«Le
regole del cattolicismo schietto»
Commento alle
Regole per sentire nella Chiesa
degli Esercizi Spirituali di S. Ignazio di Loyola
di P. Maurizio Meschler
S.I.
PARTE
SECONDA
Esercizio
pratico della vita cristiana – II
2. Il secondo punto della vita pratica cattolica riguarda l’esercizio dell’ascetica
cristiana, la vita religiosa e la penitenza. Sotto questo rispetto afferma S. Ignazio,
che secondo lo spirito cattolico si devono lodare i varii Ordini religiosi e monastici
e lo stato di verginità e continenza, preferendolo in genere al matrimonio;
così pure si devono lodare i voti religiosi di povertà, castità
ed obbedienza ed ogni altra opera di perfezione e di supererogazione; poi i digiuni
e le astinenze, particolarmente ne’ tempi e ne’ giorni prescritti dalla Chiesa, ed
infine ogni altra penitenza non solo interna, ma esterna altresì (Reg. 4,
5, 7).
Il protestantesimo per principio si era levato contro tutte queste cose e le aveva
coperte di disprezzo e di odio. Ed anche ai nostri giorni il cosiddetto Americanismo,
sebbene per altri motivi, si è pronunciato contro i voti e contro la vita
religiosa. Si capisce; all’uomo terreno tutte queste cose vanno attraverso. Ma il
cristiano cattolico le accoglie come veneranda e cara eredità della Chiesa,
come genuine fioriture dello spirito di Cristo e del Vangelo e come il più
nobile frutto della legge morale cristiana.
È evidente che la eccellenza della legge morale non si manifesta soltanto
per ciò che soffoca nel cuore dell’uomo i germi del male, ma piuttosto per
ciò, che additando quanto v’ha di grande e di nobile, eleva l’umana volontà,
la fortifica e le infonde energia e slancio verso i più alti beni celesti
e verso la perfezione. Quest’è la vittoria immacolata della legge divina.
Or questo si ottiene col proporre all’uomo officii e fini supererogatorii, come sono
i voti, che non sono oggetto di comandamento, ma di libera volontà, a fine
di rendere a Dio un servigio gradito ed onorevole E però S. Ignazio osserva
che oggetto del voto dev’essere per solito, non ciò che è comune e
meno buono, come ad esempio il matrimonio ovvero la mercatura, ma ciò che
promuove la perfezione evangelica (Reg. 5). I voti invero sono anzitutto mezzi
per raggiungere la perfezione che consiste in un più alto grado di carità
verso Dio, non contentandosi l’uomo della sola osservanza dei comandamenti, ma spingendosi
innanzi ad opere, a Dio molte care, sebbene semplicemente proposte come consiglio.
Tra questi voti tengono il primo posto i tre voti religiosi, che costituiscono la
sostanza della vita religiosa e lo stato della perfezione spirituale, perché
con la loro osservanza il religioso in virtù del suo stato si obbliga a tendere
alla perfezione. In questo senso lo stato religioso è nella Chiesa stato di
perfezione cristiana.
Se dunque nella società civile a buon diritto si danno varii stati che si
propongono per fine loro proprio il promovimento dei beni temporali, perché
non si dovrà dare uno stato speciale che si consacri al conseguimento e promovimento
dei più grandi beni dell’uomo, della perfezione cristiana? Lo stato religioso
è il più sodo disciplinamento dell’anima, la più intima educazione
di se stesso, il più nobile ed il più elevato slancio del cuore a Dio,
il più efficace ammonitore e predicatore dei beni eterni in questa vita ed
il dono più generoso pel bene e per la salute del mondo. Lo stato religioso
ha seguito l’umanità anelante al bene e le ha offerto la sua parte di lavoro
in tutti i rami di cultura e di svolgimento conveniente. Che cosa non hanno fatto
gli ordini religiosi per la scienza e per l’arte, perfino nell’industria e nell’agricoltura,
senza nulla dire delle opere in pro della missione della Chiesa ed in quelle di carità
e beneficenza? Solo non hanno inventato mostri divoratori d’uomini, ma in quella
vece hanno creato eserciti di angeli della misericordia, che hanno curato, sanato,
consolato le vittime della discordia. Lo stato religioso è una delle glorie
più belle della nostra Chiesa. Come non dovrà il cattolico stimarlo
ed onorarlo?
Ancora una parola intorno alla mortificazione ed alla penitenza, contro la quale
il protestantesimo ebbe sempre ed ha tuttavia una repugnanza insormontabile. Anche
il mondo moderno de’ cattolici annacquati rifugge da ogni austerità esterna.
L’ascetica antica era piuttosto ispida e dura. Essa cominciava dal purificare seriamente
il cuore dal peccato e dalle passioni disordinate per mezzo della vera vittoria di
se stesso, e riteneva a lungo il suo alunno nell’esercizio della cosiddetta via purgativa,
mettendogli innanzi le massime eterne ed incutendo nell’anima del peccatore un salutare
spavento dei castighi eterni. «Non solo il timore figliale, scrive S. Ignazio
(Reg. 18) è cosa pia e santissima, ma anche il timore servile (non però
servilmente servile), perché anch’esso esclude il peccato ed inchiude il principio
dell’amore». In questa osservazione del Santo si scorge quasi un presentimento
del futuro giansenismo e quietismo e dei danni gravissimi recati da questi sistemi
nella direzione delle anime.
Una certa ascetica moderna, per iscansare la noia o per sfuggire ogni cosa triste,
va abbandonando quest’antica e sicura via purgativa e si rivolge ad altri metodi
di vita spirituale più graditi e più attrattivi. Se ciò avvenga
con maggiore profitto è un’altra questione. È vero. Noi non siamo più
l’antica generazione, adusata alle intemperie. I figliuoli del tempo nostro sono
anemici e nervosi. Ma da ciò segue soltanto che noi non possiamo più
far tutto quello che facevano gli antichi, e non già che. si debba ammettere
soltanto la penitenza interna, rifiutando con disprezzo l’esterna. Anche la penitenza
esterna è un germoglio del Vangelo di Cristo e dello spirito cattolico, anzi
aggiungiamo, dell’istinto nativo del peccatore, se pure è uomo leale. Egli
ha peccato e vuol riparare ed anzitutto con la penitenza esterna, ad imitazione del
Redentore, che per amor nostro sostenne i tormenti e la croce. È: questo l’A B C
della vita spirituale.
3. Il terzo punto della vita pratica cattolica, toccato da
S. Ignazio nelle sue regole ad sentiendum cum Ecclesia, riguarda la riverenza
e la sommessione alle autorità tanto spirituali che temporali. Egli dice,
che non dobbiamo essere corrivi nel biasimare le ordinazioni e la vita personale
dei superiori, sì piuttosto dobbiamo essere inclinati ad approvarle e lodarle.
Anche nel caso che le loro ordinazioni e le loro persone non siano tali che meritino
lode, certo il biasimo pubblico di chi non è chiamato per ufficio ad esercitarlo
porge, più che altro, occasione di mormorazione e di scandalo e può
degenerare in eccitamento alla rivolta. Per lo contrario torna utile il rappresentare
tali abusi a coloro che possono recarvi rimedio (Reg. 10). È chiaro poi
che, trattandosi del potere civile, questa regola va interpretata in conformità
del diritto costituzionale di sindacato che hanno i corpi rappresentativi dello Stato
sul potere esecutivo.
Quel che il Santo qui raccomanda è un principio conservativo di grande importanza.
Esso comprende nientemeno che tutta l’educazione e tutta la disciplina del popolo
cristiano come tale; esso riguarda l’osservanza del quarto comandamento di Dio rispetto
a tutti coloro che ci sono preposti; esso è il fondamento della pace e dell’ordine
nel popolo cristiano e costituisce il primo e più importante dovere di coscienza
di ciascuno in particolare. Questo spirito di riverenza e di sommessione verso l’autorità
costituita è sempre stato il contrassegno del genuino sentire cristiano e
cattolico. La nostra Chiesa è stata in ogni tempo banditrice e custode della
debita obbedienza; essa stessa non può sussistere, senza la sommessione al
potere costituito da Dio. È quindi più sicuro eseguire un comando meno
prudente e meno acconcio, piuttosto che scuotere il fondamento dell’ordine. Neppure
la personale indegnità del superiore ci dispensa dal debito della sommessione,
salvo ch’egli non comandi cosa contraria a Dio. I superiori nostri sono uomini e
possono come noi errare; quest’è saputo. Sono però luogotenenti della
giustizia e santità di Dio nel mondo. Importa assai che essi siano pure nella
realtà quello che rappresentano, e però chi nel debito modo sappia
avvisarli o farli avvisare dei loro errori, è grandemente benemerito della
società e della Chiesa.
Se mai in altri tempi, questa regola è di suprema importanza nei nostri, dove
tutti i vincoli della dipendenza e della sommessione sono in pericolo e minacciano
di sciogliersi, dove tutti vogliono insegnare e nessuno imparare, dove ognuno vuol
comandare e. nessuno obbedire, dove oramai gli iniqui pongono in cielo la bocca loro
ed i loro discorsi si trascinano per tutta la, terra (1) ; disprezzano l’autorità e la maestà
bestemmiano (2) .
Insomma il tempo nostro è il tempo dell’indipendenza personale, del volersi
aiutare da sé, del farsi eguali a Dio, ricusando di riconoscere sopra di se
altro maestro. Il mezzo contro questi mali gravissimi è la norma di S. Ignazio
sull’obbedienza cristiana. Seguendo tale regola ogni rivolta, ecclesiastica o politica,
è impossibile, com’è impossibile il dispotismo per l’autorità
che s’informi ai principii evangelici.
Questi adunque sono i contrassegni del vero e schietto cattolicismo in cose di fede
e di pratica cristiana. Le norme dateci da S. Ignazio sono lo specchio vivente
dell’uomo cattolico, che nulla lascia a desiderare quanto a solidità nella
virtù e compitezza nei suoi doveri. Il Santo tien dietro di passo in passo
a tutti i pericoli, a tutte le aberrazioni, a tutte le falsificazioni del cattolicismo,
che da secoli sbucarono fuori; egli colpisce gli errori di Lutero, di Calvino, di
Giansenio, gli errori dei quietisti, e le sue regole potrebbonsi dire una requisitoria
contro tutti i devastatori della vera vita cattolica; si potrebbero chiamare un compendio
della storia ecclesiastica fino ai nostri giorni, anzi fino al più recente
cattolicismo di moda secondo il modello del riformismo. Esso non è altro che
una nuova edizione del vecchio liberalismo religioso, che è il sistema delle
cose fatte a metà, della debolezza, dell’inconseguenza; è il frutto
necessario del rispetto umano, dell’adulare e del piaggiare nomi e tendenze che non
sono favorevoli alla Chiesa; è la propagine genuina di quel liberalismo che
non si nutre se non a scapito della fede e della solida vita cristiana. Contro tale
cattolicismo riformatore le regole di S. Ignazio sono un rimedio radicale. Sarebbe
quindi opera quanto mai appropriata al bisogno il fare stampare una copia di queste
regole alla fine di certi libri che trattano di riforme religiose; varrebbe per Errata Corrige,
non degli errori di stampa, ma delle aberrazioni dell’autore.
Sappiamo bene che tutte queste sono massime sconcertanti pe’ figliuoli del nostro
tempo; ma esse sono attinte proprio dal cuore del cattolicismo per modo, che chi
vuol essere vero cattolico, non può fare a meno dal prenderle come norma della
propria vita. È ben vero che la loro osservanza chiede per se tutto l’uomo,
il suo intelletto e la sua volontà, e presuppone una piena ed incondizionata
adesione al concetto cristiano della vita e del dovere fino alle ultime sue applicazioni.
Ma pur troppo tali energie cattoliche spuntano piuttosto raramente tanto nella vita
privata che nella pubblica.
Or donde questo? Anzitutto, il male viene dall’intelletto, poiché manca la
soda e debita conoscenza della religione. La stessa istruzione religiosa elementare,
spesso alla prima soglia della vita, non incontra, se non malvage alterazioni e dileggi,
perfino da parte di maestri che pur si dicono cattolici; poi il diluvio della stampa
e della letteratura irreligiosa e disonesta s’impossessa degli animi giovanili e
non solo ne rovina lo spirito, ma ne avvelena il cuore; si va estendendo spaventosamente
l’esempio corruttore dei compagni di scuola o di lavoro; quindi le esigenze degli
studii speciali a cui conviene dedicarsi per la vita, e più innanzi la stretta
delle occupazioni giornaliere ed anche la poca voglia impediscono l’applicazione
allo studio privato della religione; prediche, appena appena se ne sentono; divozioni
private, nulla; frequenza alle funzioni del culto, rara assai; si aggiungono infine
altri peggiori disordini che guastano ogni cosa, ed è però quasi un
miracolo, se fin dalla fresca età non si gitta via lo scudo della fede, passando
nel campo dell’indifferenza e della formale incredulità. Così si entra
nella vita pubblica. L’uomo maturo dovrebbe attuare nella pratica della vita quel
che non ha mai imparato; dovrebbe stimare ed amare quel che non conosce e che forse
odia; dovrebbe difendere quel che non può giudicare. Spesso prende parte alla
legislazione del suo paese e si erige a giudice intorno a questioni religiose della
più. alta importanza; spesso ancora si dedica all’officio di maestro o di
pubblico scrittore, e si propone a trattare argomenti strettamente religiosi. Eppure
non conosce né le dottrine, né le leggi, né i misteri del culto,
né la costituzione della Chiesa cattolica! È e rimane vero che uno
dei cancri del nostro tempo è la confusione, l’intorbidarnento. l’oscurità
degli spiriti.
Più deplorabile è l’altra causa del male, quando cioè il cattolico
conosce bensì i suoi doveri religiosi, ma non ha il coraggio di praticarli
pubblicamente. L’ignoranza è spesso degna di compatimento; ma il non praticare
il dovere conosciuto è una mancanza personale, anzi un peccato, un delitto,
non solo contro Dio e contro la Chiesa alla quale si appartiene, ma anche contro
se stesso e contro la propria umana dignità personale.
Trattasi di una vera e formale schiavitù -spaventevole parola nel secolo della
libertà e dell’eguaglianza- anzi della più rovinosa e più disonorante
tra le schiavitù!. È infatti una schiavitù che nessuno c’impone,
che c’imponiamo da noi stessi. La forza della nostra volontà è tanto
debole che si fabbrica catene, sottomettendosi non solo ad un unico padrone, ma a
quanti si danno la briga di scagliarsi contro la nostra libertà di coscienza,
siano essi pure i più miserabili ed i più dispregevoli tra gli uomini.
Il timore e la debolezza ce li dipinge come una grande potenza e come nostri sovrani
onnipotenti, purtroppo pel conseguimento non già del bene, ma del male. Chi
si lascia vincere dal rispetto umano è come una piuma, senza peso, senza solidità;
è una banderuola; è una canna agitata dal vento, come dice il
Salvatore (3) , che ogni soffio fa
piegare. Tale uomo ha già con se il passaporto per la via dell’iniquità.
Noi non ci vergogniamo di essere al cospetto del mondo figliuoli riconoscenti, sposi
fedeli, impiegati coscienziosi, sudditi intemerati; e poi, quali cattolici, ci vergogniamo
di Dio e del suo servizio, come se al mondo nulla vi fosse di più meschino
e di più rovinoso della nostra fede, della nostra Chiesa!
Il terzo motivo che ritrae gli uomini dal mostrarsi veramente cattolici di sentimento
e di fatto, è la cura delle cose terrene, dell’avere e delle ricchezze. Si
vuol vivere, si vuol vivere senza fastidii, si vuol godere della vita e per questo
occorre denaro. Se il denaro non si ha, bisogna metterlo insieme, oh quanto spesso,
a spese del cattolicismo. Si nega il cattolicismo e si prende l’irreligione dei più,
che possono aiutarci nell’acquisto dei beni terreni. Così fa l’uomo di affari
coi suoi corrispondenti, così il mercante coi suoi clienti, il servo coi suoi
padroni, il giornaliero con chi lo paga, il deputato coi suoi elettori, l’impiegato
con gli uomini di governo, perfino il soldato col suo superiore d’armi. Non si vuol
avere altra religione se non quella del proprio santo aiutatore.
Nessuno vuole che si trascuri il proprio benessere ed il progresso anche materiale
dell’individuo e della famiglia. Dio stesso ne suggerisce i mezzi opportuni: la fiducia
nella provvidenza, la preghiera, il lavoro onorato. Ma rinnegare la religione non
è un mezzo. Questo non è confidare in Dio, ma chiedere consiglio ed
aiuto dai falsi idoli; questo non è preghiera, ma provocazione del castigo
di Dio; questo non è lavoro onorato, ma latrocinio dell’onore e della padronanza
di Dio, a cui appartiene la nostra anima, il nostro corpo, ed il nostro servizio;
non è neppure commercio onorato, ma commercio da Giuda, che vende Dio per
quattro miseri quattrini e compra per se la corda; questo è sangue dell’anima,
troppo caro di prezzo, quando pure dovesse costare il mondo intero.
NOTE
1
Ps. LXXII, 8, 9.
2 2 Petr. II, 10; Iud. 8.
3 Matt. XI, 7.
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