«L’anima
di ogni apostolato»
di
Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard
Capii
che solo l’amore spinge all’azione le membra della Chiesa e che, spento questo amore,
gli apostoli non avrebbero più annunciato il vangelo, i martiri non avrebbero
più versato il loro sangue
(S.Teresa del Bambino Gesù)
Parte terza*
La vita
attiva, pericolosa senza la vita interiore,
se unita ad essa assicura il progresso nella virtu’
–
I –
Le
opere di apostolato, mezzo di santità per le anime di vita interiore, divengono
per le altre un pericolo per la loro salvezza
Alle anime che
Egli associa al suo apostolato, il Signore domanda formalmente che non solo si conservino
nella virtù ma vi progrediscano. Lo provano le lettere di San Paolo a Tito
e a Timoteo e le esortazioni dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia.
D’altra parte,
fin da principio abbiamo accertato che le opere sono volute da Dio.
Vedere perciò
nelle opere, in quanto tali, un ostacolo alla santificazione, ed affermare che, pur
emanando dalla divina volontà, esse rallenteranno inevitabilmente il cammino
verso la perfezione, sarebbe un’ingiuria ed una bestemmia contro la Sapienza, la
Bontà e la Provvidenza divine.
Non si può
sfuggire a questo dilemma. O l’apostolato, sotto qualunque forma si presenti, se
è voluto da Dio, non solo non produce di suo l’effetto di alterare l’atmosfera
di solida virtù in cui deve trovarsi un’anima sollecita della sua salvezza
e del suo progresso spirituale, ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo
di santificazione, qualora lo eserciti nelle debite condizioni. Oppure la persona
scelta da Dio come cooperatrice, e perciò tenuta a rispondere alla divina
chiamata, avrebbe il diritto di addurre l’attività, le fatiche e le preoccupazioni
spese a favore dell’azione imposta, come legittime scusanti della sua negligenza
nel santificarsi.
Ora, in conseguenza
dell’economia e del disegno divini, Dio, per riguardo a se stesso, deve concedere
all’apostolo che ha eletto le grazie necessarie per realizzare l’unione delle occupazioni
assorbenti non solo con la sicurezza della sua salute, ma anche con l’acquisto delle
virtù fino alla santità.
Gli aiuti che
Egli concesse a un Bernardo, a un Francesco Saverio, è tenuto a concederli
nella misura necessaria al più modesto operaio evangelico, al più umile
religioso insegnante, alla più ignota suora ospedaliera. Questo è un
vero e proprio debito del cuore di Dio verso lo strumento che si è scelto:
non abbiamo timore a dirlo. Ed ogni apostolo che soddisfi alle condizioni richieste,
deve avere un’assoluta fiducia nel suo rigoroso diritto a ricevere grazie necessarie
a un genere di occupazioni che gli concedono come un’ipoteca sull’immenso tesoro
di quegli aiuti divini.
Chi si occupa
delle opere di carità – dice Alvarez De Paz – non deve pensare ch’esse gli
precludano la via alla contemplazione e lo rendano meno capace di potervisi dedicare.
Deve invece star ben sicuro che ve lo dispongono in modo mirabile. Questa verità
non ce la insegnano solo la ragione e l’autorità dei Padri, ma anche la nostra
esperienza quotidiana. Vediamo infatti anime dedite alle opere di carità verso
il prossimo – confessando, predicando, insegnando il catechismo, visitando gli ammalati,
eccetera – le quali sono elevate da Dio a un così alto grado di contemplazione,
da poter a buon diritto essere paragonate agli antichi anacoreti1.
Con le parole
grado di contemplazione, l’eminente gesuita, come del resto tutti i maestri
di vita spirituale, designa il dono dello spirito di orazione che caratterizza la
sovrabbondanza della carità in un’anima.
I sacrifici richiesti
dall’azione attingono dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime un tale
valore soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo votato alla
vita attiva, se lo vuole, può ogni giorno elevarsi di un grado nella carità
e nell’unione con Dio, in una parola, nella santità.
Indubbiamente
in alcuni casi, in cui c’è pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente
contro la fede e la purezza, Dio vuole che ci si allontani dalle opere. A parte questi
casi, però, Egli dà ai suoi operai, mediante la vita interiore, il
mezzo d’immunizzarsi e di progredire nella virtù.
Individuiamo dunque
in cosa consiste tale progresso. Ci aiuterà a precisare il nostro pensiero
una frase paradossale di S. Teresa, così saggia e spirituale: Dacché
sono Priora, carica di numerose occupazioni e obbligata a frequenti viaggi, commetto
molte più mancanze. Ciononostante, siccome combatto generosamente e non mi
prodigo che per amor di Dio, sento che mi avvicino a Lui sempre di più.
La sua debolezza si manifesta con maggior frequenza che nel riposo e nel silenzio
del chiostro: la Santa lo constata ma non se ne turba. La generosità del tutto
soprannaturale della sua dedizione e gli sforzi più accentuati di prima per
la lotta spirituale, le forniscono in compenso occasioni di vittorie che controbilanciano
largamente le sorprese d’una fragilità ch’esisteva anche prima, sebbene allo
stato latente.
Afferma S. Giovanni
della Croce che la nostra unione con Dio sta tutta nell’unione della nostra volontà
con la sua e solo da questa è misurata. Invece di vedere, per un falso concetto
della spiritualità, la possibilità di progredire nell’unione con Dio
solo nella tranquillità e nella solitudine, Santa Teresa giudica per contro
che proprio l’attività imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni
da Lui volute, alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la
sua abnegazione, il suo ardore e la sua dedizione per il regno di Dio, veniva ad
accrescere l’unione intima dell’anima col Signore, che viveva in lei e animava le
sue azioni, per incamminarla così verso la santità.
Infatti, la santità
consiste principalmente nella carità, e un’opera di apostolato, degna di tal
nome, è carità in atto. Probatio amoris exhibitio est operis,
scrisse san Gregorio Magno: l’amore lo si prova con le opere di abnegazione e Dio
esige dai suoi operai questa prova di generosità.
La forma di carità
che il Signore richiede all’apostolo come prova della sincerità delle reiterate
testimonianze del suo amore è questa: Pasci i miei agnelli, pasci le
mie pecorelle.
San Francesco
d’Assisi credeva di non poter essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità
non si dedicava salute delle anime: Non se amicum Chisti reputabat, nisi animas
foveret quas ille redemit2.
E se Nostro Signore
considera come fatte a lui stesso le opere di misericordia, anche corporali, ciò
vuol dire ch’Egli vede in ognuna di queste un’irradiazione di quella medesima carità
(Mt. 25, 40) che anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle sue privazioni,
nelle lotte e nelle preghiere del deserto.
La vita attiva
si dedica alle opere di abnegazione. Essa marcia per i sentieri del sacrificio alla
sequela di Gesù operaio, pastore, missionario, taumaturgo, medico universale,
provveditore tenero ed infaticabile per tutti i bisogni di quaggiù.
La vita attiva
ricorda e vive di quelle parole del Maestro Divino: Io sono in mezzo a voi
come un servo (Lc. 23, 27). Il Figlio dell’uomo non è venuto per
essere servito ma per servire (Mt. 20, 28).
Essa va per i
sentieri dell’umana miseria annunciando la parola che illumina, spandendo attorno
una messe di grazie che fioriscono in benefici d’ogni genere.
In virtù
dei lumi della sua fede illuminata e delle intuizioni del suo amore, nel peggiore
dei miserabili, nel più meschino dei sofferenti, essa scopre il Dio nudo,
gemente, disprezzato da tutti, il grande lebbroso, il misterioso condannato che la
giustizia eterna perseguita ed atterra sotto i suoi colpi, l’uomo dei dolori che
Isaia vide innalzarsi nello spaventoso sfarzo delle sue piaghe, nella tragica porpora
del suo sangue, talmente disfatto e devastato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva
come un verme calpestato.
L’abbiamo dunque
visto, esclama il profeta, ma non l’abbiamo riconosciuto! (Is. 53, 2-5)
Ma tu, o
vita attiva, tu lo riconosci bene e, con le ginocchia piegate a terra, con gli occhi
pieni di pianto, lo servi nella persona dei poveri.
La vita
attiva migliora l’umanità; fecondando il mondo con le sue generosità,
le sue azioni ed i suoi sudori, essa getta nel cielo il seme dei suoi meriti.
Vita santa
che Dio ricompensa, perché Egli dà il Paradiso tanto per il bicchiere
d’acqua dato al povero, quanto per gli scritti del dottore e per i sudori dell’apostolo.
E nell’ultimo giorno, davanti alla terra ed al cielo, canonizzerà tutte le
opere di carità3.
Quante volte,
purtroppo, nei ritiri da me diretti, ho potuto constatare che proprio quelle opere
che avrebbero dovuto essere per i loro autori mezzi di progresso, divenivano strumenti
di rovina dell’edificio spirituale!
Un uomo d’azione
che avevo invitato, nell’aprire un ritiro, ad esaminare la propria coscienza per
ricercare la causa principale del suo infelice stato, si giudicò con esattezza
dandomi questa risposta a prima vista incomprensibile: È la mia dedizione
che mi ha perduto! Le mie disposizioni naturali mi facevano provare gioie nel prodigarmi,
felicità nel servire. Aiutato dal successo apparente delle mie imprese, Satana
ha ben saputo mettere tutto in opera, durante molti anni, per illudermi, eccitare
in me il delirio dell’azione, farmi provare disgusto per la vita interiore e alla
fine attirarmi nell’abisso.
Lo stato anormale,
per non dire mostruoso, di quell’anima, si può spiegare con una sola parola.
Quell’operaio di Dio, totalmente assorbito dalla soddisfazione di sfogare la propria
attività naturale, aveva lasciato svanire la vita divina, questo divino calore
che, se fosse stato conservato in lui, avrebbe fecondato il suo apostolato e preservata
l’anima sua dal freddo glaciale dello spirito naturalistico. Egli aveva lavorato,
ma tenendosi lontano dal sole vivificatore: Magnae vires et cursus celerrimus,
sed praeter viam4.
Così le
opere, teoricamente sante, si erano ritorte a danno dell’apostolo come una pericolosa
arma a doppio taglio che ferisce colui che non sa usarla.
È proprio
da questo pericolo che S. Bernardo mette in guardia il Papa Eugenio III scrivendogli:
Temo che in mezzo alle vostre innumerevoli occupazioni, di cui disperate di
vedere la fine, voi lasciate indurire la vostra anima. Agirete con ben maggior prudenza
se vi sottrarrete a queste occupazioni, anche solo per qualche tempo, piuttosto che
permettendo ad esse di dominarvi e condurvi inevitabilmente, a poco a poco, dove
non vorreste arrivare. Condurre dove?, mi chiederete. All’indurimento del cuore,
vi rispondo. Ecco dove potranno trascinarvi queste maledette occupazioni, se ad esse
continuerete, come all’inizio, ad abbandonarvici del tutto senza riservare nulla
per voi stesso5.
Cosa mai può
esserci di più augusto, di più santo del governo della Chiesa? C’è
forse qualcosa di più utile per la gloria di Dio ed il bene delle anime? Eppure:
occupazioni maledette, grida san Bernardo, se finiscono con l’impedire
la vita interiore di colui che vi si dedica.
Che tremenda espressione
questa: occupazioni maledette! Essa vale quanto un libro, tanto spaventa
e costringe a riflettere. E quasi attirerebbe una protesta, se non fosse uscita dalla
penna così precisa di un dottore della Chiesa, di un S. Bernardo.
–
II – L’uomo d’azione senza la vita interiore
Lo si può
caratterizzare con questa frase: se non è ancora tiepido, sta fatalmente diventandolo.
Orbene, esser tiepido – parliamo di una tiepidezza non di sentimento o di fragilità,
ma di volontà – significa venire a patti con la dissipazione e la negligenza
abitualmente acconsetite o non combattute, significa patteggiare col peccato veniale
deliberato e, allo stesso tempo, togliere all’anima la sicurezza dell’eterna salvezza,
disponendola al peccato mortale ed anzi conducendovela6. Questa è la dottrina di sant’Alfonso sulla
tiepidezza, così bene illustrata dal suo discepolo il Padre Desurmont.
Ebbene, in qual
modo l’uomo di azione, privo di vita interiore, scivola necessariamente nella tiepidezza?
Sì, necessariamente: per provarlo bastano le parole di un vescovo missionario
ai suoi sacerdoti, parole tanto più tremendamente vere, in quanto uscite da
un cuore divorato dallo zelo per le opere e da uno spirito le cui tendenze erano
diametralmente opposte a tutto ciò che rassomiglia al quietismo.
Bisogna
esserne ben persuasi – diceva il cardinale Lavigerie – Per un apostolo non vi è
via di mezzo tra la sua santità compiuta, o almeno desiderata e perseguita
con fedeltà e coraggio, e la perversione assoluta.
Ricordiamoci innanzitutto
del germe di corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, della
guerra senza quartiere che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, dei pericoli
che ci minacciano da ogni parte. Cerchiamo poi d’immaginare quel che avviene in un’anima
che si dà all’apostolato senza premunirsi abbastanza contro i suoi pericoli.
Un tale sente
nascere in sé il desiderio di dedicarsi alle opere, ma non ha alcuna esperienza.
La sua brama di apostolo ci permette di credere che abbia ardore e una certa foga
nel carattere, d’immaginarcelo entusiasta per l’azione e forse anche per la lotta.
Lo supponiamo retto nella sua condotta, pio ed anche devoto, ma di una pietà
più di sentimento che di volontà, di una devozione che non è
riflesso di un’anima risoluta a non cercare altro che il beneplacito di Dio, ma è
una pia pratica, dovuta a lodevoli abitudini. La meditazione, se ancora la pratica,
non è che una sorta di fantasticheria, le letture spirituali non sono che
un esercizio di curiosità privo di reale influenza sulla sua condotta. Può
anche darsi che Satana lo induca a gustare – con l’illusione d’un senso artistico
che la povera anima scambia per vita interiore – le letture che trattano le vie elevate
e straordinarie dell’unione con Dio, ammirandole con entusiasmo. Ma in realtà
ben poco, per non dir nulla, c’è di vita spirituale in quest’anima alla quale,
concediamolo pure, rimangono numerose buone abitudini, molte qualità naturali
e un certo desiderio sincero, ma troppo vago, di rimanere fedele a Dio.
Ed ecco il nostro
apostolo che si dedica a questo ministero nuovo per lui, pieno del desiderio di lavorare
alle opere. Ma ben presto, in forza delle stesse circostanze nate da queste nuove
occupazioni (e lo sanno bene le persone abituate alle opere) sorgono mille occasioni
per farlo vivere sempre più fuori di se stesso, mille allettamenti per la
sua ingenua curiosità, mille occasioni di cadute, dalle quali possiamo credere
che fino ad allora era stato protetto dall’atmosfera tranquilla del focolare domestico,
del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la vigilanza di una
saggia guida.
Non soltanto la
crescente dissipazione o la pericolosa curiosità di tutto conoscere, le impazienze
o le suscettibilità, la vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento,
la parzialità o la denigrazione, ma anche il progressivo avanzamento delle
debolezze del cuore e di tutte le forme più o meno sottili della sensualità,
costringeranno ad una lotta senza tregua quest’anima mal preparata a così
duri e continui assalti. Perciò frequenti saranno le ferite.
Ma penserà
almeno a resistere, quest’anima dalla pietà superficiale, mentre è
tutta assorbita dalla soddisfazione già troppo naturale di spendere la sua
attività e i suoi talenti per una eccellente causa? Satana poi è sempre
in agguato, fiuta già la preda e, lungi dal contrariare tale soddisfazione,
l’eccita con tutta sua forza.
Arriva pertanto
un giorno in cui si intravede il pericolo: l’angelo custode ha parlato e la coscienza
reclama. Bisognerebbe tornare padroni di sé, esaminarsi nella calma di un
ritiro spirituale, prendere la risoluzione di attenersi rigorosamente ad un regolamento,
che non va tralasciato mai, anche a costo di trascurare per questo certe occupazioni
che s’erano prese a cuore. Ma ahimé, ormai è troppo tardi! L’anima,
che ha già assaporato il piacere di vedere coronati i suoi sforzi dai più
incoraggianti successi, esclama sempre: domani, domani! Oggi è impossibile:
manca il tempo, perché debbo continuare quella serie di discorsi, scrivere
questo articolo, organizzare quel sindacato o quell’associazione di carità,
preparare quella rappresentazione teatrale, fare quel viaggio, sbrigare la mia corrispondenza,
eccetera.
Com’è lieta
quest’anima di potersi giustificare con tali pretesti! Il fatto è che il solo
pensiero di confrontarsi con la propria coscienza le è divenuto insopportabile.
È giunto il momento in cui il diavolo può lavorare con piena facilità
alla rovina di un cuore che si fa così volentieri suo complice. Il terreno
è pronto per questo: l’azione era divenuta per la sua vittima una passione
e il diavolo la rende febbricitante. Dimenticare il tumulto degli affari per raccogliersi,
le pareva già una cosa insopportabile; il demonio gliene ispira l’orrore,
e per giunta non manca d’inebriare quell’anima con nuovi progetti ch’egli abilmente
maschera col pretesto della gloria di Dio e del maggior bene delle anime.
Ed ecco che quest’uomo,
fino a poco tempo fa pieno di abitudini virtuose, passando da debolezza a debolezza
sempre più grave, arriva a porre il piede su un pendio ch’è troppo
sdrucciolevole per potersi fermare nella caduta. Ma l’infelice, pur avendo una vaga
coscienza che tutta la sua agitazione non è secondo il cuore di Dio, per soffocare
i rimorsi, si slancia nel turbine con la massima passione. Le mancanze si accumulano
fatalmente e ciò che altre volte turbava la retta coscienza di quest’anima,
ora non è più che un vano e spregevole scrupolo. Volentieri essa proclama
che bisogna saper esser del proprio tempo e lottare coi nemici ad armi pari; per
questo esalta le virtù attive, dimostrando solo disprezzo per
quella che essa chiama sdegnosamente pietà d’altri tempi. D’altra
parte, le sue opere prosperano più che mai, il pubblico le ammira, ogni giorno
vede spuntare nuovi successi. Dio benedice la mia opera, esclama l’anima
illusa, sulla quale forse piangeranno domani gli angeli del cielo per le sue gravi
colpe.
Come mai quest’anima
è caduta in uno stato così deplorevole? Con l’inesperienza, la presunzione,
la vanità, l’imprevidenza e la viltà. Essa si è lanciata avventurosamente
tra i pericoli, senza valutare le sue scarse risorse spirituali. Una volta esaurite
le riserve della vita interiore, si è trovata nella situazione del navigante
temerario che non ha più forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare
verso l’abisso.
Fermiamoci dunque
un momento per misurare da vicino la china percorsa e la profondità dell’abisso.
Procediamo con ordine e numeriamo le tappe.
Prima tappa. L’anima
da principio ha perduto a poco a poco, seppur l’ebbe mai, la chiarezza e il vigore
delle convinzioni riguardanti la vita soprannaturale, il mondo soprannaturale e l’economia
del piano e dell’azione del Signore concernenti il rapporto della vita intima dell’operaio
evangelico con le sue opere. Essa non vede più le sue opere che attraverso
un miraggio ingannatore. La stessa vanità fa sottilmente da piedistallo alla
pretesa buona intenzione. Un predicatore, uomo tutto esteriore e gonfio di vana compiacenza,
rispondeva ai suoi adulatori: Che volete, Dio mi ha dato il dono della parola
ed io lo ringrazio. L’anima allora cerca ben più se stessa che Dio:
reputazione, gloria e interessi personali sono al primo posto. Il motto Se
fossi gradito agli uomini, allora non sarei servo di Cristo (Gal. 1, 10), diventa
per essa privo di senso.
La mancanza di
base soprannaturale che caratterizza questa tappa ha, talvolta come causa ed talaltra
come immediata conseguenza, oltre all’ignoranza dei princìpi, anche la dissipazione,
la dimenticanza della presenza di Dio, l’abbandono delle giaculatorie e della custodia
del cuore, la mancanza di delicatezza di coscienza e di regolarità di vita.
È vicina la tiepidezza, seppur non è già cominciata.
Seconda tappa.
L’uomo soprannaturale è schiavo del dovere, e perciò, parsimonioso
col suo tempo, l’impiega con ordine e vive secondo una regola. Egli comprende che
altrimenti dominerebbero il naturalismo, la vita comoda e capricciosa, dal mattino
fino alla sera.
L’uomo di azione
privo di base soprannaturale non tarda a farne l’esperienza. La mancanza dello spirito
di fede nell’uso del tempo lo conduce a tralasciare la lettura spirituale; oppure
legge ancora, ma non studia più. Per i Padri della Chiesa, era d’obbligo preparare
l’omelia per la domenica lungo l’intera settimana. Lui invece, a meno che non sia
in gioco la vanità, preferisce improvvisare, e lo fa sempre con inusuale fortuna,
a sentir lui. Preferisce le riviste ai libri, rinuncia alla sistematicità,
svolazza qua e là. Alla legge del lavoro, che è legge di preservazione,
di moralizzazione e di penitenza, egli si sottrae dissipando le ore di libertà
e desiderando disordinatamente di procurarsi delle distrazioni.
Egli trova faticoso
e puramente teorico quel che potrebbe imprigionare la sua libertà di movimento.
Il tempo non gli basta per tante opere e doveri sociali, e nemmeno per ciò
che considera necessario alla sua salute e ai suoi svaghi. Satana gli dice: Dedichi
ancora troppo tempo agli esercizi di pietà: meditazione, Ufficio, Messa, atti
di ministero…; bisogna sfoltire!. E immancabilmente comincia ad abbreviare
la meditazione, a farla con irregolarità e, ahimé, a poco a poco arriva
forse a sopprimerla del tutto. La sveglia ad ora fissa, condizione indispensabile
per rimanere fedeli all’orazione, l’ha anch’essa ovviamente abbandonata, dato che
egli si corica sempre tardi e per giusti motivi.
Orbene, nella
vita attiva, abbandonare la meditazione equivale a gettare a terra le armi davanti
al nemico. A meno di un miracolo – dice sant’Alfonso – senza la preghiera si
finisce col cadere nel peccato mortale. E san Vincenzo de’ Paoli: Un
uomo senza preghiera non è capace di nulla, nemmeno di rinunciare a se stesso
in qualsiasi cosa: è la vita animale pura e semplice. Alcuni autori
attribuiscono a santa Teresa queste parole: Senza la preghiera, uno diventa
ben presto o un bruto o un demonio. Se voi non pregate, non avete più bisogno
che il diavolo vi getti all’inferno: vi ci gettate da soli! Il più grande
peccatore, invece, se prega anche solo per un quarto d’ora al giorno, si convertirà
e, se persevererà, sarà sicuro della salvezza eterna.
L’esperienza di
anime sacerdotali o religiose votate all’azione basta per stabilire questo: se un
operaio apostolico, col pretesto di occupazioni o di stanchezza, oppure per disgusto,
pigrizia o illusione, riduce facilmente la sua orazione a dieci o quindici minuti,
invece d’attenersi a mezz’ora di seria preghiera per riceverne lo slancio e la forza
necessarie per la giornata, egli cadrà fatalmente nella tiepidezza della volontà.
Qui evidentemente
non si tratta più d’imperfezioni da evitare, ma di peccati veniali che brulicano.
L’impossibilità, in cui si è caduti, di vigilare alla custodia del
cuore, nasconde alla coscienza la maggior parte di tali mancanze: l’anima si è
messa nello stato di non vedere più. Come potrà allora combattere ciò
che non discerne più come difettoso? La malattia di languore è già
molto avanzata ed è la conseguenza di questa seconda tappa, che è caratterizzata
dall’abbandono dell’orazione e di ogni regolamento.
Terza tappa. Tutto
è maturo per la terza tappa di cui è sintomo la negligenza nella recita
del Breviario. La preghiera della Chiesa, che doveva dare al soldato di Cristo gioia
e forza per elevarsi ogni tanto a Dio, ricevendone il mezzo per considerare dall’alto
il mondo visibile, diviene un peso insopportabile. La vita liturgica, sorgente di
luce, di gioia, di forza, di meriti e di grazie per lui e per i fedeli, ora non è
altro che l’occasione di un dovere spiacevole al quale si adatta a malincuore. La
virtù di religione è seriamente intaccata perché la febbre delle
opere ha contribuito a inaridirla. L’anima non considera il culto di Dio se non in
quanto è legato a rumorose manifestazioni esteriori. Il sacrificio personale
e oscuro ma cordiale della lode, della supplica, dell’azione di grazia, della riparazione,
non le dicono più nulla.
Fino a poco tempo
fa, recitando le proprie preghiere vocali, diceva con legittima fierezza, come volendo
gareggiare con un coro di monaci: In presenza degli Angeli ti canterò
inni (Ps. 132). Il santuario di quest’anima, in altri tempi imbalsamato di
vita liturgica, è divenuto una pubblica piazza in cui regnano il chiasso e
il disordine. L’esagerata sollecitudine per le opere e l’abituale dissipazione s’incaricano
di moltiplicare le distrazioni, che del resto vengono sempre meno combattute. Non
è nell’agitazione che abita il Signore (3 Reg., 19, 11). La vera preghiera
è sparita; precipitazione, interruzioni ingiustificate, negligenze, sonnolenze,
ritardi, rinvio all’ultim’ora col pericolo di essere vinti dal sonno… e forse anche
omissioni di quando in quando, trasformano la medicina in veleno e il sacrificio
di lode in una litania di peccati che forse finiranno col non essere più semplicemente
veniali.
Quarta tappa.
– Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I Sacramenti! Essi vengono ancora
ricevuti e amministrati con rispetto, senza dubbio, ma non si sente più palpitare
la vita che contengono. La presenza di Gesù Cristo nel tabernacolo o nel sacro
tribunale della Confessione non è più capace di far vibrare le corde
della fede fino al midollo dell’anima. La Messa stessa, che è il sacrificio
del Calvario, è come un giardino isolato. L’anima certamente è ancor
lontana dal sacrilegio, vogliamo crederlo, ma non sente più il calore del
sangue divino. Le sue consacrazioni sono fredde e le sue comunioni tiepide, distratte,
superficiali: già l’insidiano la familiarità irrispettosa, l’abitudine
e forse il disgusto.
L’apostolo così
deformato vive fuori di Gesù e non è più favorito da quelle
parole intime che Egli vuol dire solo ai suoi veri amici. Di tanto in tanto, tuttavia,
l’Amico celeste gl’invia un rimorso, una luce, un richiamo: vieni a me, povera
anima ferita, vieni, ché io ti guarirò – Venite ad me omnes
et ego reficiam vos (Mt. 11, 28) – perché io sono la tua salute – Salus
tua ego sum (Ps. 34) – sono venuto a salvare ciò che era perduto:
Venit Filius hominis quaerere et salvum facere quod perierat (Lc. 19,
10). Questa voce tanto dolce, tenera, discreta e premurosa, procura momenti di emozione,
velleità di migliorare; ma siccome la porta del cuore viene appena socchiusa,
Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima rimangono
senza effetto. La grazia passa invano e finisce col ritorcersi contro l’anima stessa.
Può darsi pure che Gesù, nella sua misericordia, per non ammassare
cumuli di collera, cessi dal parlare: Temi Gesù che passa ma più
non torna (S. Agostino).
Ma andiamo avanti
e penetriamo nell’intimo di quest’anima di cui stiamo facendo il ritratto.
Il ruolo dei pensieri
è preponderante nella vita soprannaturale, come lo è per quella intellettuale
e morale. Ma quali sono i pensieri che occupano quest’anima, e a quale corrente obbediscono?
Umani, terreni, vani, superficiali ed egoistici, questi pensieri convergono sempre
più verso l’io o verso le creature, spesso presentandosi con apparenze di
abnegazione e di sacrificio.
A questo disordine
nell’intelligenza corrisponde il disordine nell’immaginazione. Nessuna potenza dell’anima
va repressa quanto questa; eppure qui non si pensa nemmeno di frenarla. Sicché,
a briglia sciolta, essa corre come una pazza verso tutti i traviamenti, tutte le
follie. La progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla
pazza di casa di trovare un po’ dovunque abbondante pascolo.
Il disordine segue
il suo corso: dall’intelligenza e dall’immaginazione discende negli affetti. Il cuore
si pasce ormai solo d’illusioni. Cosa diventerà questo cuore dissipato che
non si preoccupa quasi più del Regno di Dio in lui e che è divenuto
insensibile agl’intimi colloqui con Gesù, alla sublime poesia dei misteri,
alle austere bellezze della liturgia, agli appelli ed alle attrattive del Dio Eucaristico,
che è insomma diventato insensibile agli influssi del mondo soprannaturale?
Si chiuderà in se stesso? Ma questo sarebbe un suicidio. No: egli ha bisogno
di affetto. Perciò, non trovando più felicità in Dio, amerà
le creature. Rimane in balìa della prima occasione e vi si getta imprudentemente,
perdutamente, forse senza preoccuparsi più dei voti più sacri, né
del maggior bene della Chiesa e nemmeno della propria reputazione. Forse la prospettiva
dell’apostasia lo sgomenta ancora, e profondamente, ma lo scandalo delle anime lo
spaventa sempre meno.
Grazie a Dio,
l’andare così fino in fondo è per certo una rara eccezione. Ma come
non capire che il disgusto di Dio e il cedimento ai piaceri proibiti può portare
il cuore alle peggiori sciagure? Dall’ uomo animale che non comprende
le cose dello Spirito divino (1 Cor. 2, 14), si scende necessariamente
al livello di coloro che erano stati allevati nella porpora ma ora sguazzano
nello sterco (Ger., Lam., 4, 5). L’ostinata illusione, l’accecamento della
mente, l’indurimento del cuore vanno progredendo, e ci si può attendere di
tutto.
Per colmo di sventura,
benché non sia ancora distrutta, la volontà è ridotta ad uno
stato d’indebolimento e di mollezza che equivale quasi all’impotenza. Se gli domandate,
non dico di reagire energicamente, il che sarebbe inutile, ma solo di tentare un
misero sforzo, non otterrete che questa scoraggiante risposta: Non posso.
Ora, non essere più capace di uno sforzo, significa incaminarsi verso le peggiori
catastrofi.
Un noto empio
osò dire che non poteva credere alla fedeltà ai voti e agli obblighi
monastici in certe anime immischiate, per la loro azione, nella vita del secolo.
Esse camminano su una corda tesa – diceva – e le loro cadute sono inevitabili.
A questa ingiuria a Dio ed alla Chiesa, bisogna rispondere senza esitare che tali
cadute si evitano sicuramente se si sa ben adoperare il prezioso bilanciere della
vita interiore, e che solo all’abbandono di questo mezzo infallibile vanno attribuite
le vertigini e i passi falsi e scandalosi verso il precipizio.
L’ammirevole gesuita
padre Lallemant risale alla causa originale di questa catastrofe quando dice: Molti
uomini apostolici non fanno nulla unicamente per Dio. In tutto essi cercano se stessi
e, anche nelle migliori imprese, mescolano sempre segretamente il loro interesse
con la gloria di Dio. Passano così la vita in una mescolanza di natura e di
grazia. Alla fine viene la morte e solo allora aprono gli occhi, vedendo la loro
illusione e tremando all’avvicinarsi del temibile giudizio di Dio7.
Tra gli apostoli
che predicano se stessi, sono certo ben lungi dall’annoverare quello zelante e potente
missionario che fu il celebre padre Combalot. Non sarà tuttavia fuori luogo
citare le parole ch’egli disse in punto di morte. Il sacerdote che gli aveva amministrato
l’estrema unzione gli andava dicendo:
Abbiate
fiducia, caro amico! Avete mantenuta integra la vostra vita di sacerdote, e le vostre
migliaia di prediche vi scuseranno davanti a Dio della insufficienza di vita interiore
che lamentate. Il moribondo rispose: Le mie prediche? Ahimé, sotto
qual luce ora le valuto! Se non sarà il Signore a parlarmene, non sarò
certo io a farlo!. Al lume dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva,
nelle sue migliori opere di zelo, delle imperfezioni che allarmavano la sua coscienza
perché le attribuiva a manchevolezza della sua vita interiore.
Il cardinale Du
Perron, al momento della morte, esprimeva il pentimento per essersi dedicato nella
sua vita più a perferzionare l’intelligenza con gli studi scientifici che
non la volontà con gli esercizi della vita interiore.
O Gesù,
Apostolo per eccellenza, chi mai si è prodigato come Voi quando abitavate
fra gli uomini? Oggi Vi donate ancora più abbondantemente con la vostra vita
eucaristica; tuttavia non abbandonate mai il seno del vostro Padre! Fate che noi
non dimentichiamo mai che Voi non vorrete considerare le nostre opere, se non sono
animate da un principio veramente soprannaturale e se non sono radicate nel vostro
Cuore adorabile!
–
III – La vita interiore, base della santità dell’operaio
apostolico
La santità
altro non è che la vita interiore portata fino alla strettissima unione della
volontà con quella di Dio. Ordinariamente e salvo un miracolo della grazia,
quindi, l’anima non arriva a questo termine se non dopo essere passata, con molteplici
e penosi sforzi, per tutti i gradi della via purgativa ed illuminativa. Si noti che
è legge della vita spirituale che, nel corso della santificazione, l’azione
di Dio e quella dell’anima seguano un cammino inverso: le operazioni di Dio vanno
di giorno in giorno acquistando un ruolo sempre più considerevole, l’anima
invece va agendo sempre meno.
Una è l’azione
di Dio nei perfetti, un’altra nei principianti: meno appariscente in questi, essa
soprattutto provoca e mantiene in loro la vigilanza e la supplica, offrendo a loro
anche il mezzo d’ottenere la grazia mediante nuovi sforzi. Nei perfetti, invece,
Dio agisce in maniera più completa e talvolta esige solo un semplice consenso
che unisca l’anima alla sua azione soprannaturale.
Il principiante,
come il tiepido e il peccatore, che il Signore vuole avvicinare a Sé, si sentono
da principio portati a cercare Dio, poi a dimostrargli sempre più il desiderio
che hanno di piacere a Lui, infine a gioire di tutte le provvidenziali occasioni
in cui possono detronizzare l’amor proprio e stabilire al suo posto il regno del
solo Gesù. In tal caso, l’azione di Dio si limita ad incitamenti e a soccorsi.
Nel santo, invece,
quest’azione è molto più potente e più completa. In mezzo alle
fatiche e alle sofferenze, saziato di umiliazioni o schiacciato dalla malattia, il
santo non deve fare altro, per così dire, che abbandonarsi all’azione divina,
senza la quale sarebbe incapace di sopportare le agonie che, secondo i disegni di
Dio, devono terminare di maturarlo. Nel santo si realizzano pienamente quelle parole:
Dio ha sottomesso a sé ogni cosa affinché Dio sia tutto in tutti
(1 Cor. 15, 28). Egli vive talmente di Gesù che sembra di non vivere
più per se stesso, come testimoniava l’apostolo Paolo: Non son più
io che vivo, ma è Cristo che vive in me (Gal. 2, 20). È solo
lo spirito di Gesù che pensa, decide e agisce. Certo, la divinizzazione è
ancora lontana dal possedere l’intensità che avrà nella gloria, ma
questo stato riflette già i caratteri dell’unione beatifica.
Vale la pena di
dire che ben diversa è la condizione del principiante, del tiepido ed anche
del semplice fervoroso? Al loro stato s’adatta tutta una serie di mezzi che possono
d’altronde servire ugualmente all’uno come all’altro. Ma il principiante, simile
ad un apprendista, troverà maggiore difficoltà, avanzerà più
lentamente e, alla fine, otterrà minori risultati. Il fervoroso invece, come
un operaio qualificato, lavorerà rapidamente e bene e, con minor difficoltà,
otterrà maggiori risultati.
Però, di
qualunque categoria di apostoli si tratti, le intenzioni della Provvidenza a loro
riguardo rimangono invariabili: Iddio vuole che, sempre e per tutti, le opere siano
un mezzo di santificazione. Mentre però l’apostolato non presenta alcun serio
pericolo per l’anima giunta alla santità, non ne esaurisce le forze e anzi
le fornisce abbondanti occasioni di crescere nella virtù e nei meriti, abbiamo
invece visto con quanta facilità esso causi l’anemia spirituale e, di conseguenza,
la retrocessione nella via della perfezione a quelle persone debolmente unite a Dio
e nelle quali il gusto dell’orazione, lo spirito di sacrificio e soprattutto l’abitudine
alla custodia del cuore sono poco sviluppati.
Tale abitudine,
Dio non la rifiuta mai a una preghiera insistente e a prove reiterate di fedeltà.
La diffonde senza misura nell’anima generosa che, ricominciando di continuo, ha trasformato
a poco a poco le sue facoltà rendendole docili alle ispirazioni celesti e
capaci di accettare con gioia contraddizioni e insuccessi, perdite e delusioni.
Esaminando sei
caratteristiche principali, vediamo ora come la vita interiore, penetrando in un’anima,
la stabilisce nella vera virtù.
1. La vita interiore
premunisce l’anima dai
pericoli del ministero esterno
Quando si
ha cura di anime, è più difficile vivere bene, a causa dei pericoli
esterni8. Di questo pericolo abbiamo
parlato nel capitolo precedente.
Mentre l’operaio
evangelico privo di spirito interiore ignora i pericoli derivanti dalle opere e assomiglia
al viaggiatore che attraversa disarmato una foresta infestata da briganti, il vero
apostolo teme questi pericoli ed ogni giorno prende le debite precauzioni con un
serio esame di coscienza che gli scopre i suoi punti deboli.
Se la vita interiore
non facesse altro che mettere l’anima in guardia dal continuo pericolo, contribuirebbe
già potentemente a preservare dalle sorprese del cammino, perché pericolo
preavvisato è mezzo scampato. Ma essa ha ben altra utilità. Essa diventa
per l’uomo d’azione un’armatura completa: Induite armaturam Dei, ut possitis
stare adversus insidias diaboli (Ef. 6, 11-17).
Quest’armatura
divina non solo gli permette di resistere alle tentazioni e di evitare le insidie
del diavolo – ut possitis resistere in die malo – ma anche di santificare
tutte le azioni: et in omnibus perfecti stare.
Essa lo cinge
con la purezza d’intenzione, che concentra in Dio i pensieri, i desideri, gli affetti,
e gl’impedisce di deviare nella ricerca delle comodità, dei piaceri e delle
distrazioni: Succincti lumbos vestros in veritate.
Essa lo riveste
con la corazza della carità, che gli dà coraggio virile e lo difende
dalle seduzioni delle creature, dello spirito del mondo e degli assalti del demonio:
Induti loricam iustitiae.
Essa lo calza
con la discrezione e la modestia, affinché in tutti i suoi passi sappia unire
la semplicità della colomba con la prudenza del serpente: Calceati pedes
in preparatione Evangelii.
Satana e il mondo
cercheranno di abusare della sua intelligenza con i sofismi delle false dottrine,
di snervare la sua energia con l’allettamento di massime permissive. A queste menzogne,
la vita interiore oppone lo scudo della fede, che fa brillare agli occhi dell’anima
lo splendore dell’ideale divino: In omnibus sumentes scutum fidei in quo possitis
omnia tela nequissimi ignea extinguere.
La coscienza del
proprio nulla, la sollecitudine per la propria salvezza, la convinzione di non poter
fare nulla senza il soccorso della grazia, e quindi la preghiera insistente, supplice
e frequente, tanto più efficace quanto più fiduciosa: tutto ciò
è per l’anima un elmo di acciaio, su cui si spezzeranno i colpi dell’orgoglio:
Galeam salutis assumite.
Così armato
da capo a piedi, l’apostolo può dedicarsi senza timore alle opere, e il suo
zelo infiammato dalla meditazione del Vangelo, fortificato dal Pane eucaristico,
diventerà una spada con cui potrà sbaragliare i nemici della sua anima
e conquistare numerose anime a Cristo: Gladium spiritus quod est verbum Dei.
2. La vita interiore
invigorisce le forze dell’apostolo
Come abbiamo detto,
solamente il santo, in mezzo agli impacci degli affari e malgrado l’abituale contatto
col mondo, sa salvaguardare il suo spirito interiore e dirigere sempre i suoi pensieri
e le sue intenzioni verso il solo Dio. In lui ogni dispendio di attività esteriore
è talmente soprannaturalizzato ed infiammato di carità, che non solo
non porta alcuna diminuzione di forze, ma causa necessariamente un aumento di grazia.
Nelle altre persone
invece, anche se fervorose, al termine di un tempo più o meno lungo dedicato
alle occupazioni esteriori, la vita soprannaturale sembra subire delle perdite. Troppo
preoccupato del bene da fare al prossimo, troppo assorbito da una compassione insufficientemente
soprannaturale per le miserie da alleviare, il loro cuore imperfetto sembra innalzare
a Dio fiamme meno pure, offuscate dal fumo di numerose imperfezioni.
Iddio non punisce
questa debolezza con una diminuzione della sua grazia e non tratta con rigore queste
mancanze, purché nell’azione vi siano stati seri sforzi di vigilanza e di
preghiera, e purché, terminato il lavoro, l’anima si disponga a tornare da
Lui riposandosi e ritemprandosi le forze. Sono questi continui ricominciamenti causati
dall’intrecciarsi tra vita attiva e vita interiore, che danno gioia al suo cuore
di Padre.
Del resto, in
quelli che lottano, queste imperfezioni diventano sempre meno profonde e meno frequenti,
di mano in mano che l’anima impara a ricorrere senza stancarsi a quel Gesù
ch’essa trova sempre pronto a dirle: Vieni a me, povero cervo trafelato ed
assetato per il lungo cammino; vieni a trovare nelle acque vive il segreto per tornare
agile nelle nuove corse; ritirati un momento da quella folla che non può darti
l’alimento richiesto dalle tue forze esauste: Venite seorsum et requiescite pusillum
(Mc. 6, 31). Nella calma e nella pace che gusterai presso di me, non solo ritroverai
il primitivo vigore, ma imparerai il modo di agire di più con minor fatica.
Elia, oppresso
e scoraggiato, ebbe le sue energie rianimate all’istante in virtù di un pane
misterioso. Così, o mio apostolo, in questo invidiabile còmpito di
corredentore che mi è piaciuto d’importi, ti do la possibilità, con
la mia parola che è vita piena e con la mia grazia che è il mio sangue,
di riorientare il tuo spirito verso gli eterni orizzonti e di rinnovare tra il tuo
cuore ed il mio un patto d’intimità. Vieni, io ti consolerò dalle tristezze
e dalle delusioni del viaggio; nella fornace del mio amore potrai ritemprare l’acciaio
delle tue risoluzioni. Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam
vos9.
3. La vita interiore
moltiplica le energie e i meriti dell’apostolo
Tu dunque,
figlio mio, rinvigorisciti nella grazia (2 Tim. 2, 1). La grazia è una
partecipazione alla vita dell’Uomo-Dio. La creatura possiede una certa misura di
forza – e in un certo senso la si può anche qualificare e definire una forza
– ma Gesù è la Forza per essenza: in Lui risiede la pienezza
della forza del Padre, l’onnipotenza dell’azione divina, e il suo Spirito lo si definisce
Spirito di fortezza.
O Gesù,
solo in Voi sta tutta la mia forza, esclamava san Gregorio di Nazianzo. Fuori
di Cristo non sono che impotenza, diceva a sua volta san Gerolamo.
Il serafico dottore
San Bonaventura, nel quarto libro del suo Compendium Theologiae, enumera i
cinque principali caratteri che ci dona la forza di Gesù.
Il primo è
l’intraprendere le cose difficili e l’affrontare con decisione gli ostacoli: Agite
da forti e il cuor vostro si rinvigorisca (Ps. 30).
Il secondo è
il disprezzo delle cose della terra: Mi sono privato di tutte le cose, ritenendole
sterco (Fil. 3, 8).
Il terzo è
la pazienza nelle tribolazioni: L’amore è forte almeno quanto la morte
(Ct. 7, 6).
Il quarto è
la resistenza alle tentazioni: Qual leone ruggente, il diavolo si aggira intorno
a voi cercando di divorarvi: ma voi resistetegli forti nella fede (1 Pt. 5,
8-9).
Il quinto è
il martirio interiore, ossia la testimonianza, non del sangue ma della vita stessa,
che grida al Signore: voglio essere tutta vostra; ciò consiste
nel combattere le concupiscenze, nel domare i vizi e nel lavorare energicamente per
l’acquisto delle virtù: Ho combattuto la buona battaglia (2 Tim.
4, 7).
Mentre l’uomo
esteriore conta sulle proprie forze naturali, l’uomo interiore le considera solo
come aiuti, certamente utili ma insufficienti. Il sentimento della sua debolezza
e la sua fede nella potenza di Dio gli danno, come a san Paolo, la giusta misura
della sua forza. Di fronte agli ostacoli che gli si oppongono da ogni parte, esclama
con umile fierezza: Quando sono debole, è proprio allora che divento
potente (2 Cor., 12, 10).
Senza la vita
interiore, disse San Pio X, mancheranno le forze per sopportare con perseveranza
le molestie che trascina con sé ogni apostolato, la freddezza e la scarsa
collaborazione dei buoni, le calunnie degli avversari, talvolta perfino le gelosie
degli amici e dei compagni d’armi! Solo una virtù paziente, radicata nel bene
e al tempo stesso soave e delicata, è capace di evitare o diminuire queste
difficoltà10.
Con la vita di
orazione, simile alla linfa che dalla vite scorre nei tralci, la forza divina discende
nell’apostolo per fortificarne l’intelligenza, radicandolo sempre più nella
fede. Egli progredisce perché questa virtù rischiara il suo cammino
con luci sempre più vive e avanza risolutamente perché sa dove andare
e come raggiungere la meta.
Questa illuminazione
è accompagnata da una tale energia soprannaturale di volontà, che anche
il carattere più debole ed instabile diviene capace di atti eroici.
Il manete
in me, l’unione con l’Immutabile, con Colui che è il Leone di Giuda
e il Pane dei forti, spiega quindi il prodigio della costanza invincibile e della
fermezza così perfetta che, nell’ammirabile apostolo san Francesco di Sales,
s’univano a una dolcezza e a un’umiltà senza pari. Lo spirito e la volontà
si fortificano con la vita interiore, perché ne è fortificato l’amore.
Gesù lo purifica, lo dirige e l’accresce progressivamente, lo fa partecipare
ai sentimenti di compassione, di dedizione, di abnegazione e di disinteresse del
suo adorabile Cuore. Se questo amore cresce fino a divenire passione, allora esalta
fino al massimo sviluppo e utilizza a suo vantaggio tutte le forze naturali e soprannaturali
dell’uomo.
È quindi
facile giudicare l’accrescimento dei meriti che risulta dal moltiplicarsi delle energie
fornite dalla vita di orazione, se si tiene a mente che il merito non consiste tanto
nella difficoltà richiesta per compiere un atto, quanto nella intensità
della carità portata al suo compimento.
4. La vita interiore
dà all’apostolo gioia e consolazione
Solo un amore
ardente ed incrollabile è capace di ravvivare un’esistenza, perché
l’amore possiede il segreto di far sbocciare il cuore in mezzo ai più grandi
dolori e alle fatiche più opprimenti.
La vita dell’uomo
apostolico è un intreccio di sofferenze e di fatiche. Per quanto giocondo
possa essere il suo carattere, se l’apostolo non ha la convinzione di essere amato
da Gesù Cristo, quali ore tristi, inquiete e buie per lui… a meno che l’infernale
cacciatore non gli faccia luccicare innanzi lo specchietto delle consolazioni umane
e degli apparenti successi, per meglio attirare quest’ingenua allodola nei suoi inestricabili
lacci. Solamente l’Uomo-Dio può far sgorgare dall’anima quel grido sovrumano:
sovrabbondo di gioia in mezzo a tutte le nostre tribolazioni (2 Cor.
7, 4). In mezzo alle mie interiori sofferenze, dice l’Apostolo, nonostante l’agonia
della parte inferiore dell’anima, il suo vertice, come quello di Gesù nel
Getsemani, gioisce di una felicità che per certo non ha nulla di sensibile,
ma che è talmente vera che non la scambierei con tutte le gioie umane.
Arrivano la prova,
il contrasto, l’umiliazione, la sofferenza, la perdita dei beni, anche quella delle
persone amate; ma l’anima accetterà queste croci in tutt’altro modo da come
faceva al principio della sua conversione. Di giorno in giorno essa cresce nella
carità. Il suo amore sarà forse senza splendore; il Maestro potrà
trattarla da anima forte, conducendola per le vie di un annientamento sempre più
profondo o per l’arduo sentiero dell’espiazione, a beneficio proprio o altrui; ma
che importa! Favorito del raccoglimento, alimentato dall’Eucaristia, l’amore cresce
sempre più e se ne ha la prova in quella generosità con cui l’anima
si sacrifica e si abbandona, in quella dedizione che la spinge a correre, senza preoccuparsi
delle fatiche, alla ricerca delle anime, verso le quali il suo apostolato si esercita
con una pazienza, una prudenza, un tatto, una compassione ed un ardore, che si spiegano
soltanto con la penetrazione della vita di Gesù in lei: Vivit vero in
me Christus.
Il sacramento
dell’amore dev’essere il sacramento della gioia. L’anima non può essere interiore
senza essere eucaristica, senza quindi gustare intimamente il dono di Dio, senza
godere della sua presenza, senza assaporare la dolcezza dell’essere amato che possiede
e che adora.
La vita dell’uomo
apostolico è una vita di preghiera. La vita di preghiera – disse il
santo Curato d’Ars – è la grande felicità di questa vita. Oh bella
vita! Bella unione dell’anima col Signore! L’eternità non sarà abbastanza
lunga per comprendere questa felicità. La vita interiore è un bagno
d’amore in cui l’anima s’immerge; essa è come affogata nell’amore. Dio tiene
l’anima interiore, come una mamma tiene nella mano la testa del suo bimbo per coprirla
di baci e di carezze.
Un’altra fonte
di gioia consiste nel contribuire a far servire e far onorare l’oggetto del proprio
amore. L’uomo apostolico conosce tutte queste felicità. Mentre si serve dell’azione
per aumentare il suo amore, egli sente al tempo stesso accrescere la sua gioia e
la sua consolazione. Venator animarum, cacciatore di anime, egli ha la
gioia di contribuire alla salvezza di esseri che sarebbero finiti dannati, e quindi
ha la gioia di consolare Dio nel dargli dei cuori che sarebbero stati eternamente
separati da Lui; infine, ha la gioia di sapere che in tal modo egli procura a se
stesso una delle più solide assicurazioni di progresso nel bene e di gloria
eterna.
5. La vita interiore
affina nell’apostolo la rettitudine d’intenzione
L’uomo di fede
giudica l’azione sotto una luce ben diversa da chi vive esteriormente. Più
che l’aspetto appariscente, egli ne comprende il ruolo che svolge nel piano divino
e i risultati soprannaturali.
Così pure,
considerando se stesso come un semplice strumento, egli ha tanto più in orrore
ogni compiacenza delle sue proprie capacità, quanto più fonda la speranza
della sua riuscita nella persuasione della propria impotenza e sulla confidenza in
Dio solo.
Egli si radica
in tal modo nello stato d’abbandono. Nel mezzo delle difficoltà, quale differenza
tra il suo atteggiamento e quello dell’apostolo che non conosce l’intimità
con Gesù!
Nondimeno, questo
abbandono non diminuisce affatto il suo ardore per l’impresa. Egli agisce come se
il successo dipendesse unicamente dalla propria attività, tuttavia non l’aspetta
che da Dio solo (S. Ignazio). Non prova perciò nessuna pena a subordinare
tutti i suoi progetti e le sue speranze ai segni incomprensibili di quel Dio, che
spesso fa servire al bene delle anime i rovesci meglio ancora dei trionfi.
Pertanto quest’anima
si trova in uno stato di santa indifferenza all’insuccesso come alla riuscita. Essa
è sempre pronta a dirvi: Mio Dio, Voi non volete che l’opera incominciata
giunga a compimento. Preferite che io mi limiti ad agire generosamente, ma sempre
in pace, e a sforzarmi per ottenere il risultato, riservando solo a Voi la cura di
decidere se il successo Vi procurerà maggior gloria che un mio atto di virtù
derivato dall’accettare un fallimento. Sia mille volte benedetta la vostra santa
e adorabile volontà! Con l’aiuto della vostra grazia, fate che io sappia reprimere
i più piccoli sintomi di vana compiacenza, quando Voi benedite i miei disegni,
e fate che sappia umiliarmi e adorarvi, quando la vostra Provvidenza giudica bene
annientare il frutto delle mie fatiche.
In verità,
il cuore dell’apostolo sanguina nel vedere le tribolazioni della Chiesa; ma non c’è
nulla di comune tra il suo modo di patire e quello dell’uomo che non è animato
da spirito soprannaturale. Al momento in cui sopraggiungono le difficoltà,
lo dimostrano il contegno e l’attività febbrile di costui, le sue impazienze
ed il suo abbattimento, la sua disperazione e talvolta il suo annientamento di fronte
a rovine irreparabili. Il vero apostolo invece utilizza tutto, trionfi e rovesci,
per accrescere la sua speranza e dilatare la sua anima nel fiducioso abbandono alla
Provvidenza. Nessun particolare del suo apostolato che non diventi occasione per
un atto di fede. Nessun istante del suo perseverante lavoro che non sia occasione
per dar prova della sua carità, perché, con l’esercizio della custodia
del cuore, giunge a compiere tutto con una purezza d’intenzione sempre più
perfetta, e con l’abbandono rende il suo ministero sempre più impersonale.
Così, ogni
sua azione s’impregna sempre più dei caratteri della santità; mescolato
all’inizio a tante imperfezioni, il suo amore per le anime, purificandosi sempre
più, finisce col non vedere in esse che Gesù, col non amarle che in
Gesù; e così, per mezzo di Gesù, le genera a Dio: o figli
miei, per i quali io continuo a soffrire i dolori del parto, finché non avrò
formato in voi il Cristo (Gal. IV, 19).
6. La vita interiore
è una difesa dallo scoraggiamento
Quando Dio
vuole che un’opera sia totalmente frutto delle sue mani, dapprima riduce tutto all’impotenza
e poi agisce. Questa frase di Bossuet è incomprensibile all’apostolo
che non coglie la vera anima del suo apostolato.
Non c’è
nulla che ferisca Dio quanto l’orgoglio. Ora, nella ricerca del successo, se manchiamo
di purezza d’intenzione, noi possiamo giungere ad erigerci a una sorta di divinità,
principio e fine delle nostre opere. Dio ha in orrore questa idolatria. Quando vede
che l’attività dell’apostolo manca di quella impersonalità che la sua
gloria esige dalla creatura, lascia talvolta campo libero alle cause seconde e l’edificio
non tarda a crollare.
Attivo, intelligente,
dedicato, l’operaio si è messo all’opera con tutto l’ardore della sua natura.
Forse ha ottenuto brillanti successi, ne ha gioito e se n’è compiaciuto: sono
opera sua, tutta sua! Ha quasi fatto suo quel celebre motto: Veni, vidi, vici.
Ma attendiamo un poco. Un avvenimento permesso da Dio, oppure un’azione diretta di
Satana o del mondo vengono a colpire l’opera o la persona stessa dell’apostolo: rovina
totale! Ma ben più lamentevole è la rovina interiore, frutto della
tristezza e dello scoraggiamento di questo prode del giorno prima. Più era
esuberante la gioia, più profondo è ora l’abbattimento.
Solo il Signore
potrebbe riergere quelle rovine. Alzati! – dice allo scoraggiato – Invece di
fare da solo, riprendi il tuo lavoro con Me, per mezzo di Me e in Me! Ma il
disgraziato non ascolta più questa voce. È talmente esteriorizzato
che, per poterla sentire, avrebbe bisogno di un vero miracolo della grazia, sul quale
però non ha più diritto di contare, a causa delle infedeltà
accumulate. Solo una vaga convinzione della potenza e della Provvidenza di Dio aleggia
sulla desolazione di questo sventurato, e non può bastare a dissipare le ondate
di tristezza che continuamente lo assalgono.
Che diverso spettacolo
offre invece il vero sacerdote il cui ideale è di riprodurre in sé
Gesù Cristo! Per lui, la preghiera e la santità di vita restano i due
grandi mezzi di azione sul Cuore di Dio e sul cuore degli uomini. Si è prodigato,
certo, e generosamente, ma il miraggio del successo gli è sembrato una prospettiva
indegna di un vero apostolo. Sopraggiungono le burrasche, ma poco importa la causa
seconda che le ha prodotte. Poiché non ha lavorato che con il Signore, in
mezzo al cumulo delle macerie sente risuonare nel fondo del cuore quello stesso non
temete! che, durante la tempesta, ridiede pace e sicurezza agl’impauriti discepoli.
Il primo risultato
della prova consiste in un nuovo slancio verso l’Eucaristia e in un rinnovamento
d’intima devozione verso la Madonna Addolorata.
Invece di essere
schiacciata dall’insuccesso, la sua anima esce ringiovanita dal torchio: Verrà
rinnovata la tua giovinezza, come quella dell’aquila (Ps. 103, 5). Da dove
gli viene questo atteggiamento di umile trionfatore in mezzo alla disfatta? Non cercatene
il segreto altrove che in quella unione con Gesù ed in quella confidenza incrollabile
nella Sua potenza che faceva già dire a Sant’Ignazio: Se la Compagnia
di Gesù venisse soppressa senza mia colpa, un quarto d’ora di conversazione
con Dio mi basterebbe per riacquistare la calma e la pace. In mezzo alle
umiliazioni – diceva il santo curato d’Ars – il cuore delle anime interiori sta come
una roccia in mezzo ai flutti del mare11.
L’apostolo soffre,
certamente. La perdita di molte sue pecorelle sarà forse il risultato di ciò
che ha reso vani i suoi sforzi e rovinato la sua opera. Questo vero pastore prova
un’amara tristezza, che però non può frenare l’ardore che lo spingerà
a ricominciare da capo.
Egli sa che la
redenzione, anche quella che salva una sola anima, è un’opera grande che si
compie soprattutto con la sofferenza. Ma a rinvigorirlo basta la certezza che le
prove generosamente sopportate aumentano il suo progresso nella virtù e procurano
a Dio una gloria maggiore.
D’altra parte,
egli sa pure che Dio spesso non vuole da lui altro che germi di successo. Verranno
altri a raccogliere messi copiose; esse crederanno forse di potersene attribuire
il merito; ma il Cielo saprà discernerne la causa nel lavoro ingrato e in
apparenza sterile che le ha precedute: Vi ho mandato a mietere dove non avete
lavorato; altri hanno faticato e voi siete subentrati al loro lavoro (Gv. 4,
38).
Il Signore, autore
dei successi ottenuti dagli Apostoli dopo la Pentecoste, durante la sua vita pubblica
non ha voluto che seminare germi, insegnamenti, esempi, predicendo ai discepoli che
sarebbe stato loro concesso di compiere opere più grandi delle sue: Colui
che crede in me, compirà le opere che io faccio, anzi ne farà di maggiori
(Gv. 14, 12).
Scoraggiarsi,
il vero apostolo? Lasciarsi influenzare dai discorsi dei pusillanimi? Condannarsi
al riposo dopo l’insuccesso? Sarebbe non comprendere la sua vita intima e la sua
fede in Cristo! Come ape infaticabile, egli va sempre ricostruendo nuovi favi nell’alveare
devastato.
NOTE
1.
D. Alvarez De Paz, De vita spirituali ejusque perfectioni, tomo III, lib.
V.
2. S. Bonaventura, Vita sancti Francisci, cap. IX (trad.
it. Vita di San Francesco, Edizioni Paoline, Roma 1988).
3.
P. Leon, Lumière et flamme. Si noti che in questa citazione si
tratta di una vita attiva piena di spirito di fede, fecondata dalla carità
e proveniente da una intensa vita interiore.
4.
Grande spiegamento di forze, corsa rapidissima… ma fuori di strada!
(S. Agostino, Enarrationes in Psalmos, Ps. XXXI, trad. it. Esposizioni
sui Salmi, Città Nuova, Roma 1993).
5.
En quo trahere te possunt hae occupationes maledictae, si tamen pergis,
ut coepisti, ita te dare totum aliis nihil tui tibi relinquens (S. Bernardo,
De Consideratione, lib. II, cap. VI).
6.
Dall’insegnamento di san Tommaso risulta che, quando l’anima in stato di grazia
pone un atto in sé buono ma privo del grado di fervore che Dio ha diritto
di attendersi nello stato in cui ella si trova, questo atto la dispone a diminuire
il grado di carità avuto. Così si spiegano i passi della Scrittura:
Maledetto colui che compie l’opera di Dio con negligenza; Poiché
sei tiepido, ti vomiterò dalla mia bocca.
Inoltre, ogni peccato veniale, pur non diminuendo lo stato di grazia, ne diminuisce
tuttavia il fervore, disponendo quindi l’anima al peccato mortale. Ora, senza una
seria vita interiore, l’accumularsi di numerosi peccati veniali non combattuti, spesso
anzi nemmeno avvertiti, viene tuttavia imputato all’anima dissipata o rammollita
che ha cessato di vivere il motto vigilate e pregate.
Così san Tommaso spiega la citata espressione maledette occupazioni
e il successivo sviluppo di questo nostro capitolo (cfr. Summa theologica,
I-IIae, q. 52, a. 3)
7.
P. Lallemant, La dottrina spirituale, ed. it. cit.
8.
S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-IIae. q. 181, a. 8. Quanto
più l’azione del sacerdote è ampia e diffusa, tanto più gli
è pericolosa e dannosa, se non è sostenuta dallo spirito di contemplazione
(Card. Fischer, Opusculum de vita contemplativa).
9. Mt. 11, 28. In occasione di questo invito di Gesù
alle anime di buona volontà, richiamo l’attenzione su quanto dirò in
seguito riguardo l’esercizio della custodia del cuore.
10. Cfr. San Pio X, Il fermo proposito, Enciclica
ai vescovi italiani, dell’11 giugno 1905; cfr. Pii X Acta, vol. II, pp. 112-132.
11.
Sarebbe capace, la maggior parte degli uomini, di far propri i sentimenti espressi
dal generale De Sonis in questa ammirevole preghiera riportataci dal suo biografo?
Mio Dio, eccomi davanti a Voi, povero, piccolo, privo di tutto. Sono ai Vostri
piedi, immerso nel mio nulla. Vorrei avere qualcosa da offrirvi, ma non sono altro
che miseria. Siete Voi il mio tutto, Voi la mia ricchezza. Mio Dio, Vi ringrazio
di aver allontanato da me le soddisfazioni dell’amor proprio, le consolazioni del
cuore; vi ringrazio delle delusioni, delle ingratitudini, delle umiliazioni. Ammetto
che ne avevo bisogno e che i beni perduti avrebbero potuto tenermi lontano da Voi.
Mio Dio, siate benedetto quando mi mettete alla prova. Amo essere consumato, spezzato,
distrutto da Voi; annientatemi sempre più. Che io sia per l’edificio non una
pietra elaborata e rifinita dalla mano dell’artista, ma un oscuro granello di sabbia
sottratto alla polvere della strada. Mio Dio, Vi ringrazio di avermi lasciato intravedere
la dolcezza delle Vostre consolazioni, e Vi ringrazio di avermene privato. Tutto
ciò che Voi fate è giusto e buono. Vi benedico nella mia miseria. Non
rimpiango nulla, tranne che di non avervi amato abbastanza; non desidero nulla, tranne
che sia fatta la Vostra volontà. Voi siete il mio Maestro e io sono proprietà
vostra. Voltatemi e rivoltatemi pure; distruggetemi e ricostruitemi. Voglio essere
ridotto a nulla per amor vostro. O Gesù, com’è buona la vostra mano,
anche al culmine della prova. Che io sia crocifisso, ma crocifisso per Voi. Amen
(cfr. Mons. L. Baunard, Le général De Sonis d’après ses papiers,
Paris 1903).
*Titolo
originale dell’opera: L’âme de tout Apostolat. Prima traduzione sul
testo critico completo del 1947, a cura di Guido Vignelli.© 2000 Luci sull’Est, Via Castellini, 13/7 – 00197 Roma.
Edizione fuori commercio. Distribuzione gratuita.