dottrina morale circa la continenza
periodica, è recente. E lo è necessariamente, impensabile com’era in
assenza di conoscenze serie sulla generazione umana, specialmente sulla periodicità
di fecondabilità della donna. Conoscenze accertate solo nel 1929 da Ogino
e da Knaus.
Tale dottrina
però si basa su ben consolidate concezioni circa la persona, la sessualità,
la procreazione, con le quali è coerente. Si spiega così come i Pontefici
non abbiano esitato a dichiarare irreformabile anche questa componente della
dottrina della Chiesa.