«L’anima
di ogni apostolato»
di
Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard
“Capii
che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore,
gli apostoli non avrebbero più annunciato il vangelo, i martiri non avrebbero
più versato il loro sangue”
(S.Teresa del Bambino Gesù)
Parte quarta*
Fecondità
delle opere animate dalla
vita interiore
La vita
interiore è condizione della fecondità delle
opere
Facendo astrazione
da quella ragione di fecondità che i teologi chiamano ex opere operato,
consideriamo qui soltanto quella che risulta ex opere operantis. Ricordiamo
che, se l’apostolo realizza il detto evangelico: “Se uno rimane in me e io in
lui…”, la fecondità della sua azione voluta da Dio è assicurata:
“…costui porta molti frutti” (Gv. 15, 5). Questo testo è di una
tale evidenza logica che è superfluo, dopo questa Autorità, provare
la tesi; ci limitiamo pertanto a confermarla con alcuni fatti.
Per più
di trent’anni ho potuto seguire da lontano le vicende di due orfanotrofi femminili
tenuti da Congregazioni diverse. Entrambi subirono un periodo di manifesto decadimento.
Perché nasconderlo? Su sedici orfanelle ricoverate nelle medesime condizioni
e che avevano lasciato l’istituto appena giunte alla maggiore età, tre che
erano uscite dalla prima casa e due dall’altra, in un tempo da otto a quindici mesi
erano passate dalla Comunione frequente allo stato più degradante della scala
sociale; delle altre undici solo una rimase profondamente cristiana. Eppure, alla
loro uscita, avevano tutte trovato una conveniente collocazione.
In uno di questi
orfanotrofi, undici anni fa, la superiora venne cambiata. Dopo appena sei mesi, si
poteva già constatare una profonda trasformazione nello spirito dell’istituto.
La stessa trasformazione
fu osservata tre anni dopo nell’altro orfanotrofio quando, sebbene superiora e religiose
rimanessero le stesse, venne cambiato il cappellano. Da allora in poi, delle povere
giovani uscite maggiorenni, neppure una fu gettata nel fango da Satana, ma tutte
senza eccezione son rimaste brave cristiane.
La ragione di
questi risultati è semplice. Alla guida dell’istituto o nel confessionale
non c’era una direzione fortemente soprannaturale; ciò bastava per paralizzare
o per lo meno attenuare l’azione della grazia. La precedente superiora nel primo
caso e il precedente cappellano nel secondo, persone sinceramente pie ma prive di
seria vita interiore, non avevano una influenza profonda e duratura. La loro era
una pietà dovuta al sentimento, all’ambiente, all’inerzia, fatta soltanto
di pratiche e di abitudini, che non poteva generare convinzioni profonde ma solo
un amore senza calore e una virtù senza radici. Una pietà fiacca, tutta
apparenze, sdolcinature o atteggiamenti; una bigotteria che forma brave ragazze incapaci
di darvi fastidio, smorfiose che sanno fare la riverenza, ma che non hanno forza
di carattere e che si lasciano trascinare dalla loro sensibilità e immaginazione.
Una pietà incapace di delineare un vasto orizzonte di vita cristiana e di
formare donne forti, preparate alla lotta, ma capace al massimo di trattenere in
gabbia povere fanciulle languenti, che sospirano il giorno in cui potranno uscirne.
Ecco tutta la vita cristiana che erano riusciti a far germogliare operai evangelici
ai quali la vita interiore era quasi sconosciuta!
Ma poi, in quelle
due comunità, una superiora o un cappellano vengono sostituiti: tutto cambia
aspetto. Com’è più compresa la preghiera e come i Sacramenti sono più
fecondi! Quale diverso comportamento in cappella e persino al lavoro e a ricreazione!
Cambiamenti radicali che sono dimostrati dall’osservazione e testimoniati dalla gioia
serena, dallo slancio nell’acquisto delle virtù e, in alcune anime, dal desiderio
ardente di vocazione religiosa. A cosa attribuire una simile trasformazione? La nuova
superiora ed il nuovo cappellano erano anime di vita interiore.
Non c’è
dubbio che in molti collegi, convitti, ospedali, patronati e persino in parrocchie,
comunità e seminari, l’attento osservatore avrà dovuto attribuire simili
effetti ad identiche cause.
Ascoltiamo San
Giovanni della Croce: “Gli uomini divorati dall’attività, che si illudono
di poter cambiare il mondo con le loro predicazioni e le altre opere esteriori, riflettano
un momento. Comprenderanno facilmente che sarebbero ben più utili alla Chiesa
e più graditi al Signore – senza parlare del buon esempio che darebbero –
se consacrassero più tempo all’orazione e agli esercizi della vita interiore.
“In tali
condizioni, con un’opera sola, essi compirebbero un bene maggiore e con minor fatica
di quanto ne farebbero in mille altre alle quali dedicano la vita. L’orazione farebbe
meritare questa grazia e darebbe a loro loro le forze spirituali necessarie per produrre
simili frutti. Senza di essa, tutto si riduce ad un gran chiasso, come il martello
che battendo sull’incudine fa risuonare l’eco tutt’intorno. Si fa poco più
che nulla, spesso assolutamente nulla o addirittura del male. Dio ci liberi da una
tale anima, se càpita che si gonfi di superbia! Invano le apparenze testimonierebbero
in suo favore; la verità è che essa non riuscirà a far nulla,
poiché è assolutamente certo che nessuna opera buona può essere
compiuta senza la virtù divina. Ah, quanto si potrebbe scrivere al riguardo,
rivolgendosi a coloro che abbandonano l’esercizio della vita interiore e aspirano
alle opere clamorose, capaci di metterli in vista e di farli ammirare da tutti! Costoro
non conoscono affatto la sorgente d’acqua viva e la fontana misteriosa che fa tutto
fruttificare”1.
Alcune espressioni
di questo santo sono forti quanto quell’altra di san Bernardo, già ricordata:
“occupazioni maledette”. Non è possibile accusarle di esagerazione,
se ci si ricorda che le qualità più ammirate da Bossuet in San Giovanni
della Croce sono appunto il perfetto buon senso, lo zelo nel mettere in guardia dal
desiderio di percorrere vie straordinarie per giungere alla santità, l’esatta
precisione nell’esprimere pensieri di notevole profondità.
Vediamo ora di
studiare alcune cause della fecondità della vita interiore.
1. La vita interiore
attira le benedizioni di Dio
“Sazierò
di grassi l’anima dei miei sacerdoti e il mio popolo si pascerà dei miei doni”
(Ger. 31, 14). Notiamo il legame tra le due parti di questo testo. Dio non dice:
“Io darò ai miei sacerdoti più zelo, più talento”,
ma dice: “Sazierò la loro anima”. E non significa altro che questo:
io li colmerò del mio spirito, comunicherò a loro grazie elette e così
il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni.
Dio avrebbe potuto
distribuire la sua grazia secondo il suo beneplacito, senza tener conto né
della pietà del ministro né delle disposizioni dei fedeli, come fa
nel Battesimo dei bambini. Invece, in base alla legge ordinaria della sua Provvidenza,
questi due elementi diventano la misura dei doni celesti.
“Senza di
me non potere far nulla” (Gv. 15, 5): questo è il principio. Sul Calvario
venne sparso il Sangue redentore; ma in che modo Dio ne ha assicurato l’originaria
efficacia? Con una miracolosa diffusione della vita interiore. Non v’era nulla di
più angusto che l’ideale e lo zelo degli Apostoli prima della Pentecoste;
lo Spirito Santo li trasforma in uomini interiori e sùbito la loro predicazione
opera meraviglie. Ordinariamente, Dio non rinnoverà più il prodigio
del Cenacolo, ma lascerà le grazie di santificazione alle prese con la libera
e laboriosa corrispondenza della sua creatura. Facendo però della Pentecoste
la data ufficiale della nascita della Chiesa, non vuole forse farci capire che i
suoi apostoli devono far precedere la loro santificazione personale all’opera di
corredentori?
Per questo tutti
i veri operai apostolici si attendono molto più dai loro sacrifici e dalle
loro preghiere che non dall’organizzazione della loro attività. Il padre Lacordaire,
prima di salire sul pulpito, rimaneva lungamente in preghiera, e quando rientrava
in cella si faceva flagellare. Il padre Monsabré, prima di prendere la parola
a Notre Dame, recitava in ginocchio il Rosario intero. Ad un amico che gli domandava
perché lo facesse, rispose scherzosamente: “Prendo la mia ultima infusione”.
Questi due religiosi
vivevano entrambi di quel principio dettato da san Bonaventura: “I segreti di
un fecondo apostolato si attingono ben più ai piedi del Crocifisso che nel
dispiegamento di brillanti qualità”. San Bernardo esclama: “Tre
sono le cose che restano: la parola, l’esempio e la preghiera; ma la più importante
delle tre è la preghiera”; espressione molto forte, ma che è solo
il commento della risoluzione presa dagli Apostoli di abbandonare certe occupazioni
allo scopo di potersi applicare prima di tutto alla preghiera e soltanto dopo al
ministro della parola (At. VI, 4).
Abbiamo abbastanza
notato, a questo riguardo, l’importanza fondamentale che il Salvatore dà a
questo spirito di preghiera? Gettando uno sguardo sul mondo e sui secoli futuri,
e prevedendo la grande moltitudine delle anime chiamate a beneficiare del Vangelo,
Egli esclama con tristezza: “La messe è abbondante ma gli operai son
pochi” (Mt. 9, 3). Ma che cosa propone Gesù come il mezzo più
rapido per diffondere la sua dottrina? Domanderà forse ai suoi discepoli di
frequentare le scuole di Atene o di andare dai Cesari di Roma a studiare come si
conquistano e si governano gli imperi? Uomini di zelo, ascoltate il Maestro. Quel
che ci rivela è un programma ed una fonte di luce: “Pregate dunque il
padrone dei campi, perché mandi operai a mietere” (Mt. 9, 3).
Sapienti organizzazioni,
risorse da procurarsi, chiese da edificare, scuole da fondare: nessuna menzione di
tutto ciò. “Rogate ergo”: preghiera e spirito di orazione; il Maestro
non si stanca di repeterci questa verità fondamentale. Il resto, tutto il
resto, ne deriverà.
Rogate ergo! Se
il timido mormorio della supplica rivolta da un’anima santa è capace di reclutare
legioni di apostoli più che la parola eloquente d’un cercatore di vocazioni
meno pieno dello spirito di Dio, che se ne deve concludere? Questo: che lo spirito
di preghiera, il quale nel vero apostolo vai di pari passo con lo zelo, sarà
la causa principale della fecondità del suo lavoro.
Rogate ergo! In
primo luogo pregate; soltanto dopo il Signore aggiunge: “Andate dunque ad insegnare,
a predicare” (Mt. 10, 7). Certo, Dio si servirà anche di questo mezzo;
ma le benedizioni che dànno la fecondità al ministero sono riservate
alla preghiera dell’uomo di orazione; preghiera così potente, da far uscire
dal seno di Dio gl’inebrianti profumi di un’azione irresistibile sulle anime.
Anche San Pio
X, con la sua autorevole parola mette in rilievo la tesi del nostro modesto lavoro:
“All’Azione
Cattolica, poiché si propone di restaurare tutte le cose in Cristo mediante
l’apostolato dell’azione, le è necessaria la grazia divina, e questa non si
dà che all’apostolo che è unito a Cristo. Soltanto quando avremo formato
Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente darlo alle famiglie e alla
società. Epperò quanti sono chiamati a dirigere o si dedicano a promuovere
il movimento cattolico, devono essere cattolici a tutta prova, (…) di pietà
vera, di maschie virtù, di puri costumi”2.
Quanto diciamo
della preghiera va applicato all’altro elemento della vita interiore: alla sofferenza,
cioè a tutto quello che viene ad urtare la nostra natura, sia dal di fuori
come dal di dentro. Si può soffrire come un pagano, come un dannato o come
un santo. Per soffrire veramente con Cristo bisogna cercare di soffrire da santo.
Allora la sofferenza serve al nostro personale profitto e per applicare all’anima
il mistero della Passione: “Completo nella mia carne quel che manca alle sofferenze
di Cristo a beneficio del suo Corpo che è la Chiesa” (Col. 1, 21). Nel
commentare questo passo, dice sant’Agostino: “I patimenti di Gesù Cristo
erano completi, ma soltanto nel capo: mancavano ancora i suoi patimenti nelle sue
mistiche membra”. Praecessit Christus in capite: Gesù Cristo ha
sofferto, ma come capo; sequitur in corpore: ora tocca al suo corpo mistico soffrire.
Ogni sacerdote può dire: “Questo corpo sono io, perché sono un
membro di Cristo; ciò che manca alle sofferenze di Cristo, bisogna che lo
completi io a beneficio del suo Corpo ch’è la Chiesa”.
La sofferenza
è il più gran sacramento, diceva il padre Faber. Questo profondo teologo
ne mostra la necessità e ne deduce le glorie; tutti gli argomenti del celebre
oratoriano si possono applicare alla fecondità dell’azione per mezzo dell’unione
dei sacrifici dell’operaio evangelico con il Sacrificio del Calvario, e perciò
con la partecipazione all’efficacia infinita del Sangue divino.
2. La vita interiore
rende l’apostolo un santificatore mediante il buon esempio
Nel discorso sulla
montagna, il Maestro chiama i suoi Apostoli “sale della terra” e “luce
del mondo” (Mt. 5, 3).
Sale della terra,
possiamo esserlo nella misura in cui siamo santi. A che mai potrebbe ancora servire
il sale insipido? “Cosa mai potrà essere purificato da ciò ch’è
impuro?” (Eccl. 35, 4). Esso vale solo per essere buttato sulla strada e calpestato.
L’apostolo pio
invece, vero sale della terra, sarà un autentico agente di conservazione in
mezzo a questo mare di corruzione ch’è la società umana. Qual faro
splendente nella notte, lux mundi, lo splendore del suo esempio, più
che quello della sua parola, dissiperà le tenebre addensate dallo spirito
del mondo e farà risplendere l’ideale della vera felicità, tracciato
da Gesù nelle otto Beatitudini.
Il fattore maggiormente
capace di condurre i fedeli ad una vita cristiana, è precisamente la virtù
di colui che ha la missione d’insegnarla. Per contro, le sue debolezze allontanano
da Dio in un modo quasi irresitibile: “Per colpa vostra, il nome di Dio viene
bestemmiato fra i popoli” (Rom. 2, 24). Per questo l’apostolo, più che
le belle parole sulle labbra, deve aver la fiaccola del buon esempio in mano e praticare
lui per primo, in modo eccellente, le virtù che predica. Colui che ha la missione
di dire grandi cose è tenuto a farne di simili, dice san Gregorio Magno3.
Fu giustamente
notato che il medico del corpo può guarire i suoi malati senza godere di buona
salute. Ma per guarire le anime bisogna avere la propria anima ben sana, perché
in questo caso si dà qualcosa di sé stessi.
Gli uomini hanno
il diritto di essere esigenti verso chiunque pretenda d’insegnare a loro a riformarsi.
Essi sanno rapidamente discernere se la condotta è coerente con la predica,
o se la morale di cui ci si ammanta non è che una maschera ingannevole. In
base al risultato di questo confronto, essi accordano o rifiutano la fiducia.
Che potenza avrà
il sacerdote nel parlare della preghiera, se il popolo lo vedrà spesso a colloquio
con l’Ospite troppo spesso abbandonato nel Tabernacolo! Come sarà ascoltata
la sua parola se, predicando il lavoro e la penitenza, si dimostra laborioso e mortificato!
Apologeta della carità fraterna, troverà dei cuori attenti se, cercando
di diffondere nel gregge il buon odore di Cristo, rispecchierà nella sua condotta
la dolcezza e l’umiltà del divino Modello: “Vero modello del gregge”
(1 Pt. 5, 3).
Il professore
che non ha vita interiore, crede aver fatto il suo dovere mantenendosi esclusivamente
sul terreno di un programma d’esame. Ma se avesse vita interiore, una frase sfuggita
dal suo labbro o dal suo cuore, una emozione manifestata sul volto, un gesto espressivo,
anzi il suo stesso modo di fare il segno di croce, di dire una preghiera prima o
dopo la lezione, fosse anche una lezione di matematica, potrebbe avere sugli scolari
maggior influenza di una predica.
La suora dell’ospedale
e dell’orfanotrofio ha nelle mani un potere e dei mezzi efficaci per far nascere
nelle anime, pur mantenendosi prudentemente nel proprio campo, un amore profondo
per Gesù Cristo e per i suoi insegnamenti. Se invece manca di vita interiore,
non sospetterà neppure l’esistenza di quel potere o non riuscirà a
promuovere altro che atti di pietà puramente esteriori e nulla di più.
Il Cristianesimo
non si è diffuso tanto in virtù di frequenti e lunghe discussioni,
quanto con lo spettacolo dei costumi cristiani così opposti all’egoismo, all’ingiustizia
e alla corruzione dei pagani. Nel suo famoso libro Fabiola4, il cardinale Wiseman mette bene in rilievo quale
potente efficacia aveva l’esempio dei primi cristiani sull’animo dei pagani, anche
di quelli più prevenuti contro la nuova religione. In questo libro noi assistiamo
al cammino progressivo e quasi irresistibile di un’anima verso la luce. I nobili
sentimenti, le virtù modeste o eroiche che la figlia di Fabio nota in certe
persone di tutte le condizioni e di tutte le classi sociali, attirano la sua ammirazione.
Ma quale cambiamento si operò in lei, quale rivelazione fu per la sua anima,
quando scoprì che tutti coloro di cui ammirava la carità, l’abnegazione,
la modestia, la dolcezza, la moderazione, il culto della giustizia e della castità,
appartenevano a quella setta che sempre le era stata descritta come esecrabile! Da
quel momento ella divenne cristiana.
Dopo la lettura
di questo libro si è costretti ad esclamare: Ah!, se i cattolici, se i loro
uomini di azione avessero almeno un poco di quello splendore di vita cristiana descritta
dall’illustre cardinale, e che altro non è se non la pratica del Vangelo!
Come sarebbe allora irresistibile il loro apostolato verso questi pagani moderni,
troppo spesso prevenuti contro il cattolicesimo dalle calunnie dei settari, dal carattere
acerbo delle nostre polemiche o da un modo di rivendicare i propri diritti che sembra
provenire più dall’orgoglio ferito che non dal desiderio di difendere gli
interessi di Dio!
Com’è potente
l’irradiazione esterna di un’anima unita a Dio! Nel vedere il padre Passerat che
celebrava la Santa Messa, il giovane Desurmont si decise ad entrare nella Congregazione
Redentorista, della quale doveva poi diventare nobile decoro.
Il popolo ha di
queste intuizioni che non possono ingannarsi: se predica un uomo di Dio, corre in
massa; ma se la condotta di un uomo di azione non corrisponde più a quanto
ci si aspetta da lui, l’opera sua, per quanto abilmente condotta, è compromessa
e va forse verso una irreparabile rovina.
“Vedano le
vostre buone opere e ne glorifichino il Padre” (Mt. 5, 16), diceva Nostro Signore.
San Paolo raccomanda spesso il buon esempio ai suoi due discepoli Tito e Timoteo:
“In ogni cosa mostrati modello di buone opere” (Tit. 2, 7). “Sii modello
dei fedeli nella parola, nella condotta, nella fede e nella castità”
(1 Tim. 4, 12). Egli stesso esclama: “Quello che avete veduto in me, mettetelo
in pratica” (Fil. 4, 9). “Siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo”
(1 Cor. 11, 1). Il suo linguaggio di verità si basa su quella sicurezza e
quello zelo che sono ben lungi dall’escludere l’umiltà e che facevano già
esclamare Gesù Cristo: “Chi mai potrà rinfacciarmi un qualche
peccato?” (Gv. 8, 46).
Solo a questa
condizione, cioè alla sequela di Colui del quale è scritto “Incominciò
ad operare e ad insegnare” (At. 1, 1), l’apostolo diventerà “un
operaio che non ha di che vergognarsi” (2 Tim. 2, 15).
“Soprattutto,
figli carissimi – diceva Leone XIII – ricordate che la purezza e santità di
vita è la condizione indispensabile del vero zelo e la miglior garanzia del
successo”5.
Un uomo santo,
perfetto e virtuoso, diceva santa Teresa, fa realmente maggior bene alle anime che
numerosi altri i quali sono soltanto istruiti e più dotati.
“Se l’animo
non è temperato, sarà difficile promuovere negli altri il bene”,
dichiara san Pio X, ed aggiunge: “Quanti si dedicano a promuovere il movimento
cattolico, devono (…) essere di vita così intemerata, da essere per tutti
di esempio efficace”6.
3. La vita interiore
produce nell’apostolo l’irraggiamento soprannaturale.
Quanto questo sia efficace
Uno degli ostacoli
più gravi alla conversione di un’anima sta nel fatto che il Signore è
un Dio nascosto: “Deus absconditus” (Is. 45, 15).
Ma, come effetto
della sua bontà, Dio si manifesta in qualche modo per mezzo dei suoi santi
e delle anime fervorose. Il soprannaturale traspare così agli occhi dei fedeli,
i quali percepiscono qualcosa del mistero di Dio.
Cos’è dunque
questa effusione del soprannaturale?
Non sarà
forse lo sfolgorìo della santità, lo splendore dell’influsso divino
che la teologia chiama spesso grazia santificante, o, meglio ancora, il risultato
dell’ineffabile presenza delle Persone divine nelle anime da loro santificate?
San Basilio non
la spiegava diversamente: quando lo Spirito Santo si unisce alle anime purificate
dalla sua grazia, le rende più spirituali. Come il sole rende più scintillante
il cristallo che tocca o penetra col suo raggio, così lo Spirito santificatore
rende più luminose le anime in cui abita, e per la sua presenza esse divengono
come tanti focolari che diffondono intorno a sé la grazia e la carità7.
Questa manifestazione
del divino che trapelava in tutti i gesti e perfino nel riposo dell’Uomo-Dio, noi
la percepiamo in certe anime dotate di una più intensa vita interiore. Le
meravigliose conversioni operate da certi Santi con la fama delle loro virtù,
le schiere di aspiranti alla vita perfetta che venivano a porsi alla loro sequela,
manifestano chiaramente il segreto del loro silenzioso apostolato. Al sèguito
di sant’Antonio si popolano i deserti dell’Oriente, per l’opera di San Benedetto
sorge quell’innumerevole falange di santi monaci che civilizzano l’Europa; una influenza
senza pari viene esercitata da san Bernardo nella Chiesa, sui re e sui popoli; al
suo passaggio, san Vincenzo Ferreri suscita l’indescrivibile entusiasmo d’innumerevoli
moltitudini, determinandone soprattutto la conversione; alla sequela di sant’Ignazio
sorge quella schiera di valorosi uno solo dei quali, san Francesco Saverio, basta
per rigenerare alla fede un incalcolabile numero di pagani. Soltanto l’irraggiamento
della potenza di Dio stesso attraverso umani strumenti può spiegare tali prodigi.
Ma quando tra
le persone poste alla testa d’importanti opere non ce n’è nessuna che abbia
una vera vita interiore, che sventura! Il soprannaturale sembra eclissato e la potenza
di Dio appare incatenata. È allora, ci dicono i santi, che una nazione decade
e che la Provvidenza sembra concedere ai malvagi ogni potere di nuocere.
Le anime, sappiatelo
bene!, percepiscono come per istinto l’irradiazione del soprannaturale, senza neanche
poter definire chiaramente ciò che provano. Guardate come va volentieri il
peccatore ai piedi del sacerdote ad implorare il perdono, riconoscendo Dio stesso
nel suo rappresentante! Al contrario, dal momento in cui l’integrale concezione della
santità cessa di essere l’ideale obbligatorio dei ministri di una qualche
setta cristiana, non è forse vero che questa si trova immancabilmente costretta
a sopprimere la Confessione?
“Giovanni
non faceva alcun prodigio” (Gv. 10, 41): san Giovanni Battista attirava le folle
senza fare miracoli. Il santo Curato di Ars aveva una voce troppo debole per essere
udito dalla folla che gli si assiepava d’intorno. Ma se non lo udivano, lo vedevano:
vedevano in quel sacerdote un tabernacolo vivente e bastava questa vista per soggiogare
e convertire i presenti. Ad un avvocato che tornava da Ars, domandarono cosa l’aveva
colpito di più. Rispose: “Ho visto Dio in un uomo”.
Concedetemi di
riassumere tutto questo con una similitudine un po’ grossolana. È noto il
seguente esperimento di fisica: una persona posta sopra un isolatore viene messa
in contatto con una macchina elettrica; il suo corpo si carica di elettricità
e, se gli si avvicina, scocca una scintilla che dà la scossa a chi lo tocca.
Così è dell’uomo interiore. Una volta staccato dalle creature, si stabilisce
tra Gesù e lui un’energia incessante, come una corrente continua. L’apostolo,
divenuto un accumulatore di vita soprannaturale, condensa in sé un fluido
divino che varia adattandosi alle circostanze e a tutti i bisogni dell’ambiente in
cui agisce. “Egli emanava una potenza che guariva tutti” (Lc. 6, 19); parole
ed azioni altro non sono in lui che emanazioni di questa forza latente, ma capace
di rovesciare tutti gli ostacoli, di ottenere conversioni ed accrescere il fervore.
Quanto più
in un cuore albergano le virtù teologali, tanto più tali emanazioni
aiutano a far nascere le stesse virtù nelle anime.
Mediante la vita
interiore l’apostolo irradia la fede. – La presenza di Dio in lui si manifesta alle
persone che l’ascoltano.
Sull’esempio di
S. Bernardo – del quale si diceva: “Dovunque andasse, manteneva la solitudine
della propria anima” – egli si isola dagli altri e in tal modo si crea una solitudine
interiore. Ma s’intuisce che non è solo, che ha nel cuore un Ospite misterioso
ed intimo col quale torna continuamente ad intrattenersi e dal quale riceve direzione,
consigli e ordini. Si sente che è sostenuto e guidato da Lui e che le parole
proferite dalla sua bocca non sono che l’eco fedele di quelle emanate da questo Verbo
interiore: “quasi discorsi di Dio” (1 Pt. 4, 11). Più che la logica
e la forza degli argomenti, dunque, a manifestarsi è il Verbo interiore, il
Verbum docens, che parla attraverso la sua creatura: “Le parole che vi
dico non sono mie, ma del Padre che è in me: è Lui che opera”
(Gv. 14, 10). Si tratta di un influsso profondo e duraturo, ben più profondo
che l’ammirazione superficiale o la devozione passaggera suscitate da un uomo senza
vita interiore. Questi potrà anche spingere l’uditorio ad esclamare: “com’è
vero, com’è interessante!”; ma questo è un sentimento assolutamente
incapace di condurre di per sé alla fede soprannaturale e di far vivere di
questa fede.
Fra Gabriele,
converso trappista, nelle sue umili funzioni di vice-locandiere, ravvivava la fede
di numerosi visitatori molto meglio di quanto avrebbe potuto fare un dotto sacerdote
il cui linguaggio parlasse più alla mente che al cuore. Il generale De Miribel
andava spesso a conversare con l’umile frate e si compiaceva di dire: “Vado
a ritemprarmi nella fede”.
Mai come ai giorni
nostri si è tanto predicato, discusso e scritto sapienti trattati di apologetica;
eppure forse mai come oggi, almeno considerando la massa dei fedeli, la fede è
stata così poco viva. Troppo spesso coloro che hanno la missione d’insegnare
sembra che considerino l’atto di fede solo come un atto dell’intelligenza, mentre
esso costituisce anche un atto della volontà. Essi dimenticano che credere
è un dono soprannaturale e che, tra accettare i motivi di credibilità
e compiere l’atto di fede, c’è di mezzo un abisso. Dio solo e la buona volontà
di chi viene istruito possono colmare questo abisso, ma quanto aiuta in questo il
riflesso della luce divina prodotta dalla santità di colui che insegna!
Con la vita interiore,
l’apostolo irradia la speranza. – L’uomo di orazione non può fare a meno di
irradiare la speranza: la sua fede l’ha definitivamente confermato nella convinzione
che la felicità non si trova che in Dio e solo in Dio. Com’è convincente
dunque la sua parola quando parla del Cielo! Di quali risorse dispone per consolare!
Il modo migliore di farsi ascoltare dagli uomini sta nell’offrire a loro il segreto
di portare allegramente la Croce, destino comune ad ogni mortale. Questo segreto
sta nella speranza del Paradiso e nell’Eucaristia.
Com’è viva
la parola consolatrice dell’uomo che può senza mentire applicare a se stesso
il detto “La nostra patria sta nei Cieli”! (Fil. 3, 20). Un altro potrà
parlare delle gioie della patria celeste con frasi più fiorite e con maggior
abilità, ma i suoi discorsi resteranno senza frutto. Invece il primo, con
una parola sola, ma convincente e rivelatrice dell’animo di chi la pronuncia, riuscirà
a calmare quel turbamento, consolare quell’angoscia, fare accettare con rassegnazione
un dolore straziante. La virtù della speranza si è comunicata irresistibilmente
da un uomo interiore ad un’anima che non era mai stata riscaldata e che stava sprofondando
nella disperazione.
Con la vita interiore,
l’apostolo irradia la carità. – Ogni anima sollecita della propria santificazione
mira soprattutto al possesso della carità. Lo scopo dell’uomo interiore è
la compenetrazione tra Gesù e l’anima, è il “rimane in me e io
in lui”.
Tutti i predicatori
più esperti sono d’accordo nell’ammetterlo: in un ritiro o in una missione,
sebbene le prediche iniziali sulla morte, sul giudizio e sull’inferno siano sempre
indispensabili e salutari, la predica sull’amore di Gesù Cristo produce ordinariamente
una più salutare impressione; se poi essa viene pronunciata da un vero apostolo
che sappia comunicare all’uditorio i sentimenti che l’animano, assicura il successo
e produce le conversioni.
Che si tratti
di sottrarre un’anima al peccato mortale o di portarla dal fervore alla perfezione,
l’amore di Gesù è sempre la leva impareggiabile. Il cristiano immerso
nel fango, ma capace d’intuire nel suo simile un amore ardente, acceso per le realtà
invisibili, e d’altra parte capace di ammettere la delusione e la vuotezza degli
amori terreni, incomincia a provare il disgusto del peccato. Egli ha compreso qualcosa
di Dio, qualcosa dell’immenso amore di Gesù per la sua creatura, ha sentito
come un sussulto della grazia latente del suo battesimo e della sua prima Comunione.
Gesù vivo si è mostrato a lui, perché le tenerezze del suo cuore
sono traspirate nel volto e nella voce del suo ministro. Egli ha intravisto un ben
altro amore, un amore nobile, puro, ardente, e ha detto a se stesso: “In questo
mondo è dunque possibile amare con un amore superiore a quello delle creature”.
Basterà
solo qualche altra più intima manifestazione del Dio-Amore per mezzo del suo
araldo, e l’anima uscirà dall’abbiezione in cui era impantanata e non si spaventerà
più dei sacrifici necessari per conquistare il tesoro dell’amore divino, fino
allora rimastole quasi sconosciuto.
Anche senza bisogno
di sviluppare ulteriormente questa prospettiva, s’intuisce quali aumenti d’amore
e perciò quali progressi il vero pastore può assicurare alle anime
già uscite dal peccato oppure già fervorose. Anche se non sono rivestiti
del carattere sacerdotale, questi uomini di azione faranno nascere intorno a loro,
con quest’ardente carità, la più eccellente delle virtù teologali.
Con la vita interiore,
l’apostolo irradia la bontà. – Secondo san Francesco di Sales, lo zelo che
non è caritatevole procede da una carità che non è veritiera.
Gustando per mezzo dell’orazione la soavità di Colui che la Chiesa chiama
“oceano di bontà”, l’anima arriva a trasformarsi. Anche se fosse
naturalmente portata all’egoismo e alla durezza di cuore, a poco a poco questi difetti
scompariranno. Nutrendosi di Colui in cui apparve la benignità di Dio verso
il mondo – “Apparve la benignità e l’amore del Salvatore Dio nostro per
l’uomo” (Tit. 2, 11) – di Colui ch’è l’immagine e l’espressione adeguata
della Bontà divina – “Immagine della sua bontà” (Sap. 7,
26) – l’apostolo partecipa alla beneficenza di Dio e prova il bisogno di essere diffusivo
come Lui.
Più un
cuore è unito a Gesù Cristo, più esso partecipa alla qualità
principale del Cuore divino ed umano del Redentore: la bontà. Indulgenza,
benevolenza, compassione, tutto in lui si moltiplica, e la sua generosità
e la sua dedizione giungeranno sino all’immolazione gioiosa e magnanima.
Trasfigurato dall’amore
divino, l’apostolo si attirerà facilmente la simpatia delle anime: “Piacque
per la bontà e l’alacrità dell’anima sua” (Eccl. 40, 4). Le sue
parole ed i suoi atti saranno improntati alla bontà, ma ad una bontà
disinteressata e priva di somiglianza con quella ispirata dal desiderio della popolarità
o da un sottile egoismo.
“Dio ha voluto
– scrisse Lacordaire – che nessun bene si potesse fare all’uomo se non amandolo,
e che l’insensibilità fosse eternamente incapace sia di dargli la luce che
d’ispirargli la virtù”. Difatti ci si fa un vanto di resistere alla forza
che vuole imporsi; diventa un’impuntatura sollevare obiezioni alla scienza che pretende
di convincere sempre; ma poiché non sentiamo alcuna umiliazione a essere disarmati
dalla bontà, cediamo facilmente al fascino dei suoi modi.
Una piccola Suora
dei Poveri, una Suora dell’Assunzione o una Figlia della Carità potrebbero
citare una quantità di conversioni fatte senza discussioni, usando la sola
forza di una bontà infaticabile e spesso eroica.
Davanti a questi
miracoli di abnegazione, l’empio o il peccatore esclamano: “Qui c’è Dio!
Lo vedo proprio quale Egli si definisce: il buon Dio”. E buono dev’essere davvero,
se il trattare con Lui trasforma un essere tanto delicato in uno capace di annientare
il proprio orgoglio e di far tacere le più legittime ripugnanze.
Questi angeli
terreni mettono in pratica la definizione data dal padre Faber: “La bontà
è l’effusione di se stesso negli altri; essere buono vuol dire mettere gli
altri al posto di sé stesso. La bontà ha convertito un maggior numero
di peccatori che non lo zelo, l’eloquenza o l’istruzione, e queste tre cose non hanno
mai convertito nessuno senza che la bontà vi abbia svolto un qualche ruolo.
Insomma, la bontà ci rende come tanti dèi gli uni per gli altri. È
appunto la manifestazione di questo sentimento negli uomini apostolici che attira
a loro i peccatori portandoli quindi alla conversione”.
Ed aggiunge: “La
bontà si dimostra ovunque il miglior pioniere del Preziosissimo Sangue. (…)
Indubbiamente, i castighi del Signore sono spesso il principio di quella sapienza
che si chiama conversione; ma bisogna colpire gli uomini con la bontà, altrimenti
il timore non produrrà che infedeli”8. Abbiate il cuore di una madre, diceva San Vincenzo
Ferreri. Sia che dobbiate incoraggiare o intimorire, mostrate a tutti una profonda
e tenera carità e fate che il peccatore senta ch’essa ispira le vostre parole.
Se volete essere utili alle anime, cominciate col ricorrere a Dio di cuore, affinché
Egli diffonda in voi questa carità che è il compendio di tutte le virtù,
e possiate così raggiungere efficacemente, per mezzo di essa, lo scopo che
vi siete proposto9.
Tra la bontà
naturale, semplice frutto del temperamento, e la bontà soprannaturale di un’anima
apostolica, c’è tutta la distanza che separa l’umano dal divino. La prima
potrà far nascere il rispetto e forse la simpatia per l’operaio evangelico,
e talvolta farà deviare verso la creatura un’affezione che doveva rivolgersi
a Dio; ma non riuscirà mai a determinare le anime a fare, e solamente per
amore di Dio, il sacrificio necessario per tornare al loro Creatore. Solo la bontà
che deriva dall’intimità con Gesù può operare questo.
L’ardente amore
per Gesù e la vera dedizione per le anime permettono all’apostolo tutte le
audacie compatibili con il tatto e la prudenza. Un illustre laico mi ha raccontato
che un giorno, conversando con San Pio X, egli si era lasciato sfuggire qualche parola
mordace contro un nemico della Chiesa. Il Papa allora gli aveva detto: “Figlio
mio, io non approvo il vostro linguaggio. Per punizione ascolterete la storia seguente.
Un sacerdote che io conosco molto bene, appena giunto nella sua prima parrocchia,
credette suo dovere visitare tutte le famiglie, non esclusi gli ebrei, i protestanti
e gli stessi massoni, e poi annunziò dal pulpito che ogni anno avrebbe rinnovata
la visita. Grande agitazione tra i suoi confratelli, che andarono a lamentarsi dal
Vescovo. Questi chiamò l’accusato e gli fece un’aspra ammonizione. Il curato
rispose modestamente: ìEccellenza, Gesù nel Vangelo ordina al pastore
di condurre all’ovile tutte le sue pecorelle: oportet illas adducere. Ma come
riuscirvi, senza andare alla loro ricerca? D’altronde io non transigo sui princìpi
e mi limito a dimostrare il mio interessamento e la mia carità a tutte le
anime che Dio mi ha affidato, anche a quelle fuorviate. Ho annunziato queste visite
dal pulpito, ma se è vostro desiderio che me ne astenga, degnatevi di darmene
il divieto per iscritto, per far sapere che io non faccio altro che obbedire ai vostri
ordiniî. Il Vescovo, colpito dall’assennatezza di un tal linguaggio, non insistette.
D’altra parte, l’avvenire diede ragione al sacerdote, il quale ebbe la gioia di convertire
alcuni dei fuorviati e di obbligare tutti gli altri al rispetto della nostra santa
Religione. Più tardi, per volontà di Dio, quell’umile parroco è
diventato il Papa che vi sta dando questa lezione di carità, figlio mio. Restate
pertanto irremovibile sui principi, ma la vostra carità si estenda a tutti
gli uomini, fossero anche i peggiori nemici della Chiesa”.
Con la vita interiore
l’apostolo irradia l’umiltà. – È facile comprendere che la bontà
e la dolcezza di Gesù attiravano le moltitudini; ma si può attribuire
lo stesso potere alla sua umiltà? Non dubitiamone.
“Senza di
me non potete fare nulla” (Gv. 15, 5). Innalzato dal Creatore alla dignità
di cooperatore, l’apostolo diventa uno strumento di operazioni soprannaturali, ma
a condizione che vi si manifesti il solo Gesù. Più saprà cancellarsi
e diventare impersonale, più Gesù avrà cura di manifestarsi.
Se non c’è questa impersonalità, frutto della vita interiore, l’apostolo
pianterà e irrigherà invano: non germoglierà nulla.
L’umiltà
vera ha un fascino speciale la cui fonte è Gesù stesso. Essa respira
il divino. Allo zelo che l’uomo impiega nel far scomparire se stesso per far sì
che sembri agire solo Gesù – “Bisogna ch’Egli cresca e io diminuisca”
(Gv. 3, 30) – il Signore corrisponde il dono, concesso al suo ministro, di guadagnare
sempre più i cuori.
In tal modo, l’umiltà
diventa uno dei più potenti mezzi d’azione sulle anime. Diceva san Vincenzo
de’ Paoli ai suoi sacerdoti: “Credetemi, noi non saremo mai adatti a compiere
l’opera di Dio, se non ci convinceremo che da noi stessi siamo capaci più
di rovinare tutto che di costruire qualcosa”.
Può darsi
che qualcuno si stupisca del mio frequente ritornare su certi pensieri; lo faccio
perché mi sembra che soltanto ripetendoli potrò inciderli nello spirito
dei miei cari lettori mostrandone loro tutta l’importanza.
Modi di procedere
arroganti e arie presuntuose, non hanno forse spesso gran colpa nella sterilità
delle opere?
Il cristiano “moderno”
pretende di salvaguardare la propria indipendenza; accetterà di obbedire a
Dio, ma a Dio solo. Dal ministro di Dio non accetterà ordini né direttive
e neppure consigli, se non vi leggerà l’autentica firma di Dio.
Per questo è
necessario che l’apostolo sappia talmente occultarsi e scomparire mediante il sacrificio
dell’umiltà, frutto della vita interiore, da arrivare al punto di essere,
agli occhi di quelli che l’ascoltano e lo giudicano, nient’altro che la trasparenza
di Dio, realizzando in sé la parola del Maestro: “Chi è maggiore
fra voi, sarà vostro servitore. Voi non definitevi maestri e non fatevi chiamare
dottori” (Mt. 29, 31).
Il semplice aspetto
dell’uomo di vita interiore diventa un insegnamento della scienza della vita, che
è la scienza della preghiera (Sant’Agostino). E perché questo? Perché
con l’umiltà egli ispira la dipendenza da Dio. Questa dipendenza, in cui l’anima
si mantiene di continuo, si manifesta con l’abitudine di ricorrere a Dio in ogni
occasione, sia per prendere una decisione, sia per trovare consolazione nelle difficoltà,
sia soprattutto per ottenere la forza sufficiente a trionfarne.
Nel Breviario,
al Comune dei Confessori non Pontefici, si leggono le seguenti parole con le quali
san Beda commenta tanto mirabilmente l’espressione “piccolo gregge”: “Il
Salvatore chiama ëpiccolo’ il gregge degli eletti, sia perché lo paragona
alla moltitudine dei reprobi, sia più ancora per il suo appassionato zelo
per l’umiltà; per quanto numerosa ed estesa sia ormai la sua Chiesa, Egli
vuole tuttavia ch’essa cresca sino alla fine del mondo sempre nell’umiltà,
arrivando così al regno promesso all’umiltà”10.
Questo testo s’ispira
alle forti lezioni che Gesù Cristo dà ai suoi Apostoli quando, per
esempio, essi vogliono ritorcere a proprio vantaggio la loro vocazione all’apostolato,
mostrandosi pieni di ambizione e di gelosia. “Voi sapete – dice a loro il Maestro
– che i capi delle nazioni le dominano ed i grandi esercitano il potere sopra di
esse. Ma tra voi non sarà così; anzi, chi vorrà tra voi diventare
il maggiore vi faccia da ministro e chi vorrà tra voi essere il primo, diventi
vostro servo” (Mt. 20; Lc. 22).
Ma in tal modo
non sin finirà con l’indebolire l’autorità? Risponde Bourdaloue: ci
sarà sempre abbastanza autorità tra voi se ci sarà abbastanza
umiltà; ma se l’umiltà svanisce, l’autorità diventa pesante
ed insopportabile.
Senza la vera
umiltà, l’apostolo cade in uno di questi eccessi: o diventa troppo bonaccione,
o più spesso tende a diventare un tiranno.
Lasciamo qui da
parte la questione dottrinale. Supponiamo che l’apostolo sia sufficientemente illuminato
da preservare la sua intelligenza tanto da una tolleranza senza limiti quanto da
un’asprezza di zelo, entrambe sconvenienze criticate da Dio; supponiamo che suoi
principi siano perfettamente sani e che la sua scienza sia esatta. Posto questo,
affermo che un tale apostolo, senza l’umiltà, non riuscirà a tenere
il giusto mezzo tra i due estremi e che la vigliaccheria, o più spesso l’orgoglio,
si manifesteranno nella sua condotta.
O, cedendo ad
una falsa umiltà, egli sarà pusillanime, lascerà che la carità
degeneri in debolezza, sarà l’uomo delle concessioni esagerate, delle riconciliazioni
ad ogni costo, e il suo zelo nel preservare i princìpi scomparirà con
mille pretesti, motivazioni di prudenza e calcoli meschini.
Oppure il naturalismo
e la cattiva tendenza della volontà metteranno in gioco l’orgoglio, la suscettibilità,
l’Io. Ne deriveranno odi personali, “autoritarismo”, rancori, dispetti,
rivalità, antipatie, parzialità, ambizioni, vendette, gelosie, desideri
troppo umani di privilegi, calunnie, maldicenze, parole aspre, mondano spirito di
parte, asprezza nel difendere i princìpi, eccetera.
Invece di restare
il vero fine alla cui ricerca si nobilitano le nostre passioni, la gloria di Dio
verrà ridotta da questo apostolo alla condizione di mezzo e di pretesto per
puntellare, sviluppare e giustificare quelle stesse passioni in ciò che hanno
di troppo umano. I minimi attacchi alla gloria di Dio o alla Chiesa provocheranno
scatti d’ira in cui lo psicologo scoprirà la difesa della personalità
dell’operaio apostolico o dei privilegi della propria casta in quanto società
puramente umana, ben più che la dedizione alla causa di Dio, unica ragione
dell’esistenza della Chiesa come società perfetta stabilita da Nostro Signore.
La sicurezza di
dottrina e il sano discernimento non bastano a preservare da queste deviazioni, perché
l’apostolo privo di vita interiore, essendo perciò privo di vera umiltà,
verrà influenzato dalle proprie passioni. Solo l’umiltà, conservandolo
nella rettitudine di giudizio e distogliendolo dall’agire per impressioni, darà
maggior equilibrio e stabilità nella sua vita. Unendolo a Dio, lo farà
partecipare, per così dire, alla immutabilità divina; simile alla fragile
edera che diviene forte e stabile, della fortezza incrollabile della quercia, quando
con tutte le sue fibre s’attacca al robusto tronco di questa regina delle foreste.
Non si esiti a
riconoscerlo: senza l’umiltà, seppure non cadremo nel primo eccesso, la nostra
natura ci trascinerà al secondo, oppure oscilleremo ora verso l’uno ed ora
verso l’altro, a seconda delle circostanze o delle passioni. In tal modo si realizzeranno
quelle parole di san Tommaso: “L’uomo è un essere mutevole; è
costante solo nella sua incostanza”.
Il logico risultato
di un apostolato così difettoso sarà o il disprezzo per una autorità
pusillanime o la diffidenza, e spesso l’odio, verso un’autorità che non riflette
quella di Dio.
Con la vita interiore
l’apostolo irradia fermezza e dolcezza. – Molte volte i Santi hanno attaccato con
la massima forza l’errore, lo scandalo e l’ipocrisia. San Bernardo, oracolo del suo
secolo, può essere considerato come uno dei Santi il cui zelo ha si è
irradiato con maggiore fermezza. Leggendo la sua vita, però, il lettore saprà
distinguere fino a qual punto la vita interiore avesse reso impersonale questo uomo
di Dio. Egli non ricorre mai alla fermezza, se non dopo aver constatato con evidenza
l’inefficacia degli altri mezzi. Spesso anzi li alterna: dopo aver manifestato, per
vendicare i princìpi, una santa indignazione e domandato rimedi, riparazioni,
garanzie e promesse, nel suo grande amore per le anime lo si vede dedicarsi ben presto,
con una dolcezza materna, alla conversione di quelli che in coscienza aveva dovuto
combattere. Pur spietato con gli errori di Abelardo, sapeva farsi amico di colui
che aveva vittoriosamente ridotto al silenzio.
Se vede che i
princìpi sono fuori questione e si tratta solo dei mezzi da usare, egli si
batte facendo il possibile per evitare che gli ecclesiastici ricorrano a metodi violenti.
Venuto a sapere che si vuol mandare in rovina e massacrare gli ebrei in Germania,
sùbito lascia il suo chiostro per correre in loro difesa e predicare una crociata
di pace. In un memorabile documento riportato dal padre Ratisbonne nella sua vita
di San Bernardo11, il gran rabbino di quella
nazione manifesta la sua ammirazione per il monaco di Chiaravalle, “senza del
quale – disse – nessuno di noi sarebbe rimasto vivo in Germania”; egli invita
le future generazioni ebraiche a non dimenticare mai il debito di gratitudine che
hanno verso il santo abate. Diceva san Bernardo in quell’occasione: “Noi siamo
i soldati della pace, l’esercito dei pacifici: «Deo et paci militantibus».
La persuasione, l’esempio e l’abnegazione sono le sole armi degne dei figli del Vangelo”.
Nulla potrà
sostituire la vita interiore nell’ottenere questo spirito impersonale che caratterizza
lo zelo di tutti i Santi.
Nel Chiablese,
prima che vi giungesse San Francesco di Sales, tutti gli sforzi erano falliti. I
caporioni del protestantesimo si preparavano ad una lotta accanita: la setta calvinista
aveva persino deciso di uccidere il santo vescovo di Ginevra. Ma questi si presentò
irradiando dolcezza e umiltà; in lui si vide un uomo in cui l’annientamento
dell’Io faceva risplendere l’amore di Dio e del prossimo. La storia riferisce i rapidi
e quasi inverosimili risultati di quell’apostolato.
Ma anche lui,
il dolce San Francesco di Sales, quando era necessario, sapeva dimostrare una fermezza
inesorabile. Per rafforzare i risultati ottenuti dalla soavità della sua parola
e dall’esempio delle sue virtù, egli non esitava ad invocare la forza delle
leggi civili. Così il santo vescovo consigliò al Duca di Savoia di
prendere severe misure contro la perfidia degli eretici.
I Santi non facevano
che imitare il Maestro. Nel Vangelo vediamo il Salvatore accogliere con misericordia
i peccatori, mostrarsi amico di Zaccheo e dei pubblicani e pieno di bontà
per gl’infermi, gli afflitti ed i piccoli. Tuttavia Egli stesso, la dolcezza e la
mansuetudine incarnata, non esita ad impugnare la sferza per scacciare i mercanti
dal Tempio. E quando parla di Erode o condanna i vizi degli Scribi e degli ipocriti
Farisei, che severità, che vigore nelle sue frasi!
Soltanto in certi
casi rarissimi, dopo aver adoperato inutilmente tutti i mezzi, oppure quando si vede
chiaramente che questi sarebbero inutili, soltanto allora e a malincuore, per impedire
lo scandalo, e perciò per carità, si può ricorrere a procedimenti
che sembrano violenti.
Fatte queste eccezioni,
e sempre che non siano in causa i princìpi, è la mansuetudine che deve
dominare nella condotta dell’operaio evangelico. “Si acchiappano più
mosche con poche gocce di miele che con un barile di aceto”, diceva san Francesco
di Sales.
Ricordiamo il
rimprovero che il Signore fece ai suoi Apostoli quando, irritati e umiliati nella
loro umana dignità e non certo spinti da zelo puro e disinteressato, volevano
ricorrere alla violenza domandando che discendesse fuoco dal cielo sulla regione
di Samaria, che si era rifiutata di accoglierli. “Voi non sapete di quale spirito
siete!”, rispose Gesù (Lc. 9, 55).
Un vescovo francese,
la cui fermezza sui princìpi è citata come modello, visitava di recente,
nella sua città episcopale, famiglie in lutto in cui la grande guerra aveva
fatto alcune vittime. Facendosi tutto a tutti, andò a portare la sua consolazione
ad un calvinista che piangeva il figlio caduto in battaglia con onore, e gli rivolse
parole cordiali e commosse. Colpito da questo atto di umile carità, quel protestante
esclamava poi: “È possibile che un Vescovo tanto nobile per la sua nascita
e tanto distinto per la sua istruzione si sia degnato, nonostante la nostra diversità
di religione, a varcare la soglia della mia modesta dimora? Il suo contegno e le
sue parole mi hanno penetrato il cuore”. L’industriale presso il quale lavorava,
nel raccontare questo fatto, aggiungeva: “Per me, questo protestante è
per metà convertito; o per lo meno il Vescovo, con la sua dolcezza, ne ha
avvicinato la conversione ben più d’interminabili e vivaci discussioni”.
Quel pastore d’anime
aveva manifestato la mansuetudine del Signore; il protestante aveva come visto davanti
a sé il Salvatore ed era costretto ad ammettere: “Una Chiesa nella quale
vi sono Vescovi che rispecchiano così perfettamente Colui che io ammiro nel
Vangelo, dev’essere la vera Chiesa”.
La vita interiore
mantiene nello stesso tempo l’intelletto e la volontà al servizio del Vangelo.
Né l’indolenza, né la violenza ingiustificata faranno traviare l’anima
che vede ed opera secondo il Cuore di Gesù; soltanto da questo adorabile Cuore
essa attinge la sua prudenza ed il suo ardore; qui sta il segreto del suo successo.
Al contrario, la mancanza di vita interiore, e perciò la manifestazione delle
umane passioni, danno la spiegazione di tante sconfitte.
Con la vita interiore
l’apostolo irradia la mortificazione. – Un altro principio che feconda le opere è
lo spirito di mortificazione. Tutto si riassume nella Croce. Finché non avremo
fatto penetrare nelle anime il mistero della Croce, le avremo soltanto sfiorate.
Ma chi potrà far accettare un mistero che ripugna a quell’orrore della sofferenza
tanto naturale all’umana creatura? Solo colui che potrà dire col grande Apostolo:
“Sono crocifisso insieme a Cristo” (Gal. 2, 19), solo coloro che portano
in loro stessi Gesù mortificato: “Portiamo sempre nel nostro corpo il
martirio di Gesù, affinché anche la Sua vita si manifesti nel nostro
corpo” (2 Cor. 4, 10). Mortificarsi è riprodurre il “Cristo non
cercò la propria soddisfazione” (Rom. 15, 3), significa rinunziare a
se stessi in ogni circostanza, significa giungere ad amare ciò che non piace,
significa infine tendere all’ideale di essere una vittima continuamente immolata.
Ma senza la vita
interiore non è possibile giungere a questo radicale rovesciamento dei nostri
più tenaci istinti.
Mentre il Poverello
di Assisi, attraversando in silenzio le vie della città, predica col suo solo
aspetto il mistero della Croce, l’apostolo non mortificato ripeterebbe invano gli
splendidi accenti di Bossuet nel suo discorso sul Calvario. Il mondo è talmente
impantanato nelle concupiscenze che, per demolire la sua cittadella, non bastano
davvero gli argomenti comuni e neppure gli spunti grandiosi. Ci vuole la Passione
resa come percepibile per opera della mortificazione e del distacco del ministro
di Dio.
“Inimicos
Crucis Christi!”, ripeterebbe San Paolo, “nemici della Croce di Cristo”
quei numerosi cristiani che concepiscono la religione come una forma di snobismo,
un’abitudine a pratiche esteriori trasmesse per tradizione, compiute regolarmente
e con rispetto, certo, ma senza collegarle affatto all’emendazione della vita, alla
lotta contro le passioni e all’introduzione dello spirito del Vangelo nei costumi.
“Questo popolo fa finta di onorarmi – potrebbe ripetere il Signore – ma lo fa
solo con le labbra, perché il suo cuore è lontano da me” (Mt.
15, 8, che cita Is. 29, 13).
“Inimicos
Crucis Christi!”, nemici della Croce, quei cristiani rammolliti che ritengono
indispensabile circondarsi di tutte le comodità, piegarsi a tutte le esigenze
del mondo, abbandonarsi ai suoi disordinati piaceri, seguire appassionatamente tutte
le mode… e poi si sentono urtati da quella parola ch’essi non comprendono più,
ma che pure Gesù disse a tutti: “Se non farete penitenza, perirete tutti
allo stesso modo” (Lc. 13, 3). La croce è divenuta per loro uno scandalo,
conformemente all’espressione di san Paolo (1 Cor. 1, 23). Eppure, senza la vita
interiore, può l’apostolo produrre dei cristiani diversi da questi?
Una numerosa partecipazione
popolare a certe funzioni religiose soddisferà senza dubbio il cuore del vero
sacerdote. Ma lo lascerà senza entusiasmo, se non potrà attribuire
tale partecipazione che all’abitudine, ad una fedeltà rispettabile verso certe
usanze di famiglia, a certe usanze che non scomodano per nulla il corso della vita;
oppure se ne troverà la causa nel piacere di gustare una buona musica, di
ammirare un magnifico apparato liturgico, oppure di assistere ad un esercizio di
eloquenza ammirato solo per il suo aspetto formale.
Almeno, sembrerebbe,
non potrà rifiutare questo entusiasmo davanti alla Comunione frequente.
Mi torna alla
mente un ricordo del mio viaggio negli Stati Uniti. Attraversando certe parrocchie,
ero entusiasta nell’apprendere che numerosi uomini erano fedeli alla Comunione del
primo venerdì del mese. Ma un santo prete di New York mi disse: “L’uomo
guarda la faccia ma Dio scruta il cuore12. Non dimenticate che siete
in un Paese in cui il rispetto umano è sconosciuto e dove dappertutto regna
il gusto del sensazionale. Riservate la vostra ammirazione per quelle parrocchie
in cui l’accorto osservatore può constatare che le Comunioni frequenti manifestano
davvero, se non la completa emendazione della vita, almeno sforzi sinceri di vita
cristiana e un desiderio leale di non venire a compromesso con l’intemperanza, la
sfrenata ricerca del denaro, eccetera”.
Lungi da me il
pensiero di svalutare le più minime tracce di vita cristiana, di qualsiasi
tipo. Con queste mie parole intendo piuttosto deplorare quella triste incapacità
– in cui potremmo cadere, per la mancanza di vita interiore – di non produrre altro
che risultati molto miseri, benché non disprezzabili.
Il Signore vuole
da noi soltanto il cuore: per conquistarlo, per possedere la nostra volontà,
per animarci a seguirlo nella via della rinunzia, Egli è venuto a rivelare
all’uomo le sublimi verità della fede.
Di far nascere
questa rinunzia, base di ogni perfezione morale, ne sarà capace solo
l’apostolo abituato alla vita interiore, ch’è tutta fondata sul “rinneghi
se stesso” (Mt. 16, 24); ne sarà invece incapace colui che segue troppo
da lontano il Salvatore carico della croce: “Nessuno può dare ciò
che non ha”.
Se egli stesso
è codardo nell’imitare Gesù Crocifisso, come potrà predicare
al suo popolo quella guerra santa contro le passioni, alla quale Nostro Signore ci
chiama?
Solo l’apostolo
disinteressato, umile e casto può trascinare le anime a lottare contro le
ondate sempre crescenti della cupidigia, dell’ambizione e dell’impudicizia. Soltanto
colui che conosce la scienza del Crocifisso è abbastanza potente da opporre
una diga a quella continua ricerca delle comodità, a quel culto del piacere
che minacciano di sommergere tutto e di rovesciare le famiglie e le nazioni.
Predicare Gesù
crocifisso: così san Paolo riassume il suo apostolato; siccome egli vive di
Gesù, e di Gesù crocifisso, riesce a far gustare alle anime il mistero
della Croce e ad insegnar loro a viverlo. Troppi apostoli moderni non hanno abbastanza
vita interiore per approfondire questo mistero di vita, per esserne penetrati ed
irradiarlo intorno a loro. Troppo esclusivamente essi considerano nella religione
gli aspetti filosofici, sociali o addirittura estetici, capaci solo di interessare
l’intelligenza o di eccitare la sensibilità e l’immaginazione; troppo lusingano
la loro tendenza a vedere nella religione soprattutto una scuola di poesia sublime
e di arte incomparabile. La religione ha certamente tutte queste qualità;
ma vederla soltanto sotto questi aspetti secondari, significa assolutamente deformare
il piano del Vangelo elevando a scopo ciò che è soltanto un mezzo.
Il Cristo del Getsemani, del Pretorio e del Calvario, trasformarlo in un bellimbusto,
è un sacrilegio. Dopo il peccato originale, la penitenza, la riparazione e
la lotta spirituale sono divenute condizioni indispensabili di vita, e la Croce di
Gesù Cristo ce lo ricorda in ogni circostanza. Allo zelo del Verbo Incarnato
per la gloria del Padre Suo, non basta ottenere degli ammiratori: vuole avere imitatori.
Nella sua enciclica
dell’ 11 novembre 191413, Benedetto XV ha invitato
i veri apostoli a tracciare un più profondo solco, allo scopo di strappare
le anime dall’amore delle comodità, dall’egoismo, dalla leggerezza dei gusti,
dall’oblio dei beni soprannaturali. Ciò significa fare appello alla vita interiore
dei ministri del divino Crocifisso.
Quel Dio che tanto
ci ha dato esige che il cristiano, fin dall’età della ragione, unisca alla
sanguinosa Passione di Gesù qualcosa di se stesso, cioè quello che
potremmo chiamare il sangue della sua anima, ossia i sacrifici necessari per osservare
le leggi divine. Ma come potrà il fedele compiere generosamente questi sacrifici
dei beni, dei piaceri e degli onori, se non è attirato dall’esempio di un
pastore di anime che sia per primo abituato allo spirito di sacrificio?
Dinanzi allo spettacolo
delle reiterate vittorie del nemico infernale, ci si domanda ansiosamente: donde
verrà la salvezza della società? Quando toccherà alla Chiesa
di trionfare? È facile rispondere con le parole del Maestro divino: “Questo
genere di demoni lo si può scacciare solo con la preghiera e il digiuno”
(Mt. 17, 20). Quando dalle schiere del sacerdozio e della religiosa milizia uscirà
una pleiade di uomini penitenti che facciano risplendere in mezzo ai popoli il mistero
della Croce, allora questi popoli, contemplando nel sacerdote o nel religioso mortificato
le riparazioni per i peccati del mondo, comprenderanno la Redenzione operata dal
Sangue di Gesù Cristo. Solo allora l’esercito di Satana indietreggerà;
avendo Dio finalmente trovato anime riparatrici, solo allora non risuonerà
più attraverso i secoli l’eco terribile del doloroso lamento del Signore oltraggiato:
“Ho cercato fra loro un uomo che vi ponesse rimedio, che si levasse a difesa
del popolo per evitare che lo sterminassi, ma non l’ho trovato!” (Ez. 22, 30).
Oualcuno ha voluto
spiegare perché mai un semplice segno di croce fatto dal padre de Ravignan
produceva un effetto così magico sugli indifferenti e persino sugli stessi
empi venuti ad ascoltarlo per mera curiosità. La conclusione delle domande
rivolte a molti uditori, fu che l’austerità della vita intima del predicatore
si manifestava in maniera avvincente in quel segno di croce che lo univa al mistero
del Calvario.
4. La vita interiore
dà all’operaio evangelico la vera eloquenza
Intendo parlare
qui dell’eloquenza apportatrice di grazia, capace di convertire le anime e condurle
alla virtù. Ne ho già parlato incidentalmente e perciò mi limito
a poche parole.
Nell’ufficio di
S. Giovanni Evangelista si legge questo responsorio: “Riposando sul petto del
Signore, egli bevve alla sorgente che scaturiva dallo stesso Sacro Cuore, e diffuse
in tutto i mondo i fiumi della grazia divina”. In queste poche parole, quale
profonda lezione per tutti coloro che, come predicatori o scrittori o catechisti,
hanno la missione di diffondere la parola divina! Con queste incisive espressioni
la Chiesa svela ai suoi sacerdoti la sorgente della vera eloquenza.
Tutti gli evangelisti
sono ugualmente ispirati, tutti hanno il loro scopo provvidenziale; tuttavia ognuno
ha una propria eloquenza.
San Giovanni più
degli altri possiede quella che giunge alla volontà per mezzo del cuore, in
cui versa la grazia del Verbo divino. Il suo Vangelo, con le lettere di san Paolo,
è il libro preferito dalle anime che trovano la vita terrena vuota di senso
senza l’unione con Gesù Cristo.
Donde proviene
a San Giovanni quest’affascinante eloquenza? Da quale monte sgorga quel fiume le
cui acque benefiche irrigano il mondo intero? Il testo liturgico ce lo dice: È
un fiume che sgorga dal Paradiso, “quasi unus ex Paradisi fluminibus Evangelista
Ioannes”.
A che servono
tante alte montagne e tanti ghiacciai? “Non sarebbe più utile – dirà
l’ignorante – se queste immense alture di terra si livellassero distendendosi in
pianura?” Egli non pensa che, senza quelle alte cime, le pianure e le valli
sarebbero sterili come il deserto del Sahara. Sono infatti proprio le montagne che,
con i fiumi di cui sono serbatoi, danno fertilità alla terra.
L’alta vetta del
Paradiso, da cui scaturisce la sorgente che alimenta il Vangelo di San Giovanni,
altro non è che il Cuore di Gesù: “Evangelii fluenta de ipso sacro
Dominici pectoris fonte potavit”; appunto perché l’Evangelista, con la
vita interiore, ha udito i battiti del Cuore dell’Uomo-Dio e l’ immensità
del suo amore per gli uomini, la sua parola è apportatrice del Verbo divino:
“Verbi Dei gratiam diffudit”.
Allo stesso modo,
si può dire che gli uomini di vita interiore sono in un certo senso fiumi
del Paradiso. Con le loro preghiere e immolazioni attirano dal Cielo sulla terra
le acque vive della grazia e allontanano o abbreviano i castighi meritati dal mondo.
Inoltre, andando ad attingere – nel più alto dei cieli, dal cuore di Colui
nel quale risiede la vita intima di Dio – l’acqua viva della vita, la versano con
abbondanza sulle anime: “Haurietis aquas de fontibus Salvatoris”. Chiamati
ad annunciare la parola di Dio, lo fanno con un’eloquenza di cui essi soli hanno
il segreto. Essi raccontano il Cielo alla terra; essi illuminano, riscaldano, consolano,
fortificano. Senza tali qualità unite insieme, l’eloqueza sarà incompleta;
ma il predicatore non potrà riunirle se non vivendo di Gesù.
Son davvero io
uno di coloro che, per dare forza dell’azione alla propria eloquenza, contano soprattutto
sulla preghiera, sulla visita al Ss.mo Sacramento, sulla Messa, sulla Comunione?
Se così non è, potrò essere un rumoroso cymbalum tinniens,
potrò rimbombare come un bronzo, velut aes sonans, ma non sarò
mai il canale dell’amore, di quell’amore che rende irresistibile l’eloquenza degli
amici di Dio.
Il quadro della
verità cristiana, esposto da un predicatore istruito ma di pietà mediocre,
può commuovere le anime, avvicinarle a Dio ed anche accrescere la loro fede.
Ma per impregnarle del vivificante sapore della virtù è necessario
aver gustato lo spirito del Vangelo e, per mezzo della meditazione, averne fatta
la sostanza della propria vita.14
Ripetiamo ancora
che solo lo Spirito Santo, principio di ogni fecondità spirituale, opera le
conversioni e diffonde le grazie che spingono a fuggire il vizio e praticare la virtù.
La parola dell’operaio evangelico, impregnata dell’unzione dello Spirito santificatore,
diviene un canale vivente che riversa l’azione divina. Prima della Pentecoste gli
Apostoli avevano predicato quasi senza frutto; ma dopo il loro ritiro di dieci giorni,
tutto pregno di vita interiore, lo Spirito di Dio li invade e li trasforma; i loro
primi esempi di predicazione sono pesche miracolose. Altrettanto vale per i seminatori
del Vangelo; mediante la vita interiore, essi sono veramente apportatori di Cristo,
piantano ed irrigano efficacemente e allora lo Spirito Santo garantisce la crescita.
La loro parola è ad un tempo il buon seme che cade e la pioggia che feconda;
il sole che fa crescere e maturare non manca mai.
“Il solo
risplendere è vano, il solo riscaldare è poco; la perfezione sta nel
risplendere riscaldando”, dice san Bernardo, che continua: “Specialmente
agli Apostoli e agli uomini apostolici è stato detto: La vostra luce risplenda
davanti agli uomini; essi vengono notati perché accesi, anzi infuocati”.15
L’apostolo attinge
l’eloquenza evangelica dalla vita d’unione con Gesù mediante la meditazione
e la custodia del cuore, ma l’attinge anche dalle Scritture studiate e gustate con
passione. Per lui ogni parola rivolta da Dio all’uomo, ogni detto uscito dalle adorabili
labbra di Gesù, è un diamante di cui ammira le varie sfaccettature
alla luce del dono della sapienza, così particolarmente sviluppato in lui.
Ma siccome egli non apre il Libro sacro se non dopo aver pregato, non solo ne ammira
gli insegnamenti, ma li assapora come se lo stesso Spirito Santo li avesse dettati
solo per lui.
Quanta unzione
perciò quando, salito sul pulpito, cita la parola di Dio, e quale diversità
tra i lumi che ne fa scaturire lui e le ingegnose o sapienti applicazioni che può
trarne un predicatore assistito dai soli lumi della ragione e da una fede pressoché
astratta e morta! Il primo mostra la verità viva che avvolge le anime con
una realtà che non vuole solo illuminarle ma anche vivificarle. Il secondo
non sa parlarne se non come di una equazione algebrica, indubbiamente esatta, ma
fredda e senza legami con la vita intima; egli lascia la verità astratta,
o, per così dire, allo stato di semplice memoriale, o tutt’al più capace
solo di eccitare i cuori per via del cosiddetto carattere estetico del cristianesimo.
“La maestà delle Scritture mi sbalordisce e la semplicità del
Vangelo mi parla al cuore”, confessava il sentimentale Rousseau. Ma che importavano
alla gloria di Dio queste vaghe e sterili emozioni?
Il vero apostolo,
invece, possiede il segreto di mostrare il Vangelo nella sua verità, non soltanto
sempre attuale, ma anche sempre operante e continuamente rinnovata, perché
divina, per l’anima che ne entra in contatto. Senza fermarsi a gustarne il sentimento,
egli giunge, mediante la parola divina, fino a quella volontà in cui risiede
la corrispondenza alla vera vita; le convinzioni da lui prodotte generano amore e
risoluzione. Egli solo possiede la vera eloquenza evangelica.
Non vi può
essere vita interiore completa senza una tenera devozione a Maria Immacolata, che
è il canale per eccellenza di tutte le grazie, e soprattutto delle grazie
più elette. L’apostolo abituato al continuo ricorso a Maria – senza del quale
san Bernardo non può comprendere come si possa essere vero figlio di questa
incomparabile Madre – nell’esporre il dogma sulla Madre di Dio e degli uomini, trova
parole che non solo colpiscono e commuovono gli uditori, ma trasmettono a loro questo
stesso bisogno di ricorrere, in ogni difficoltà, alla Dispensatrice del Sangue
divino. Basta che questo apostolo lasci parlare la sua esperienza ed il suo cuore,
per guadagnare le anime alla Regina del Cielo e, per mezzo di Lei, gettarle nel Cuore
di Gesù.
5. Poiché la
vita interiore genera altra vita interiore, i suoi risultati
sulle anime sono profondi e duraturi
Bisognerebbe che
questo capitolo, che ho aggiunto alle prime edizioni del libro, fosse scritto in
forma di lettera indirizzata al cuore di ognuno dei miei confratelli.
Già abbiamo
considerato che le opere dipendono soprattutto dalla vita interiore dell’operaio
evangelico. Ma la preghiera e la riflessione mi hanno spinto ad analizzare l’infecondità
delle opere sotto un altro aspetto, e credo di essere nel vero formulando la seguente
proposizione:
Un’opera non mette
profonde radici, non è veramente stabile né si perpetua, se l’operaio
evangelico non ha generato anime alla vita interiore. Ora, questo non può
farlo se non è egli stesso fortemente nutrito di vita interiore.
Nel paragrafo
3 della seconda parte, ho citato le parole del canonico Timon-David sulla necessità
di formare in ogni istituzione un gruppo di ferventissimi cristiani che esercitino,
a loro volta, un vero apostolato sui loro compagni. Tutti comprendono quanto sia
prezioso questo fermento e fino a qual punto questi collaboratori possano moltiplicare
la potenza di azione dell’apostolo. Egli non lavora più da solo, ma i suoi
mezzi d’azione sono centuplicati.
Mi affretto a
ripetere che soltanto l’uomo di azione veramente interiore ha vita sufficiente per
produrre altri focolai di vita feconda. Ad ottenere zelatori capaci di far propaganda
e di esercitare un’influenza per cameratismo, per spirito di corpo o per rivalità,
riescono anche le opere laiche, alle quali basta far perno su fanatismo o rivalità,
su settarismo o una misera gloria, su interesse o ambizione. Ma per suscitare degli
apostoli secondo il Cuore di Gesù Cristo, apostoli che partecipino alla sua
dolcezza e alla sua umiltà, alla sua disinteressata bontà e al suo
zelo esclusivo per la gloria di Dio, non si può sperare in altra leva che
l’intensa vita interiore.
Finché
un’istituzione non ha potuto produrre questo risultato, la sua esistenza è
effimera ed è quasi certo che non sopravviverà al suo fondatore. Per
contro, non c’è da dubitare che la ragione della continuità di certe
istituzioni sta ordinariamente nel solo fatto che la vita interiore ha potuto generare
altra vita interiore.
Ne porto un esempio.
Il padre Allemand16, morto in odore di santità,
al tempo della Rivoluzione Francese aveva fondato a Marsiglia l’Opera Giovanile per
gli studenti e gli operai. Questa istituzione conserva ancora il nome del Fondatore
e continua, dopo oltre un secolo, a godere di un’ammirabile prosperità. Ben
poco dotato dal punto di vista naturale, quasi cieco, timido e senza talento oratorio,
questo sacerdote, umanamente parlando, era incapace della prodigiosa attività
richiesta dalla sua impresa.
I lineamenti sgraziati
del suo volto avrebbero portato i giovani a burlarsi di lui, se la bellezza della
sua anima non si fosse manifestata nello sguardo e in tutto il suo contegno. In virtù
di questa bellezza, l’uomo di Dio aveva su quella irrequieta gioventù un tale
ascendente da dominarla e imporle rispetto, stima ed affetto. Allemand volle tutto
costruire solamente sulla vita interiore e fu capace di formare, in seno alla sua
opera, un gruppo di giovani ai quali non esitava a domandare, in tutta la misura
permessa dalla loro condizione, una vita interiore integrale, un’assoluta custodia
del cuore, la meditazione mattutina, eccetera; insomma la completa vita cristiana
quale la comprendevano e la praticavano i cristiani dei primi secoli.
Questi giovani
apostoli, succedendosi, continuarono davvero ad essere in Marsiglia l’anima di quell’istituzione
che diede alla Chiesa tanti Vescovi e dà tuttora tanti sacerdoti, missionari,
religiosi e migliaia di padri di famiglia, che sono in quella città marittima
il maggior cardine delle opere parrocchiali e formano una schiera che non solo è
l’onore del commercio, dell’industria e delle professioni, ma costituisce un vero
focolaio di apostolato.
Padri di famiglia,
ho detto; queste parole mi richiamano il solito ritornello che si ode un po’ovunque:
“L’apostolato è relativamente facile sui giovani, sulle ragazze e sulle
madri di famiglia, ma quando lo si vuole esercitare sugli uomini, diventa spesso
impossibile. Eppure, finché non avremo ottenuto che i capi di famiglia diventino
non solo cristiani ma apostoli anche loro, l’influenza pur tanto apprezzabile della
madre cristiana sarà paralizzata o effimera e non giungeremo mai ad assicurare
il regno sociale di Gesù Cristo. Orbene, in questa parrocchia, in questo sobborgo,
in questo ospedale, in questa officina, non c’è nulla da fare per portare
gli uomini a divenire profondamente cristiani”.
Ma confessando
così la nostra incapacità, non forniamo forse il più delle volte
una patente d’insufficienza a quella vita interiore che da sola potrebbe ispirarci
i mezzi per impedire che un così gran numero di uomini sfugga all’azione della
Chiesa? Alle fatiche di una intensa preparazione, alle prediche capaci di far nascere
la convinzione, l’amore e profonde risoluzioni nelle menti e nei cuori degli uomini,
non preferiamo forse i facili successi oratori davanti alla gioventù o alle
donne? Solo la vita interiore ci potrebbe sostenere nelle fatiche delle semine ignote,
ardue e a lungo infruttuose, in apparenza. Solo essa ci farebbe comprendere quanta
potenza darebbe alla nostra azione la fatica della preghiera e della penitenza, e
quanto i nostri progressi nell’imitazione di tutte le virtù di Gesù
Cristo moltiplicherebbero l’efficacia del nostro apostolato fra gli uomini.
Rimasi così
sorpreso dai particolari che si raccontavano intorno ad un circolo militare di una
grande città della Normandia, che stentavo a credere a tali successi. Come
mai, per esempio, i soldati andavano al circolo molto più numerosi quando
vi si teneva una lunga serata d’adorazione in riparazione delle bestemmie e delle
dissolutezze commesse in caserma, che non quando si dava un concerto musicale o una
rappresentazione teatrale? Ma dovetti arrendermi all’evidenza e cessò anche
la sorpresa, quando mi venne descritto fino a qual punto il cappellano militare comprendeva
il Tabernacolo e quali apostoli aveva saputo formare attorno a sé.
Dopo un tal esempio,
che pensare di certi apostoli per i quali cinema, teatro e ginnastica sembrano quasi
formare il programma di un quinto vangelo annunciato per la conversione dei popoli?
In mancanza d’altro,
l’uso di questi mezzi per attirare i giovani o per tenerli lontani dal male otterrà
certamente qualche risultato, ma troppo spesso così limitato ed effimero!
Dio mi guardi dal raffreddare lo zelo di quei cari confratelli che non possono né
concepire né usare altro metodo e – come ho verificato da giovane – temono
sùbito che i loro istituti diventino deserti, non appena gli si propone di
consacrare meno tempo a preparare quei moderni divertimenti che considerano come
condizione sine qua non del successo. Mi limito dunque a metterli in guardia
contro il pericolo di dar troppa importanza a questi mezzi ed auguro a loro la grazia
di comprendere la tesi del canonico Timon-David, di cui già ho riportato una
conversazione.
Un giorno (avevo
appena due anni di sacerdozio) quel venerando sacerdote era costretto a dirmi fraternamente,
ma non senza una certa pietà, alla fine di una conversazione:
“Non potestis
portare modo; solo più tardi, quando lei sarà progredito nella
vita interiore, mi comprenderà meglio. Tutto considerato, oggi lei non può
trascurare tali mezzi; li adoperi dunque senza esitare, in mancanza d’altro. Per
conto mio, conservo senza problemi i miei giovani operai e impiegati e ne attiro
altri, benché da noi non ci sia quasi altro che quei giochi antichi e sempre
nuovi che, oltre non costare nulla, distendono l’animo con la loro stessa semplicità”.
Aggiunse poi argutamente:
“Le avevo mostrato relegati nel solaio gli strumenti di musica che anch’io in
principio consideravo indispensabili; guardate che proprio ora viene verso di noi
la nostra fanfara, giudicatela voi”. Infatti, dopo alcuni minuti, sfilava davanti
a noi un folto gruppo di quaranta o cinquanta giovani dai dodici a diciassette anni.
Che baccano! Chi non sarebbe scoppiato dalle risa alla vista di quella buffa schiera
che lo sguardo allegro del vecchio canonico contemplava con soddisfazione? Egli mi
disse:
“Osservi
quello che marcia a ritroso in testa al gruppo ed agita quella grossa bacchetta come
un direttore d’orchestra e poi la porta comicamente alle labbra quasi fosse un clarinetto.
È un sott’ufficiale in licenza, uno dei nostri migliori apostoli. Per quanto
può, fa la Comunione quotidiana, ma soprattutto non tralascia mai la mezz’ora
di orazione mentale. Straordinario trascinatore, quest’angelo di pietà s’ingegna
di utilizzare tutti i suoi talenti perché i giochi dei ragazzi non vengano
a languire. Magnifico nello scovare risorse per riuscirci, egli tiene vivo l’entusiasmo
di questi fanciulli; ma nulla sfugge al suo occhio di aiutante e al suo cuore di
apostolo”.
Non potevo trattenere
le risa dinanzi a quel gruppo di musicisti che eseguivano i canti più in voga
a quei tempi: Un canard déployant ses ailes; As-tu vu la casquette,
eccetera. Quando il direttore d’orchestra dava l’attacco, si cambiava ritornello.
Ogni esecutore simulava uno strumento: alcuni con le mani alla bocca a forma di conchiglia,
altri con un foglio di carta che vibrava tra le labbra, pochi altri con uno zufolo,
eccetera; in prima fila c’era un trombone e una grancassa: il primo era imitato da
due bastoni ad uno dei quali la mano imprimeva un regolare movimento avanti-indietro;
la seconda era costituita da un vecchio bidone da petrolio. I volti raggianti di
tutti quei ragazzi mostravano che erano letteralmente presi dal gioco. “Seguiamo
la fanfara”, mi disse il canonico. In fondo al viale s’alzava una statua della
Vergine. “In ginocchio, amici! – ordinò il direttore di banda.- Un’Ave
maris Stella alla nostra buona Madre e poi un po’ di Rosario”. Quel piccolo
mondo rimase qualche minuto in silenzio, poi cominciò a rispondere alle Avemaria
con raccoglimento, come fosse stato in chiesa. Quei piccoli meridionali, quasi tutti
con gli occhi bassi, che fino a qualche minuto prima erano veri folletti, s’erano
mutati improvvisamente in angioletti degni dei quadri del Beato Angelico. “Non
dimenticate – soggiunse la mia guida – che questo è il termometro dell’istituzione.
Trattenere con giochi semplici ed entusiasmanti i nostri giovani anche oltre i vent’anni;
ottenere che desiderino riprendere qui, nelle ore di preghiera e di orazione, uno
spirito innocente divertendosi con un nonnulla; giungere soprattutto a far pregare,
ma pregare davvero, anche in mezzo ai giochi. Ecco a quanto mirano i nostri apostoli”.
La banda si alzò per nuovi saggi artistici, dei quali risuonò l’ampio
cortile. Poco dopo era il gioco delle aste a furoreggiare. Notai intanto che il sottufficiale,
alzandosi dopo l’Ave maris stella, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio
di due o tre, i quali sùbito, allegramente e come obbedendo ad un’usanza praticata
da tutti, andarono a posare giubbotto e scarpe da gioco e si diressero verso la cappella
per passarvi un quarto d’ora davanti al divin Prigioniero.
Aggiunse allora
il canonico con profonda soddisfazione: “La nostra ambizione deve mirare a formare
zelatori che abbiano un amore di Dio così intenso che, anche quando avranno
lasciato l’istituto e fondato una famiglia, rimangano apostoli premurosi di comunicare
gli ardori della loro carità al maggior numero possibile di anime. Se il nostro
apostolato mirasse solo a formare dei bravi cristiani, ah quanto sarebbe angusto
il nostro ideale! Dobbiamo creare legioni di apostoli, affinché quella cellula
matrice della società che è la famiglia diventi a sua volta un centro
di apostolato. Ora, solo una vita di sacrificio e d’intimità con Gesù
ci darà la forza e il segreto di realizzare questo programma integrale. Soltanto
a questa condizione la nostra azione sarà potente in mezzo alla società
e si compirà la parola del Maestro: Sono venuto per portare il fuoco sulla
terra e che posso desiderare se non che divampi?” (Lc. 12, 49).
Solamente molto
più tardi, purtroppo, riuscii a comprendere la portata delle viventi lezioni
del canonico, così profondo nella sua psicologia e nella sua tattica, e a
fare un confronto sotto lo sguardo di Dio – per il quale i successi apparenti non
sono nulla – tra i risultati dei diversi mezzi adoperati. Secondo che sono semplici
come il Vangelo o complessi come tutto ciò che è troppo umano, questi
mezzi possono servire a valutare un’opera e coloro che l’animano.
Contro Golia,
con cui avevano già vanamente combattuto bene armati i potenti d’Israele,
si avanzò il giovane David. Una fionda, un bastone e cinque pietre del torrente:
il fanciullo non richiedeva di più. Ma quel suo grido: “Nel nome del
Dio degli eserciti!” (1 Re, 27, 45), era lanciato da un’anima già capace
di arrivare alla santità.
Oggi si parla
molto dei dopo-scuola organizzati dai laicisti. Ma per quanto essi abbiano a loro
disposizione enormi somme ufficialmente destinate dallo Stato, magnifici locali,
eccetera, i dopo-scuola promossi dalla Chiesa, nonostante la loro povertà,
non ne dovranno temere la concorrenza e attireranno il meglio della gioventù,
se sono basati sulla vita interiore e dotati dell’attrattiva di ciò che innanzitutto
affascina il giovane: cioè il loro ideale.
Chiudo con un
ultimo esempio, che servirà ad analizzare l’uomo di azione che sembra trascinare
le anime al Signore fino al punto di farne degli apostoli, ma che in realtà
suscita soltanto entusiasmi nati dall’umana simpatia per la sua persona e dal magnetico
influsso che esercita intorno a sé. Felici di trattare con un pio ammaliatore,
inorgogliti dal vedere che si occupa di loro, i giovani seguaci si raduneranno attorno
a lui come in una corte e, soprattutto per fargli piacere, faranno a gara per accettare
le pratiche anche più penose che sembrano riflettere una vera devozione.
Una congregazione
di ottime suore catechiste era diretta da un religioso di cui fu poi scritta la vita.
Quest’uomo di vita interiore disse un giorno ad una superiora locale: “Madre,
credo opportuno che suor X tralasci almeno per un anno di fare il Catechismo”
– “Ma, padre, non pensatelo neppure: è la migliore insegnante e i fanciulli
accorrono da tutti i quartieri della città, attirati dai suoi modi meravigliosi!
Toglierla dal Catechismo significherebbe provocare la diserzione della maggior parte
di quei fanciulli!” – “Ho assistito, inosservato, al suo Catechismo – rispose
il Padre.- È vero che incanta i fanciulli, ma in modo troppo umano. Faccia
prima un altro anno di noviziato e poi, meglio formata nella vita interiore, con
il suo zelo e l’impiego dei suoi talenti, ella santificherà l’anima sua e
quelle dei fanciulli. Attualmente però, senza accorgersene, ella è
un ostacolo all’azione diretta del Signore su queste anime che si stanno preparando
alla prima Comunione… Vedo, Madre, che la mia insistenza vi rattrista. Ebbene,
accetto un compromesso. Conosco suor Y, anima interiore benché priva di grandi
talenti. Domandate alla vostra superiora generale d’inviarvela per qualche tempo.
La prima andrà ancora a fare il Catechismo per un quarto d’ora, giusto per
calmare i vostri timori di diserzione; poi, a poco a poco, si ritirerà completamente.
Vedrete allora che i fanciulli pregheranno meglio e canteranno con più devozione.
Il loro raccoglimento e la loro docilità avranno un carattere più soprannatturale:
questo sarà il termometro”.
Quindici giorni
dopo, come poté constatarlo anche la superiora, suor Y teneva lezione da sola
e tuttavia il numero dei ragazzi aumentava. Era veramente Gesù che insegnava
il catechismo per mezzo suo; con il suo sguardo, con la sua modestia, con la sua
dolcezza, con la sua bontà, con il suo modo di fare il segno di croce, con
il suo tono di voce, essa esprimeva Gesù Cristo. Suor X sapeva spiegare con
più talento e rendere interessanti gli aspetti più aridi; ma suor Y
faceva di più. Senza dubbio ella non trascurava nulla per preparare le sue
spiegazioni ed esporle con chiarezza, ma il suo segreto era ciò che dominava
nel suo cuore: l’unzione. Ed è per mezzo di questa unzione che le anime si
trovano veramente a contatto con Gesù.
Nelle lezioni
di Catechismo di Suor Y c’erano molto meno di quelle chiassose esclamazioni, di quegli
sguardi attoniti, di quelle fascinazioni che avrebbero potuto essere ugualmente prodotte
dall’interessante conferenza di un esploratore o dall’emozionante racconto di una
battaglia. C’era invece un’atmosfera di raccolta attenzione: quei fanciulli stavano
nella sala come se fossero in chiesa. Nessun mezzo umano veniva impiegato per impedire
la distrazione o la noia. Quale misterioso influsso dominava dunque quell’uditorio?
Non inganniamoci: era quello di Gesù che agiva direttamente. Un’anima interiore
che spiega le lezioni di Catechismo, è infatti come una cetra che risuona
solo sotto le dita del divino Artista; e nessun’arte umana, per quanto meravigliosa
sia, può paragonarsi all’azione di Gesù.
6. Importanza della
formazione delle élites e della direzione spirituale
Ritorno ancora
sull’avvincente conversazione, riportata più sopra, che ebbi con il reverendo
canonico Timon-David. Una parola uscita dal labbro di questo così esperto
direttore di opere giovanili avrà certamente colpito il lettore.
Usando la pittoresca
e metaforica parola di “stampelle”, il venerando canonico riassumeva il
suo pensiero sull’uso di certi divertimenti moderni per la gioventù (teatro,
fanfara, cinema, giochi costosi e complicati, eccetera). Tali divertimenti, peraltro
spesso occasione di strapazzo e di logoramento, più che a riposare e a dilatare
l’animo o a conservare la salute fisica, tendono a lusingare la vanità e a
sovreccitare l’immaginazione e la sensibilità. D’altra parte, la parola “stampelle”
non si applica affatto a quei giochi assai ricreativi, benché molto semplici,
che distraggono l’animo, fortificano il corpo e hanno accontentato tante cristiane
generazioni.
Se paragoniamo,
ma senza intenderlo bene, il parere di quel saggio canonico con quello di altri eccellenti
organizzatori di apostolato, si può pensare che egli generalizzi troppo il
caso in cui le “stampelle” possono essere buttate via.
Tralasciando le
opere create soprattutto per alleviare le miserie corporali, le altre istituzioni
per i giovani possono essere divise in due classi: quelle che accettano solo i migliori
e quelle che escludono solo le pecore rognose.
Ma noi riteniamo
che anche in quest’ultimo caso si debba formare un nucleo di soggetti scelti capaci,
con il loro fervore, di evidenziare agli occhi degli altri il fine principale dell’istituzione:
guidare tutti i suoi membri ad una vita non superficialmente ma profondamente cristiana.
Altrimenti sarà una “opera profana diretta da un ecclesiastico”,
secondo la maliziosa espressione di un ottimo professore di liceo, il quale sospettava
che la facciata clericale nascondesse quelle stesse miserie che condanniamo nelle
istituzioni sottratte all’influenza della Chiesa.
I direttori che
allontanano facilmente dalle loro associazioni i soggetti riconosciuti incapaci di
essere incorporati nell’élite, trovano che sia perfetto il termine “stampelle”
per esprimere fino a che punto considerano secondari certi mezzi di cui sanno fare
a meno o usano quasi a malincuore. E certamente essi sono ben lungi dal mancare di
argomenti in difesa della loro tesi.
Per loro, la restaurazione
della società, e della Patria in particolare, potrà venire solo mediante
una più intensa irradiazione della santità della Chiesa. È appunto
con questo mezzo, più che con le conferenze di apologetica, che il cristianesimo
si sviluppò tanto rapidamente nei primi secoli della sua storia, nonostante
la potenza dei suoi nemici, le prevenzioni di ogni sorta e la generale corruzione.
Essi troncano
ogni discussione con risposte di questo genere: “Potete citare un fatto, anche
uno solo, che dimostri che la Chiesa, in tutto quel periodo, abbia avuto bisogno
di inventare nuovi divertimenti per strappare dalla turpitudine degli spettacoli
pagani le anime che doveva conquistare?”
Uno di questi
direttori, alludendo alla sete di danaro e alla frenesia per il cinema che oggi appassiona
le folle avide di divertimento, mi diceva: “Quel detto dei Romani – panem et
circenses – oggi potremmo tradurlo così: merenda e cinematografo”. Considerate
invece un sant’Ambrogio e un sant’Agostino, per esempio, entrambi prodigiosi trascinatori
di anime. Si potrà forse scoprire nella loro vita un solo tratto che ce li
mostri nell’organizzare istituzioni tese a procurare alle loro pecorelle divertimenti
capaci di far dimenticare i piaceri offerti dal paganesimo? E dove si potrà
leggere che san Filippo Neri, per convertire Roma tanto intorpidita dallo spirito
del Rinascimento, abbia avuto bisogno delle “stampelle” che suscitavano
il buonumore del canonico Timon-David?
È certo
invece che la Chiesa primitiva, come abbiamo già accennato, seppe organizzare
un’incomparabile e numerosa Èlite le cui virtù stupivano i pagani e
strappavano l’ammirazione alle anime leali, anche a quelle più prevenute per
i loro princìpi, tradizioni e costumi contro la religione cristiana. E le
conversioni fiorivano, anche negli ambienti inaccessibili al clero.
Davanti a queste
lezioni del passato, dobbiamo domandarci se noi, nel nostro secolo, non abbiamo un’eccessiva
fiducia non solo in certi divertimenti frastornanti, ma anche in molti altri mezzi
(pellegrinaggi, feste, congressi, discorsi, pubblicazioni, sindacati, azione politica,
eccetera), impiegati oggi su larga scala e indubbiamente utilissimi, ma che sarebbe
deplorevole mettere al primo posto. La predicazione per mezzo dell’esempio sarà
sempre la leva principale: solo gli esempi trascinano. Le conferenze, i buoni
libri, le riviste cattoliche e perfino le eccellenti prediche devono gravitare attorno
a questo programma fondamentale: organizzare l’apostolato sul popolo mediante l’esempio
di cristiani ferventi che fanno rivivere Gesù Cristo ed emanano il profumo
delle sue virtù.
I sacerdoti che
si lasciano assorbire da tutte le altre funzioni del loro ministero, dedicandosi
insufficientemente a quella principale – cioè alla formazione delle Èlites
mediante la gran propaganda svolta dal buon esempio – non possono poi meravigliarsi
se dai noi i tre quarti degli uomini (e, in moltre altre nazioni, una parte anche
maggiore) rimangono rigidi nella loro indifferenza e credono che la Chiesa sia solo
una rispettabile istituzione, socialmente utile, certo, ma non l’insostituibile risorsa
di ogni esistenza individuale, la chiave di volta delle famiglie e delle nazioni,
e soprattutto il grande Faro della Verità e della Vita eterna!
“Qual è
dunque questa religione capace d’ illuminare, di fortificare e d’infiammare così
il cuore umano?”, esclamavano i pagani davanti ai meravigliosi effetti prodotti
dalla silenziosa lega dell’azione con il buon esempio.
Ma la forza di
quella lega che esisteva tra i primi cristiani non proveniva soltanto dal praticare
il motto “evita il male” (Ps. 36). La fuga dalle azioni condannate dal
Decalogo non sarebbe bastata per suscitare, insieme all’ammirazione, un potente desiderio
d’imitare. Il trascinamento operato dagli esempi si ricollega soprattutto al motto
“fa’ il bene” (Ps. 36). Ci voleva tutto lo splendore delle virtù
evangeliche, quali furono proposte al mondo nel discorso della montagna.
Un uomo di stato,
illustre ma miscredente, mi diceva un giorno: “Se la Chiesa sapesse scolpire
più profondamente nei cuori il testamento del suo Fondatore – Amatevi a vicenda
– essa diventerebbe la grande potenza indispensabile alle nazioni”. Non si potrebbe
fare la stessa riflessione a proposito di altre virtù?
Con la sua profonda
comprensione dei bisogni della Chiesa, San Pio X aveva spesso vedute di una rara
esattezza. L’ Ami du Clergé17 riportava un interessante
colloquio del Santo Pontefice con un gruppo di Cardinali. Chiese il Papa: “Qual’è
la cosa oggi più necessaria per la salvezza della società?” “Fondare
scuole cattoliche”, rispose uno. “No”. “Moltiplicare le chiese”,
rispose un altro. “Neppure”. “Promuovere le vocazioni ecclesiastiche”,
disse un terzo. “No, no – replicò San Pio X – Ciò che attualmente
è più necessario, è avere in ogni parrocchia un gruppo di laici
che siano ad un tempo molto virtuosi, illuminati, risoluti e veramente apostoli”18.
Altri particolari
mi permettono di affermare che questo santo Papa, alla fine della sua vita, attendeva
la salute del mondo solo dalla formazione, per mezzo del clero zelante, di fedeli
che traboccassero di apostolato, con la parola e con l’azione, ma soprattutto con
l’esempio. Nelle diocesi in cui esercitò il suo ministero prima di diventare
Papa, egli dava meno importanza al registro de statu animarum che non all’elenco
delle persone che sapevano fare dell’apostolato. Egli era dell’avviso che si potevano
formare élites in ogni ambiente. Perciò classificava i suoi sacerdoti
secondo il risultati che il loro zelo e la loro capacità avevano ottenuto
su questo punto.
Il giudizio di
questo santo Pontefice dà un’autorità particolare al sentimento di
coloro che dirigono le istituzioni della prima categoria da me classificata. Se nella
formazione delle élites sta la sola e vera strategia per agire sulle masse,
è dunque uno sbaglio conservare soggetti di cui non si ha più seria
speranza di rendere ferventi, quando in tal modo ci si espone al pericolo di abbassare
il livello delle élites, fino al punto che restano tali soltanto di nome.
Gli altri direttori,
quelli che si limitano a scartare i soggetti contagiosi, non restano però
privi di argomenti per protestare contro l’espressione “stampelle” usata
per certi mezzi da loro ritenuti non poco efficaci.
Essi evidenziano
a quali pericoli si esporrebbero le anime che venissero escluse dalle loro istituzioni;
la necessità di accontentarsi di un infimo numero di reclute qualora si badasse
soltanto alle élites; l’atmosfera avvelenata dall’ambiente in cui vivono coloro
che debbono essere evangelizzati, eccetera. Sarebbe ingiusto e crudele, dicono, trascurare
le masse e volerle raggiungere solo con l’esempio dei migliori, senza tentare di
agire direttamente sui mediocri, non fosse altro che per impedir loro di cadere più
in basso, e preparare così dei candidati alle élites.
Ho ascoltato con
gran rispetto queste diverse opinioni, espresse da direttori o direttrici di opere
per la gioventù, persone di sicura buona fede e di indiscutibile zelo. Non
cercherò di conciliare queste opinioni. Dato però che scrivo soprattutto
per i miei venerabili confratelli nel sacerdozio, preferisco domandarmi quale sarebbe
la risposta del santo sacerdote Allemand o quella del canonico Timon-David, se fossero
invitati ad armonizzare le due tesi scegliendo un giusto mezzo. Entrambi avevano
questo progetto:
1) Tra le centinaia
di giovani cristiani appartenenti all’istituzione, selezionare una minoranza, anche
infima, capace di desiderare vivamente e praticare seriamente la vita interiore.
2) Riscaldare
poi fino all’incandescenza quelle anime, facendole amare appassionatamente il Signore,
ispirandole l’ideale delle virtù evangeliche, isolandole il più possibile
dal contatto degli altri studenti, impiegati, operai eccetera, finché la loro
vita interiore non fosse giunta al punto da renderli veramente immuni dal contagio.
3) Infine, giunto
il momento, comunicare a questi giovani lo zelo per le anime, onde utilizzarli per
meglio agire sui loro compagni.
Mi porterebbe
troppo lontano lo stabilire con precisione quel minimo che i due sacerdoti esigevano
dai non ferventi per mantenerli per qualche tempo nell’istituzione. Preferisco attirare
l’attenzione sul considerevole ruolo che’essi attribuivano alla direzione spirituale
nella realizzazione del loro progetto.
Dirigendo personalmente
ciascun giovane, il padre Allemand eccelleva nel suscitare in lui un santo entusiasmo
per la perfezione e nel convincerlo che la miglior prova della devozione al Sacro
Cuore è l’imitazione delle virtù del divino Modello.
Quanto al canonico
Timon-David, ottimo confessore, abile nello scoprire e curare le piaghe delle anime,
era inoltre un eccellente direttore spirituale. Nessuno più di lui sapeva
infiammare i cuori di amore per la virtù ed esortare i suoi collaboratori
a non accontentarsi, nella direzione delle anime, dei princìpi della teologia
morale propri della via purgativa, ma a servirsi della direzione per orientare verso
la via illuminativa. Nulla eguagliava la sua sollecitudine nel trasformare i suoi
sacerdoti collaboratori in direttori di anime.
Entrambi consideravano
come insufficienti le brevi esortazioni prima dell’assoluzione nella confessione
settimanale, le prediche nella riunione generale dei giovani, l’ordinamento della
vita liturgica e persino le così attraenti conferenze tenute ai migliori.
Ritenevano cosa indispensabile la direzione mensile data a ciascuno in particolare.
Erano convinti
che, dopo la preghiera e l’immolazione, il mezzo più efficace per ottenere
dalla grazia da Dio quelle élites che possono rigenerare il mondo, fosse l’azione
del vero sacerdote con tutto il suo ministero, ma specialmente con la direzione spirituale.
Usciamo ora dal
ristretto campo delle opere per la gioventù ed abbracciamo con lo sguardo
tutto il vasto campo che la Chiesa deve coltivare: istituzioni di ogni sorta, parrocchie,
seminari, comunità e missioni.
Nessuno è
capace di guidare se stesso. Tutti hanno debolezze da vincere, tendenze da regolare,
doveri da compiere, rischi da correre, occasioni pericolose da evitare, difficoltà
da superare e dubbi da chiarire. Se per tutto questo è necessario un aiuto,
tanto più lo sarà per camminare verso la perfezione.
Il sacerdote mancherebbe,
e talvolta gravemente, al suo dovere di maestro e medico delle anime, se le privasse
del grande aiuto supplementare del confessionale e di quell’indispensabile propulsore
di vita interiore che è la direzione spirituale.
Disgraziate quelle
istituzioni nelle quali i confessori, sempre a corto di tempo, prima dell’assoluzione
non riescono a dare altro che una pia ma vaga esortazione, spesso uguale per tutti,
invece di offrire la cura specifica che un medico esperto e zelante avrebbe saputo
scegliere secondo lo stato di ciascun malato. Nonostante la sua fede nell’efficacia
del Sacramento, il penitente è allora esposto al rischio di ridurre il ministro
a un “distributore automatico”, simile a quegli apparecchi delle stazioni
ferroviarie che lasciano cadere meccanicamente dolciumi.
Fortunati invece
gli oratori, le scuole, gli orfanotrofi, eccetera, in cui il confessore conosce l’arte
della direzione spirituale ed è convinto che bisogna prima di tutto mettere
in pratica quest’arte, se vuole ottenere che tutte le anime capaci di vibrare per
un ideale si lancino risolutamente negli esercizi della vita interiore.
Quanti padri e
madri di famiglia hanno visto straordinariamente accresciuta la loro influenza su
figli ed amici, perché avevano trovato un vero direttore!
Quali tesori da
valorizzare nell’anima di un fanciullo! Questa è l’età in cui l’albero
va prendendo la sua piega, e spesso definitivamente, o da una parte o dall’altra.
Essendo mancata
nei teneri anni una direzione adatta alla loro età e alle loro disposizioni,
molti saranno gli adulti che non potranno più essere annoverati tra i bei
fiori del giardino di Gesù. Quante vocazioni sacerdotali e religiose avrebbero
potuto sbocciare!
Talvolta, in una
parrocchia o in una missione, anche per parecchie generazioni, continuerà
l’impulso dato da un sacerdote che era ben altro che un mediocre distributore di
assoluzioni. Insieme ad Ars e a Mesnil-Saint-Loup, si potrebbero citare altre località
che sono veri focolai di vita spirituale in mezzo alla generale tiepidezza, perché
ebbero la fortuna di avere un direttore zelante, prudente e pieno di esperienza.
Provai una profonda
e commossa ammirazione quando, nel mio viaggio in Giappone, circa 15 anni fa, ebbi
la fortuna d’incontrare alcuni membri di numerose famiglie cristiane ritrovate, circa
mezzo secolo fa, nella regione di Nagasaki. Cosa inaudita! Circondati da pagani,
costretti a nascondere la loro religione, privi di sacerdoti da più di tre
secoli, questa élite di fedeli aveva ricevuto dai loro padri non solo la fede
ma anche il fervore. Dove trovare uno slancio iniziale tanto potente da poter spiegare
la forza e la durata d’una fedeltà così straordinaria? La risposta
è facile. I loro antenati avevano avuto in San Francesco Saverio un meraviglioso
formatore di élites.
Come potranno
certi seminari minori diventare vivai di futuri sacerdoti, se mancano di direttori
spirituali? La maggior parte dei loro scolari, se non avranno chi li guidi per tempo
alla perfezione, come potranno elevarsi sopra la mediocrità nell’esercizio
del loro sacerdozio? Queste anime che van cercando la loro via, saranno già
fortunate se la loro aspirazione alla vita sacerdotale non verrà falsata dal
fascino abbagliante delle doti naturali di certi professori che manifestano l’indifferenza
per la vita interiore e il disprezzo di una regolare direzione spirituale.
La prova che in
molte comunità religiose, di vita attiva come di vita contemplativa, molte
persone vegetano proprio per la mancanza di direzione spirituale, sta nel mutamento
radicale che spesso ho potuto constatare in anime tiepide che, dal momento in cui
hanno finalmente avuto un direttore coscienzioso, sono ritornate al fervore della
loro professione.
Certi confessori
sembrano dimenticare che le anime consacrate che dirigono sono obbligate a tendere
alla perfezione, ed hanno un reale bisogno di essere aiutate e stimolate per realizzare
quei continui progressi ai quali possono applicarsi le parole del Salmo – “Ha
deciso in cuor suo di elevarsi, passando di virtù in virtù” (Ps.
83) – e per diventare allora veri apostoli della vita interiore.
Quanti sacerdoti
sarebbero ben più fervorosi e troverebbero tutta la loro felicità nella
vita eucaristica e liturgica e nel progresso delle anime, se il confessore che hanno
scelto si dimostrasse veramente amico guidandoli alla direzione mensile, con tatto
e con decisione, orientandoli verso quella perfezione alla quale egli stesso dovrebbe
tendere ancor più che i religiosi!
Non abbiamo forse
evidenziato quale importante ruolo viene attribuito dagli agiografi al direttore
spirituale della maggior parte di coloro di cui narrano la vita?
La Chiesa non
conterebbe forse un maggior numero di Santi, se le anime generose, soprattutto le
anime sacerdotali e religiose, fossero più seriamente dirette?
Senza la direzione
intima svolta dal sacerdote sui genitori di santa Teresa del Bambin Gesù e,
più tardi, senza l’azione diretta dei rappresentanti di Dio su questa eletta
del Signore, riceverebbe la terra quella pioggia di rose di cui è inondata
dal Cielo?
Nei suoi scritti,
il padre Desurmont ritorna sovente su questo pensiero: per certe anime, la salvezza
è legata alla santità; o tutto o nulla; o l’amore ardente per Gesù
o il culto del mondo e la direzione di Satana; o la santità o la dannazione.
Non sarà
dunque arbitrario temere che ricevano dolorose sorprese, al momento del loro giudizio
particolare, quei sacerdoti che, per non aver studiato l’arte della direzione spirituale
e per non aver accettato la fatica che richiede la sua pratica, sotto certi riguardi
sono responsabili della mediocrità delle anime o anche della loro perdita.
Bravi amministratori, ottimi predicatori, pieni di sollecitudine per i malati e per
i poveri, essi hanno però trascurato questa grande tattica usata dal Salvatore:
trasformare la società mediante le élites. Il piccolo drappello di
discepoli che Gesù stesso scelse e formò e che lo Spirito Santo in
seguito infiammò, è bastato per incominciare la rigenerazione del mondo.
Salutiamo con
rispetto quei sempre più numerosi vescovi che, dietro l’esempio di Pio X,
considerano che ai loro seminari maggiori sia molto più utile tenere un solo
corso di ascetica e di mistica che non tante conferenze di sociologia.
Per evidenziare
l’importanza della direzione, essi esigono che prima di tutto i seminaristi vi si
attengano fedelmente per il loro progresso spirituale e che tutti i professori ne
abbiano una stima particolare, dimostrandola con l’irraggiamento della loro vita
interiore.
Di più,
essi vogliono che tutti gli aspiranti al sacerdozio apprendano quanto si riferisce
al regimen animarum, a quest’arte che poggia su principi ben stabiliti e su
saggi consigli vissuti da coloro che ne hanno fatta l’esperienza. È soprattutto
quest’ars artium a confermare che il sapere deve necessariamente tradursi
nel saper fare.
Se consultiamo
gli autori considerati nella Chiesa come maestri di vita spirituale, quante false
nozioni e quanti pregiudizi dobbiamo sfoltire riguardo la direzione!
Certe persone
sanno molto bene deviare la direzione dal suo scopo, se il sacerdote lascia che il
suo zelo ondeggi senza bussola e non regge il timone con mano ferma.
Talvolta si tratta
di una seduta piena di sterili chiacchiere o di sdolcinate moine che lusingano l’amor
proprio oppure diminuiscono la responsabilità personale, tendendo al quietismo;
talvolta abbiamo una scuola di bigotteria e di sentimentalismo in cui si fomenta
il gusto delle emozioni sensibili o quello di una religiosità ridotta a pratiche
esteriori; ora è una specie di ufficio notarile in cui si viene a consultare
abitualmente per i minimi incidenti della vita, per gli affari temporali e le brighe
familiari. E in quante altre vie possono disgraziatamente smarrirsi e i direttori
e le anime dirette!
Il sacerdote deve
pertanto vigilare per evitare che il carattere della direzione venga falsato. Tutto
deve convergere verso il fine tracciato da questa definizione: la direzione spirituale
consiste nell’insieme metodico e regolare di consigli che una persona (specie il
sacerdote), avendo la grazia di stato, la scienza e l’esperienza, dà ad un’anima
retta e generosa per farla progredire verso una solida pietà ed anche verso
la perfezione.
In primo luogo
si tratta di un allenamento della volontà, di questa facoltà maestra
che San Tommaso chiama vis unitiva, la sola, in ultima analisi, in cui risiede
l’unione con il Signore e l’imitazione delle sue virtù.
Il direttore degno
di questo nome sa rendersi conto non solo delle cause intime delle mancanze, ma anche
delle diverse inclinazioni dell’anima. Ne analizza le difficoltà e ripugnanze
nel combattimento spirituale; fa risplendere l’ideale, prova, sceglie e controlla
il mezzo per viverlo; segnala gli scogli e le illusioni; scuote il torpore, incoraggia,
rimprovera e consola, se occorre, ma soltanto per ritemprare la volontà contro
lo scoraggiamento o la disperazione.
Finché
l’anima, conservando qualche attaccamento al peccato, rimane nella via purgativa,
la direzione spirituale è ordinariamente legata alla confessione. Ma quando
l’anima è seriamente orientata verso il fervore, allora la direzione può
più facilmente venir separata dalla confessione. Appunto perché non
venga confusa con questa, certi sacerdoti la vogliono dare soltanto dopo l’assoluzione
e di solito la dànno solo una volta al mese a quelli che si confessano ogni
settimana.
Non è nel
programma di questo libro trattare il modo di esercitare la direzione. Essendo però
convinto che molti sacerdoti devono prendere più sul serio quest’arte spirituale,
è per me una grande gioia, lo confesso, il tentare di offrire a certi confratelli,
che esitano a studiare opere voluminose, una breve sintesi di ciò che di meglio
è stato scritto su questo argomento. Questo compendio non solo faciliterà
l’osservazione e la classificazione delle anime, ma suggerirà con precisione
i mezzi indicati per il duc in altum adatto ai principali stati di vita.
Ciascun’anima
è come un mondo a sé, con le sue proprie sfumature. Tuttavia, in base
alle comuni caratteristiche, si possono classificare i cristiani in alcuni guppi.
Credo che sia utile tentare questa classificazione, prendendo come pietra di paragone
il peccato o l’imperfezione da una parte, e la preghiera dall’altra. Con questo schema,
mi auguro di portare qualcuno dei miei confratelli a riflettere sulla necessità
di avviare uno studio che permetta di conoscere le regole pratiche per dirigere ciascun’anima
secondo il suo stato.
Per quanto riguarda
le due prime categorie qui sotto elencate, il sacerdote non potrà agire direttamente
sulle loro anime; ma almeno, se è un buon direttore, potrà guidare
ben più efficacemente i parenti e gli amici che desiderano sottrarre all’indurimento
persone che sono a loro care e che Dio non ha ancora definitivamente respinto.
a) Indurimento
Peccato mortale:
ristagnamento in questo peccato, per ignoranza o per coscienza maliziosamente falsata.
Soffocamento o assenza dei rimorsi.
Preghiera:
deliberata soppressione di ogni ricorso a Dio.
b) Verniciatura
cristiana
Peccato mortale:
considerato come un male leggero e facilmente perdonabile; l’anima vi si lascia andare
facilmente per qualunque occasione o tentazione. Confessione quasi senza contrizione.
Preghiera:
macchinale, senza attenzione o sempre fatta per interessi temporali. Rare e superficiali
riflessioni su se medesimo.
c) Pietà
mediocre
Peccato mortale:
poco combattuto; rara fuga dalle occasioni; ma serio pentimento e vere confessioni.
Peccato veniale:
patteggiamento con questo peccato, che viene considerato come un male insignificante;
conseguenza: tiepidezza della volontà. Non si fa nulla per prevenirlo, sradicarlo
e scoprirlo.
Preghiera:
abbastanza ben fatta, di tanto intanto. Passeggere velleità di fervore.
d) Pietà
intermittente
Peccato mortale:
sinceramente combattuto. Fuga abituale delle occasioni. Pentimenti vivissimi. Penitenze
di riparazione.
Peccato veniale:
talvolta deliberato. Lotta debole. Pentimenti superficiali. Esame particolare, ma
senza costanza.
Preghiera:
insufficiente risoluzione di essere fedele alla meditazione, che l’anima tralascia
quando prova aridità o vi sono tante occupazioni.
e) Pietà
costante
Peccato mortale:
mai. Al massimo, rarissime sorprese violente ed improvvise. Perciò, spesso
peccato mortale dubbio seguìto da ardente compunzione e da penitenza.
Peccato veniale:
vigilanza per evitarlo e combatterlo. Raramente è deliberato. Vivamente pianto
ma poco riparato. Esame particolare continuo, ma limitato alla fuga dai peccati veniali.
Imperfezioni:
l’anima evita di scoprirle per non combatterle, oppure le scusa facilmente. La rinunzia
è ammirata ed anche desiderata ma poco praticata.
Preghiera:
fedeltà costante a qualunque costo all’orazione, spesso affettiva. Alternanza
di consolazioni e aridità penosamente subite.
f) Fervore
Peccato veniale:
mai deliberato. Talvolta per sorpresa o solo mezzo avvertito. Vivamente pianto e
seriamente riparato.
Imperfezioni:
condannate, sorvegliate e combattute sinceramente, per essere più gradito
a Dio. Qualche volta deliberate ma subito detestate. Atti frequenti di rinunzia.
Esame particolare che mira al perfezionamento in una virtù.
Preghiera:
orazione mentale volenterosamente prolungata. Orazione piuttosto affettiva e anche
di semplicità. Alternanza di grandi consolazioni e di prove angosciose.
g) Perfezione
relativa
Imperfezioni:
energicamente prevenute con grande amore. Quando sopravvengono, c’è solo mezza
avvertenza.
Preghiera:
vita abituale di orazione, anche se ci si prodiga all’esterno. Sete di rinunzia,
di distacco e di amore divino. Fame dell’Eucaristia e del Cielo. Grazie di orazione
infusa di diversi gradi. Frequenti purificazioni passive.
h) Eroismo
Imperfezioni:
solo di primo impulso.
Preghiera:
doni soprannaturali di contemplazione, accompagnati talvolta da fenomeni straordinari.
Accentuate purificazioni passive. Disprezzo di sé fino all’oblio. Preferenza
delle sofferenze alle gioie.
i) Santità
consumata
Imperfezioni:
appena apparenti.
Preghiera:
il più delle volte, unione trasformante. Matrimonio spirituale. Purificazioni
di amore. Sete ardente di sofferenze e umiliazioni.
*
* *
Sono fin troppo
rare le anime elette che raggiungono gli ultimi tre stati; in loro il peccato veniale
diventa sempre più raro. Per questo si comprende che i sacerdoti aspettino
l’occasione di dirigere tali soggetti prima ancora di studiare quello che i migliori
autori suggeriscono perché la loro direzione sia prudente e sicura.
Ma non si può
scusare quel confessore che – per mancanza di zelo nell’imparare e nell’applicare
ciò che si riferisce alle quattro classi: della pietà mediocre, della
pietà intermittente, della pietà costante o del fervore – lascia ammuffire
tante anime in una squallida tiepidezza o fermarsi molto al di sotto del grado di
vita interiore al quale Dio le destinava.
Per quanto riguarda
i punti da toccare nella direzione dei principianti, possiamo forse ridurle ai quattro
seguenti:
1 – Pace: Esaminare
se l’anima è nella vera pace e non in quella che dà il mondo o che
deriva dall’assenza di lotta. Altrimenti, cercare di stabilirla in una relativa pace
nonostante le sue difficoltà. Questo è alla base di ogni direzione:
la calma, il raccoglimento e la fiducia.
2 – Ideale: Dopo
aver riuniti gli elementi necessari per classificare un’anima e per conoscerne i
punti deboli, le forze vive di carattere e di temperamento e il grado di tendenza
alla perfezione, cercare i mezzi adatti a ravvivare il suo desiderio di vivere più
seriamente di Gesù Cristo e ad abbattere tutti gli ostacoli che in essa si
oppongono allo sviluppo della grazia. In una parola, con questo punto si mira a spingere
l’anima a guardare sempre più in alto, semper excelsior.
3 – Preghiera:
Verificare come l’anima fa le sue preghiere e, in particolare, esaminare il suo grado
di fedeltà alla meditazione, il suo genere di orazione, gli ostacoli che incontra
e i risultati che ne ottiene. Inoltre, esaminare il profitto che trae dai Sacramenti,
dalla vita liturgica, dalle devozioni particolari, dalle giaculatorie e dall’esercizio
della presenza di Dio.
4 – Rinunzia:
Esaminare su che cosa e specialmente in che modo fa l’esame particolare, come esercita
la rinunzia (se per odio del peccato oppure per amore di una virtù), come
pratica la custodia del cuore e perciò la vigilanza e la lotta spirituale
in spirito di orazione, lungo la giornata.
A questi quattro
punti principali si può ridurre l’essenziale della direzione spirituale. Si
possono esaminare tutti e quattro ogni mese, oppure soffermarsi alternativamente
su uno di essi per non dilungarsi troppo.
In tal modo, paralizzando
in un’anima i germi di morte e ravvivando i germi di vita, il sacerdote zelante arriverà
ad appassionarsi per l’esercizio di quest’arte suprema. Lo Spirito Santo poi, di
cui è fedele ministro, non gli sarà avaro di quelle ineffabili consolazioni
che costituiscono una delle maggiori felicità del sacerdozio in questa vita,
e gliele accorderà nella misura in cui egli si sacrificherà per applicare
alle anime i princìpi che ha studiato. Chi più di san Paolo provò
le consolazioni dell’apostolato? Ma quale ardente fuoco doveva consumarlo, se poté
scrivere: “Per tre anni non ho mai smesso, giorno e notte, di ammonire ciascuno
di voi fra le lacrime”! (At. 20, 31).
“Caro dottore,
so che vostro figlio vuole dedicarsi al sacerdozio. Se egli e i suoi confratelli,
quando dovranno curare le anime, prenderanno esempio dalla vostra dedizione e dalla
vostra coscienza professionale nel diagnosticare la malattia e nel prescrivere i
rimedi e il regime che devono restituire al malato una florida salute, credo che
né ebrei, né massoni, né protestanti potranno impedire in mezzo
a noi il trionfo della fede”. Tali parole di ammirazione e di riconoscenza erano
rivolte, alla mia presenza, da un prelato al medico che con duri sforzi era riuscito
a strapparlo da una crisi mortale e a restituirlo, poco dopo, a rinnovato vigore.
L’applicazione
della scienza e l’esercizio dell’abnegazione saranno certamente benedetti da Dio.
Ma quale potenza sovrumana acquisteranno questi due fattori, quando il sacerdote
che li usa sarà di quelli che non possono comprendere il loro sacerdozio senza
la ricerca della santità!
Se in ogni parrocchia,
in ogni missione, in ogni comunità e a capo di ogni associazione cattolica
vi fossero dei veri direttori di anime, che santa rivoluzione avverrebbe nel mondo!
Allora anche quelle istituzioni (orfanotrofi, asili, ricoveri, eccetera) in cui si
devono ospitare soggetti appena accettabili, si baserebbero sempre su questo programma:
formare delle élites e isolarle dai mediocri per quanto è possibile,
fino a che non si sia riusciti a lanciarle ad un accorto ma ardente apostolato verso
gli altri.
Chiunque voglia
giudicare le istituzioni dai risultati che Gesù se ne attende, giunge necessariamente
a questa conclusione: dovunque c’è un focolare di vera direzione spirituale,
non c’è bisogno delle famose “stampelle” per ottenere in abbondanza
frutti meravigliosi. Invece l’uso simultaneo di tutte le “stampelle” possibili
e più in voga, potrà solo mascherare l’assenza di questa direzione
nell’istituto, ma non certo attenuarne la necessità.
Quanto più
i sacerdoti saranno zelanti nel perfezionarsi nell’arte della direzione e nel dedicarvisi,
tanto più diminuirà ai loro occhi la necessità di usare quei
mezzi esteriori che, all’inizio, erano utili per mettersi in contatto con i fedeli,
attirarli, raccoglierli, coinvolgerli, trattenerli e conservarli sotto l’influenza
della Chiesa, la quale, fedele al suo scopo, non è pienamente soddisfatta
se non quando le anime sono intimamente incorporate a Gesù Cristo.
7. La vita interiore
mediante l’Eucaristia compendia tutta la fecondità
dell’apostolato
Il fine dell’Incarnazione,
e perciò di ogni apostolato, consiste nel divinizzare l’umanità: “Cristo
si è fatto uomo affinché l’uomo potesse diventare Dio” (S. Agostino).
“L’unigenito Figlio di Dio, volendo farci partecipare alla sua divina natura,
assunse la nostra, affinché, una volta diventato uomo, noi diventassimo dèi”
(S. Tommaso, Officio del Corpus Domini)
Ora, è
nell’Eucaristia, o meglio nella Vita eucaristica, e cioè nella vita interiore
robusta, alimentata dal divino banchetto, che l’apostolo assimila la vita divina.
Ecco la parola del Maestro, perentoria, che non lascia luogo ad equivoci: “Se
non mangerete il Corpo del Figlio dell’Uomo e non berrete il suo Sangue, non riceverete
la Vita” (Gv. 6, 54). La vita eucaristica è la vita del Signore in noi,
non solo per l’indispensabile stato di grazia, ma anche per una sovrabbondanza della
sua azione: “Sono venuto affinché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”
(Gv. 10, 10). Se l’apostolo deve sovrabbondare di vita divina per riversarla nei
fedeli, e se può trovarne la sorgente solo nell’Eucaristia, come si potrà
supporre che sue opere siano efficaci senza l’azione svolta da questo Sacramento
in coloro che – direttamente o indirettamente – devono essere i dispensatori di quella
vita per mezzo di queste opere?
È impossibile
meditare sulle conseguenze del dogma della Presenza reale, del Sacrificio dell’altare
o della Comunione, senza concluderne che il Signore ha voluto istituire questo Sacramento
per farne un focolare di ogni attività, di ogni dedizione, di ogni apostolato
veramente utile alla Chiesa.
Se tutta la Redenzione
gravita attorno al Calvario, tutte le grazie di questo mistero derivano dall’Altare.
Ma allora l’operaio della parola evangelica che non viva dell’Altare non avrà
che una parola morta, una parola che non salva, perché procedente da un cuore
che non è abbastanza impregnato del Sangue che redime.
Realizzando un
profondo disegno, sùbito dopo l’ultima cena, nella sua parabola della vite
e dei tralci, il Signore sviluppa con insistenza e precisione l’inutilità
dell’azione che non è animata dallo spirito interiore: “Come il tralcio
non può dare frutto se non rimane unito alla vite, così nemmeno voi
lo potete, se non rimanete in me” (Gv. 15, 4).
Ma sùbito
dopo Egli ci mostra quanto valore avrà invece l’azione esercitata dall’apostolo
che vive di vita interiore, della vita eucaristica: “Se uno rimane in me e io
in lui, costui porterà molti frutti” (Gv. 15, 5). “Costui”,
lui solo; Dio agisce potentemente solo per mezzo di lui poiché, come scrisse
sant’Atanasio, “noi siamo fatti altrettanti dèi dalla carne di Cristo”.
Quando il predicatore o il catechista mantengono in loro il Sangue divino, quando
il loro cuore è bruciato dal fuoco che consuma il Cuore eucaristico di Gesù,
com’è allora viva, ardente ed infiammata la loro parola! E quando gli eletti
da Dio per queste opere ravvivano il loro zelo nella Comunione e diventano i portatori
di Cristo, come s’irraggiano gli effetti dell’Eucaristia in una scuola o in un ospedale
o in un oratorio, eccetera!
Per quanto il
demonio sia abile nel mantenere le anime nell’ignoranza, o lo spirito superbo e impuro
cerchi d’inebriarle di orgoglio o di affogarle nel fango, l’Eucaristia, vita del
vero apostolo, fa sentire la sua azione superiore ad ogni altra contro il nemico
della salvezza.
Per mezzo dell’Eucaristia
si perfeziona l’amore. Questo vivente memoriale della Passione ravviva nell’apostolo
il fuoco divino quando tende a spegnersi; gli fa rivivere il Gethsemani, il Pretorio,
il Calvario; gli comunica la scienza del dolore e dell’umiliazione. L’operaio apostolico
parla agli afflitti un linguaggio capace di farli partecipare alle consolazioni attinte
a questa scuola sublime.
Egli parla il
linguaggio delle virtù di cui Gesù Cristo rimane il Modello, poiché
ognuna delle sue parole è come una goccia di sangue eucaristico versata sulle
anime. Se però non ha questo riflesso di vita eucaristica, la parola dell’uomo
di azione non produrrà che un effetto momentaneo. Si potrà forse scuotere
le facoltà secondarie od occupare gli accessi della piazzaforte, ma la rocca
– cioè il cuore, la volontà – rimarrà per lo più inespugnabile.
La fecondità
dell’apostolato di un’anima corrisponde quasi sempre al grado acquisito di vita eucaristica.
Il contrassegno di un apostolato efficace, infatti, sta nel riuscire a comunicare
alle anime la sete di partecipare frequentemente e praticamente al banchetto divino.
Ma questo risultato non viene ottenuto, se non nella misura in cui è l’apostolo
stesso a vivere veramente di Gesù-Ostia.
Come san Tommaso
d’Aquino, che infilava la testa nel Tabernacolo per trovare la soluzione di una problema,
così anche l’apostolo va a confidare tutto all’Ospite divino, e la sua azione
sulle anime è la realizzazione delle sue confidenze all’Autore della vita.
Il grande Pontefice
e padre san Pio X, il Papa della Comunione frequente, è anche il Papa della
vita interiore. La sua prima parola, rivolta specialmente agli uomini di azione,
fu “restaurare tutto in Cristo” (Ef. 12, 19). Questo è il programma
d’un apostolo che vive dell’Eucaristia e che vede i progressi della Chiesa solo in
proporzione ai progressi che le anime fanno nella vita eucaristica.
O voi, opere del
nostro tempo, tanto numerose eppure così spesso sterili! Come mai non avete
rigenerato la società? Voi siete ben più numerose che nei tempi passati,
certo, eppure non avete saputo impedire che l’empietà devastasse, e con gravi
danni, la vigna del padone (Mt. 13, 24-30). Com’è potuto succedere?
È successo
perché non siete sufficientemente radicate nella vita interiore, nella vita
eucaristica, nella vita liturgica ben compresa. Gli uomini di azione che vi dirigono
hanno forse potuto irradiare razionalità, ingegno ed anche una certa qual
pietà; sono riusciti a gettar fasci di luce e a promuovere certe pratiche
di devozione: risultati apprezzabili, certo. Ma, non avendo attinto a sufficienza
alla Sorgente della vita, essi non hanno potuto propagare quell’ardore che muove
le volontà. Invano avrebbero preteso di far nascere quelle abnegazioni nascoste
ma irresistibili, quei fermenti attivi dei popoli, quegl’ insostituibili focolai
d’attrazione soprannaturale che – senza chiasso, ma anche senza sosta – propagano
l’incendio tutt’intorno e penetrano lentamente ma sicuramente in tutte le classi
di persone alle quali possono arrivare. La loro vita in Gesù era troppo debole
per ottenere simili risultati.
Per preservare
le anime dal contagio del male, nei secoli passati bastava opporvi una pietà
ordinaria. Ma oggi, a un virus cento volte più violento e inoculato dalle
attrattive del mondo, bisogna contrapporre una medicina vivificante ben più
energica. Mancardo i laboratori capaci di produrre efficaci antidoti, le opere si
sono limitate a produrre un fervore sentimentale, grandi slanci che poi si sono spenti
più rapidamente di quanto si erano accesi; oppure esse sono riuscite a coinvolgere
solo infime minoranze. I seminari e i noviziati non hanno più dato quegli
sciami di sacerdoti, di religiosi e religiose abbastanza inebriati del Vino eucaristico.
E così quel fuoco, che mediante queste anime elette avrebbe dovuto propagarsi
ai pii laici dediti all’azione, è rimasto nascosto. La Chiesa ha ricevuto
pii apostoli, certo, ma rarissimamente operai evangelici che, in forza della loro
vita eucaristica, avessero quella pietà integrale fatta di custodia del cuore
e di zelo, quella pietà ardente, attiva, generosa e pratica, che si chiama
vita interiore.
Alle volte si
ode valutare come “buona” o addirittura “ottima” una parrocchia,
solo perché i suoi fedeli salutano rispettosamente il parroco, lo trattano
con deferenza, gli manifestano una certa simpatia, all’occorrenza gli prestano perfino
qualche servizio, sebbene la maggior parte di loro trascuri l’assistenza alla Messa
della domenica per lavorare, abbandoni i Sacramenti, rimanga nell’ignoranza in materia
di religione, nell’intemperanza e nella bestemmia e lasci molto a desiderare quanto
a condotta morale. Che pena! Sarebbe dunque “ottima” questa parrocchia?
Si potrà chiamare “cristiana” questa gente dalla vita completamente
pagana?
Piangiamo dunque
tali tristi risultati, noi operai evangelici, perché non siamo andati alla
scuola in cui il Verbo istruisce i predicatori, perché non abbiamo attinto
più profondamente la parola di vita, cuore a cuore col Dio dell’Eucarestia!
Dio non ha più parlato attraverso la nostra bocca; questo è fatale.
Smettiamola di stupirci se la nostra umana parola è rimasta quasi sterile.
Noi non siamo
apparsi alle anime come un riflesso di Gesù e della sua vita nella Chiesa.
Perché il popolo credesse in noi, bisognava che brillasse sulla nostra fronte
un raggio di quell’aureola che illuminava Mosè quando, scendendo dal Sinai,
ritornava dagli israeliti. Agli occhi degli ebrei, quell’aureola era una testimonianza
dell’intimità del loro capo con Colui che lo mandava. Alla nostra missione,
era necessario non solo che apparissimo uomini retti e convinti, ma anche che un
raggio dell’Eucarestia lasciasse intravvedere al popolo quel Dio vivo al quale nulla
può resistere.
Predicatori, oratori,
conferenzieri, catechisti, professori! Se abbiamo ottenuto solo risultati imperfetti,
è perché non abbiamo riflettuto in noi la vita divina.
Apostoli che ci
lamentiamo per gl’insuccessi delle nostre opere! Noi che sappiamo che, in ultima
analisi, l’uomo è ordinariamente mosso solo dal desiderio di essere felice;
domandiamoci allora se gli uomini hanno visto in noi quell’irraggiamento della felicità
eterna ed infinita di Dio che avremmo ricevuto dall’unirci a Colui che, pur nascosto
nel Tabernacolo, costituisce la gioia della Corte celeste. Il Divino Maestro non
dimenticò questo nutrimento necessario ai suoi apostoli: “Vi dico queste
cose affinché la vostra gioia sia piena” (Gv. 15, 11), disse dopo
l’ultima Cena, per ricordarci fino a qual punto l’Eucarestia sarà la sorgente
di tutte le grandi gioie di questa vita.
Ministri del Signore!
Per vostra colpa il Tabernacolo è rimasto muto, la pietra dell’Altare fredda,
l’Ostia un memoriale rispettato ma quasi inerte, e le anime abbandonate nelle loro
vie perverse. Ma come avremmo potuto sottrarle dal fango dei loro illeciti piaceri?
Abbiamo parlato a queste anime delle gioie della religione e della retta coscienza,
certo; ma poiché non abbiamo saputo dissetarci a sufficienza alle acque vive
dell’Agnello, siamo riusciti solo a balbettare nel descrivere quelle gioie ineffabili
il cui desiderio avrebbe spezzato le catene della triplice concupiscenza più
efficacemente delle terribili parole sull’inferno. Di quel Dio che è tutto
amore, le anime hanno visto in noi soprattutto il severo legislatore e il giudice
tanto inesorabile nei suoi decreti quanto rigoroso nei suoi castighi. Le nostre labbra
non hanno saputo parlare il linguaggio del Cuore di Colui che ama gli uomini, perché
i nostri colloqui con questo Cuore sono stati tanto rari quanto poco intimi.
Non scarichiamo
la nostra colpa sullo stato di profonda corruzione della società. Possiamo
infatti vedere – in parrocchie da gran tempo scristianizzate, ad esempio – quanto
ha potuto operare la presenza di sacerdoti saggi, attivi, dedicati e capaci, ma soprattutto
amanti dell’Eucarestia. Nonostante tutti gli sforzi dei ministri di Satana, questi
sacerdoti, purtroppo rari, “diventati terribili agli occhi del diavolo”19, attingendo la forza da
quel focolare di forza che è il braciere del Tabernacolo, hanno saputo forgiare
armi invincibili che la congiura di tutti i diavoli non ha potuto spezzare.
Per loro la preghiera
all’Altare non è stata sterile, perché sono diventati capaci di comprendere
quelle parole di San Francesco d’Assisi: “L’orazione è la sorgente della
grazia; la predicazione è il canale che distribuisce le grazie che noi abbiamo
ricevuto dal Cielo; i ministri della Parola di Dio sono scelti dal gran Re perché
portino al popolo quanto essi stessi hanno appreso e raccolto dalla sua bocca, soprattutto
davanti al Tabernacolo”.
Il grande motivo
di speranza sta nel vedere attualmente una generazione di uomini di azione che non
si accontentano più di promuovere solo comunioni da parata, ma sanno facilitare
la fioritura delle anime dei veri comunicanti.
NOTE
1.
Cantico spirituale, str. XXIX.
2.
San Pio X, Il fermo proposito, Enciclica ai Vescovi d’Italia, dell’11 giugno
1905, n. 8.
3.
“Colui dal quale per necessità del suo ruolo si esige di udire cose eccelse,
è costretto da questa necessità anche a mostrare cose eccelse”
(San Gregorio Magno, Regula pastoralis, p. II, c. III; trad. it. Regola
pastorale, Città Nuova, Roma 1981).
4.
N. Wiseman, Fabiola (ovvero: La Chiesa delle catacombe), prima edizione
Londra 1855, trad. ital. Edizioni Paoline, Roma 1980.
5.
Leone XIII, Depuis le jour, Enciclica dell’8 settembre 1899 ai vescovi francesi;
cfr. Leonis XIII Acta, vol. XIX, pp. 157-190.
6. San Pio X, Enciclica Il fermo proposito, cit, n. 8.
7.
S. Basilio Magno, De Spiritu Sancto, c. IX, p. 23; trad. it. Lo Spirito
Santo, Città Nuova, Roma 1998.
8.
La bontà, in: F.W. Faber, Conferenze spirituali, Marietti, Torino 1871,
3 vv.
9. S. Vicente Ferrer, Tractatus vitae spiritualis,
p. II, c. X; cfr. trad. spagnola della B.A.C., Madrid 1966.
10.
S. Beda, Homiliae in Lucam, XII, l. IV, c. LIV; cfr. Id., Omelie
sul Vangelo, Città Nuova, Roma 1990.
11.
Thèodore Ratisbonne, Histoire de saint Bernard, Perisse, Paris 1846,
2 vv.
12.
“Homo videt in facie, Deus autem in corde” (cfr. Breviarium Romanun).
13.
Benedetto XV, Ad beatissimi Apostolorum principis, enciclica del 1i
novembre 1914; cfr. A.A.S., VI (1914), pp. 565-581.
14.
“Non enim assueti cum Deo colloqui, quom de eo ad homines dicunt vel consilia
christianae vitae impertiunt, prorsus carent divino afflatu; ut evangelicum verbum
videatur in ipsis fere mortuum. Vox eorum quantavis prudentiae vel facundiae laude
clarescat, vocem minime reddit pastoris boni, quam oves salutariter audiant; strepit
enim diffuique inanis” (San Pio X, esortazione al clero, del 4 agosto 1908).
Questa esortazione rivolta ai ministri di Dio dal paterno cuore di san Pio X è
un toccante appello alla santità sacerdotale. Essa ne espone la necessità
e la natura e, in una serie di consigli pratici, indica i mezzi per acquistarla e
conservarla.
15.
S. Bernardo, Sermo de sancti Joanni Baptista; trad. it. in: Id., Sermoni,
Città Nuova, Roma (in stampa).
16. Cfr. P. Gaduel, Le directeur de la jeunesse: la vie
et l’esprit de Jean-Joseph Allemand, Lecoffre, Paris 1867.
17.
L’Ami du Clergè, Prèdication, 20 genn. 1921.
18. Raffrontando certi passaggi della prima Enciclica di
Pio X alle varie parole da lui dette più tardi, si comprende che, nel colloquio
che abbiamo citato, è dal fervore dei sacerdoti che egli attende la formazione
delle élites di cui parla; è su queste èlites che conta poi,
più che su tutti gli altri mezzi, per far accrescere il numero dei veri fedeli.
Una volta ottenuto questo risultato, il reclutamento sacerdotale è assicurato,
come pure la moltiplicazione delle scuole e delle chiese. Quando la quantità
non sorge dalla qualità, quanti rischi di ottenere solo uno sfoggio di rumorosa,
vana e ingannevole religiosità!
19.
“Quando torniamo dalla Mensa eucaristica, siamo come leoni che emettono fiamme:
diventiamo terribili agli occhi del demonio” (S. Giovanni Crisostomo, Ad
popolum antiochenum homiliae, Homilia LXI).
*Titolo
originale dell’opera: L’âme de tout Apostolat. Prima traduzione sul
testo critico completo del 1947, a cura di Guido Vignelli.© 2000 Luci sull’Est, Via Castellini, 13/7 – 00197 Roma.
Edizione fuori commercio. Distribuzione gratuita.