«La
mortificazione»
di P. Tito S. Centi, O. P.
Il mondo
pagano non la conosceva: la coniò S. Paolo Per esprimere un concetto esclusivamente
cristiano.
La nékrosis che l’Apostolo dice di portar sempre attorno nel suo corpo
(II Cor. 4, 10) designa una categoria di operazioni e di abitudini che non figurano
in nessun trattato di morale stoica o peripatetica. Si tratta della Croce di Cristo,
«scandalo per i Giudei e stoltezza per i gentili», fatta non solo oggetto
di predicazione ma programma di vita.
Un concetto così squisitamente cristiano non sarà mai accetto a quella
vasta zona di ombra che accompagna il Regno di Dio in questa terra. Il mondo deride
la mortificazione come deride l’umiltà e la povertà volontaria E questa
derisione, legata all ripugnanze istintive della natura, mette troppe volte nell’imbarazzo
anche molti cristiani.
La mortificazione è un po’ come il distintivo di coloro che credono integralmente
la parola di Cristo, e il distintivo non tutti sanno portarlo con fierezza e con
disinvoltura. Persino fra coloro che si son dati all’apostolato non sono rari gli
amanti del compromesso. Si è così bene imparato ad avvicinare l’ambiente
da scomparire del tutto in esso, come il camaleonte.
Non si avverte più che il conformismo scandalizza non meno del bigottismo.
Purtroppo oggi noi siamo dinanzi a un conformismo assai esteso; minaccia di diventare
una moda.
Anche per quanto riguarda l’interesse culturale e letterario, per es., esiste il
serio pericolo di essere rimorchiati dai rivieraschi dell’altra sponda, e di subire
la tirannia di una mistica che è la negazione di quella cristiana. Parliamo
anche noi con troppa preoccupazione di problemi sociali, alimentari e salariali…,
e non si pensa che Gesù aveva fame quando disse: «Non di solo pane vive
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
L’impresa più ardua non è quello di risolvere i problemi del momento
presente e le questioni di moda; il Cristianesimo s’impegna di risolvere gli eterni
problemi della vita. Tutto il resto viene di suo. Anche qui valgono le parole del
Signore: «Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia; e tutto
il resto vi sarà dato in soprappiù».
C’è del paradossale in questo atteggiamento, bisogna confessarlo; ma la nostra
non è una posa. È l’esecuzione semplice di una legge e di un programma
divino, che poi è l’unico possibile per raggiungere la vera felicità
sia eterna che temporale.
Ma torniamo alla mortificazione. Si diceva che molti cristiani dei nostri giorni,
comprese quelle anime che dicono di aspirare alla perfezione, non ne fanno più
quella stima che la fede e la morale cattolica impongono. I sintomi di questo male
non sono più soltanto l’immortificazione pratica e il frizzo più o
meno innocente: ma c’è allo stato diffuso un sottile movimento di pensiero
più o meno apertamente ostile alla mortificazione cristiana.
Lo spirito di penitenza e di mortificazione dovrebbe apparire come parte integrante
nel Sacramento della Penitenza. Ed è proprio qui che ne notiamo subito la
crisi. I confessori, nonché i moralisti, sono pieni di misericordia e di condiscendenza.
I primi si guardano bene da incomodare in qualsiasi modo il penitente, anche se questi
ha sull’anima parecchie decine di peccati mortali e di varia specie. I secondi consigliano
quasi esclusivamente la moderazione. C’è chi considera soddisfazione grave
la recita di cinque Pater noster; chi esonera dall’obbligo della soddisfazione
il penitente il quale mostri una straordinaria contrizione; e chi invece riduce al
minimo la penitenza qualora il pentimento sia piuttosto discutibile.
Molti confessori e moralisti dimenticano che i consigli di moderazione dati dagli
autori antichi hanno di mira una prassi infinitamente più rigida della nostra.
Se pensiamo la facilità con la quale un tempo s’imponeva un pellegrinaggio
in luoghi remoti, una serie di discipline, o un periodo di digiuno, si capisce come
S. Tommaso, per es., abbia creduto bene di consigliare moderazione con un penitente
il cui dolore è più un focherello che un incendio (Quodl. 3,
q. 13, a. 28).
Ma quando oggi si deve trattare con persone insofferenti di ascoltare una predica
o una Messa in giorno feriale dopo qualche anno di abbandono totale delle pratiche
religiose, bisogna rivedere il giudizio sulla sufficienza della loro contrizione,
non ridurre la penitenza a una cosa irrisoria. Si finisce così con lo scandalizzare;
perchè dall’atteggiamento conciliante del confessore costoro non impareranno
certo a comprendere la gravità dei loro peccati.
L’assenza dello spirito di mortificazione si nota poi in maniera sempre più
preoccupante in quella tiepidezza e mediocrità nella quale languisce la vita
spirituale di molti cristiani, Pio XI nella sua Enciclica «Charitate Christi
compulsi» faceva questa amara constatazione: «Sappiamo bensì e
con voi deploriamo, Venerabili Fratelli, che ai nostri giorni l’idea e il nome di
espiazione e di penitenza hanno presso molti perduto in gran parte la virtù
di suscitare quegli slanci di cuore e quegli eroismi di sacrificio, che in altri
tempi sapevano infondere presentandosi agli occhi degli uomini di fede come sigillati
di un carattere divino ad imitazione di Cristo e dei suoi Santi: né mancano
alcuni che vorrebbero mettere da parte le mortificazioni esterne come cose di tempi
passati; senza parlare poi del moderno “uomo autonomo” che disprezza la
penitenza come espressione di indole servile». (A.A.S. Jun. 1932).
Alla distanza di quattordici anni non possiamo dire che la situazione sia molto cambiata.
Anzi, se c’è stato un cambiamento per molti a causa della guerra, quasi sempre
si è verificato in peggio. Quanto poche sono state le anime che hanno accettato
tutte le sofferenze di questi anni in spirito di penitenza e di riparazione! Quanti
sono ai nostri giorni i cristiani che sentono il dovere di far penitenza dei propri
peccati, e di imitare il Cristo nella sofferenza?
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Non siamo
però tanto pessimisti da credere che l’invito alla penitenza sia oggi un grido
nel deserto. Esistono ancora le anime generose (che, a dire la verità, in
tutti i secoli non sono mai state legione). Si è registrato, in questi anni
per esempio, il successo librario dell’aureo libretto del Can. G. Bardi, La mortificazione
esterna che è un invito alla penitenza; indizio sicuro che molti cristiani
sentono ancora il fascino della Croce, anche se la pusillanimità li incatena
sullo scoglio del compromesso. L’esortazione fraterna può giovare a rompere
questi legami, e difendere dal pericolo di ascoltare le sole voci del nostro istinto
le preoccupazioni dei mediocri e dei rinunziatari.
È necessario innanzi tutto che della mortificazione noi abbiamo un concetto
proporzionato alla sua alta funzione ascetica; perchè è impossibile
amare ciò che non si apprezza. È utile perciò ricordare le parole
di Pio XI di gloriosa memoria nell’Enciclica già citata: «La Penitenza
è come un’arma salutare che è posta in mano dei prodi soldati di Cristo,
che vogliono combattere per la difesa e il ristabilimento dell’ordine morale dell’universo».
È diventato di moda parlare oggi di ricostruzione anche morale, ma pochi immaginano
di dover cominciare dal mortificare se stessi.
Che la penitenza sia un mezzo di ascetismo è facile a capirsi; ma forse non
tutti si rendono ugualmente conto della sua importanza come difesa concreta del patrimonio
della Fede crisitiana. Ma basta un momento di riflessione: «Chi dà soddisfazione
a Dio per il peccato, riconosce con ciò stesso la santità dei supremi
principi della moralità, la loro interna forza di obbligazione, la necessità
di una sanzione contro la loro violazione… Ed è ovvio che quanto più
si affievolisce la fede in Dio, tanto più si confonda e svanisca l’idea di
un peccato originale e di una primitiva ribellione dell’uomo contro Dio, e quindi
ancor più si della necessità della penitenza e dell’espiazione (Ibid.).
Sarebbe facile poi ricordare come la mortificazione sia la base per il ristabilimento
della pace nel mondo, specialmente se consideriamo l’esempio dei Santi che a imitazione
del Divino Redentore hanno espiato i peccati dei loro fratelli. E dalla pace si passa
alla gioia. La vera gioia dello spirito non potrebbe essere altra cosa che l’espressione
del trionfo sulla carne.
Pur ammettendo la dignità di quanto in natura è degno del nostro rispetto
e venerazione, non dobbiamo dimenticare che l’opera della Redenzione che è
il capolavoro della Divina sapienza, è un atto di espiazione. «Se il
lavoro è tra i maggiori valori della vita, è però stato l’amore
di un Dio paziente quello che ha salvato il mondo» (ibid.).
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È
impresa relativamente facile parlare della bellezza e della necessità della
mortificazione; ma si resta un po’ imbarazzati quando ai tratta di consigliare praticamente
delle mortificazioni. Dobbiamo insistere sulla mortificazione interna e su quella
esterna. Dobbiamo limitarci ai digiuni e alle astinenze o è necessario praticare
la disciplina e portare il cilizio?
Non tutto noi possiamo praticare, certe penitenze dei Santi sono certamente più
ammirabili che imitabili. Ma nessuno è autorizzato a dichiarare superfluo
quello che i Santi hanno compiuto in ordine alla perfezione cristiana e alla salvezza.
Il Signore Gesù ha detto anche a noi quelle parole: « Sforzatevi di
entrare per la porta stretta, perchè larga è la porta e spaziosa la
via che conduce alla perdizione e molti son quelli che entrano per essa; mentre stretta
è la porta e angusta è la via che conduce alla vita e pochi son quelli
che la trovano » (Matt. 7, 13, 14).
Gli ostacoli che noi poniamo al trionfo del Regno di Dio nelle anime nostre devono
essere rimossi a prezzo di qualsiasi sacrificio; e come ognuno di noi ha i suoi ostacoli
così ciascuno deve avere, le proprie pratiche di mortificazione. «Se
il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo devi strappartelo e gettarlo
lungi da te… E se la tua mano destra ti è occasione di scandalo, tagliala
via e gettala lungi da te» (Matt. 5, 29, 30).
La specializzazione non ci dispensa però dall’accettare quelle mortificazioni
che la Chiesa impone a tutti i suoi figli. La guerra ci ha dato la riprova che alle
persone adulte i digiuni e le astinenze poste dalla legislazione ecclesiastica, anche
se osservati col massimo rigore, sono ben lungi da recare qualsiasi danno. La medicina
moderna non ha che da lodare la pratica del digiuno di un giorno per settimana, in
uso presso molte Comunità religiose.
Potrebbe forse essere discutibile sotto l’aspetto sanitario l’astinenza perpetua
dalle carni, uova e latticini inclusi; discutibile però non dovrebbe significare
altro che soatituibile. La medicina moderna può essere utilmente consultata
dalle anime penitenti, per imparare a farsi… del male senza ammalarsi. Impareremo
così che il digiuno settimanale può esser portato al più grande
rigore con beneficio della salute. Che una doccia fredda può esser insieme
un atto di mortificazione e un esercizio igienico. Lo stesso dicasi della disciplina,
quando non arrivi fino a una larga effusione di sangue, come guidati da un istinto
soprannaturale facevano i Santi. La grande medicina moderna non si perita affatto
di consigliare una vita rude e austera. (A proposito di digiuni e di astinenze si
può utilmente consultare: Henry Bon, Medicina e Religione; Torino,
Marietti, 1940, pp. 451-468).
Senza dubbio le mortificazioni interiori sono più apprezzabili che quelle
esterne, ma son troppi quelli che disprezzano queste ultime a favore delle prime.
S. Vincenzo de’ Paoli ammoniva: «Chi fa poco conto delle mortificazioni esteriori,
con dire che le interiori son più perfette, chiaramente dimostra, che non
è niente mortificato, né esteriormente, nè interiormente»
(Cfr. Diario Spirituale; Napoli, 1778, p. 114).
Senza troppo sofisticare sarà bene per le anime nostre applicare alla pratica
della mortificazione un principio della filosofia perenne: «ogni conoscenza
comincia dai sensi». Noi imiteremo i Santi se cominceremo col mortificate il
nostro corpo.
All’idolatria della carne che il mondo proclama bisogna opporre coraggiosamente la
follia della Croce, secondo il pensiero di Cristo e di S. Paolo. Ai nostri contemporanei
che ingenuamente credono, nonostante la quotidiana esperienza catastrofica, alla
naturale bontà del cuore umano, dobbiamo dimostrare che la restaurazione dell’uomo
è un’impresa affidata ai violenti. Ma la violenza che salva non è quella
che si scaglia vilmente contro il prossimo: è la violenza contro se stessi.
«Il Regno dei cieli si acquista con la forza e i violenti se ne impadroniscono»
(Matt. 11, 12).
testo
tratto da: P. Tito S. Centi, O. P, «La mortificazione», Vita Cristiana
(XVI, 1947), pp. 115-124.