L’INTERPRETAZIONE
BIBLICA IN CONFLITTO
Problemi
del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea
Joseph
card. Ratzinger
INDICE*
I. CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI: LA SITUAZIONE ED IL COMPITO
1.
Impostazione del problema
2.
Il compito
1.
I principali elementi del metodo e i loro presupposti
2.
L’origine filosofica del metodo
III. ELEMENTI
FONDAMENTALI PER UNA NUOVA SINTESI
I.
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI:
LA SITUAZIONE ED IL COMPITO
1.
Impostazione del problema
Ne “La storia dell’Anticristo” di Wladimir Soloviev, il nemico escatologico
del Redentore si raccomanda segnatamente ai credenti per aver ottenuto il proprio
dottorato in Teologia a Tubinga, ed aver scritto un’opera esegetica che gli vale
il riconoscimento di pioniere in questo campo. L’Anticristo, celebre esegeta! Con
questo paradosso, Soloviev – circa cent’anni fa – ha messo in luce l’ambivalenza
che caratterizza la metodologia dell’esegesi biblica moderna. Oggi è già
quasi un’ovvietà parlare della crisi del metodo storico-critico: esso aveva
pero preso inizio in un clima di immenso ottimismo.
All’interno della nuova libertà di pensiero, verso cui l’Illuminismo si era
spinto, il dogma appariva come il vero ostacolo ad una comprensione esatta della
Bibbia considerata in se stessa. Liberati da questo presupposto inadeguato e armati
di una metodologia che prometteva una rigorosa obiettività, si era finalmente
in grado, cosi sembrava, di poter udire di nuovo la voce pura e inalterata dell’origine.
Di fatto ciò che da tempo era stato dimenticato veniva di nuovo alla luce;
dietro la omofonia dell’interpretazione tradizionale, si poteva di nuovo percepire
la polifonia della storia. E quanto più l’elemento umano della storia sacra
veniva messo in rilievo, tanto più grande e più vicina appariva l’azione
di Dio.
Tuttavia, a poco a poco, il quadro veniva facendosi sempre più intricato:
le teorie si moltiplicavano; si susseguivano le une alle altre e formavano una barriera
che impediva ai non iniziati di accedere alla Bibbia. E d’altronde gli iniziati stessi
non leggevano più la Bibbia, ma ne facevano piuttosto una dissezione per giungere
agli elementi a partire dai quali essa sarebbe stata composta.
Il metodo stesso sembra esigere questo approccio sempre più radicale: esso
non può arrestarsi a metà cammino, nello scandagliare l’intervento
dell’uomo nella storia sacra; deve piuttosto tentare di sopprimere ogni residuo a-razionale,
rendere tutto chiaro.
La fede non è un elemento costitutivo del metodo e Dio non è un fattore
di cui occorre tener conto nell’avvenimento storico. Ma poiché nella esposizione
biblica della storia, tutto è penetrato dall’azione divina, deve cominciare
una complicata anatomia della parola biblica: si deve cercare di disfare l’ordito
in modo tale da avere in mano alla fine il “propriamente storico”, cioè
il puramente umano dell’avvenimento, e spiegare anche come è accaduto che
successivamente l’idea di Dio sia stata reintrodotta ovunque nella trama. Si deve
cosi, contro la storia esposta, costruirne un’altra, “reale”; si devono
trovare dietro le fonti esistenti – i libri della Bibbia – delle fonti più
primitive, che diventino la norma referenziale dell’interpretazione. Nessuno può
essere sorpreso che un tale modo di procedere conduca ad una abbondanza di ipotesi
sempre più numerose, sino al formarsi, alla fine, di una giungla di contraddizioni.
In conclusione si studia non più ciò che il testo dice, ma ciò
che dovrebbe dire, e quali sono le componenti alle quali lo si può ricondurre
(1).
Un tale stato di cose non poteva che suscitare delle reazioni contrarie. I più
prudenti tra i teologi sistematici cercano di produrre una teologia indipendente
per quanto è possibile dall’esegesi (2). Ma quale valore
può avere una teologia che si separa dalle proprie fondamenta? È questo
il motivo per cui ha cominciato a guadagnare adepti un approccio radicale, detto
“fondamentalismo”: i suoi fautori stigmatizzano come falsa in se stessa
e assurda ogni applicazione del metodo storico alla Parola di Dio. Costoro vogliono
tornare alla purezza letterale della Bibbia, prenderla come si presenta e come la
comprende il lettore comune: proprio come Parola di Dio. E qual è la comprensione
“normale” che intende la Bibbia nella sua specificità? Il fondamentalismo
può, certo, invocare a favore che il “luogo” della Bibbia, la prospettiva
ermeneutica da lei stessa scelta, è il modo di vedere dei “piccoli”,
degli uomini con “un cuore semplice” (3). Tuttavia, resta il fatto che l’esigenza
di “letteralità” e di “realismo” non è cosi univoca
come può sembrare. Un’altra alternativa sarebbe di ricorrere al problema dell’ermeneutica:
la spiegazione del processo storico non sarebbe che una parte del compito dell’interprete;
l’altra sarebbe la comprensione del testo nell’oggi. Di conseguenza, occorrerebbe
indagare sulle condizioni del comprendere stesso cosi da giungere ad una attualizzazione
del testo che vada oltre una “anatomia del defunto” puramente storica (4). Il progetto
è corretto perché si è ancora lontani dalla comprensione di
una cosa quando se ne sa spiegare il processo di formazione.
Ma come mi è possibile giungere ad una comprensione che non sia fondata sull’arbitrio
dei miei presupposti, una comprensione che mi permetta veramente d’intendere il messaggio
del testo, restituendomi qualcosa che non viene da me stesso? Una volta che la metodologia,
attraverso la sua anatomia, ha ucciso la storia, chi potrà ancora risuscitarla,
in modo che ancora possa parlarmi veramente, come una realtà vivente? In altri
termini, se l'”ermeneutica” deve diventare convincente, occorre innanzitutto
che scopra un’armonia tra l’analisi storica e la sintesi ermeneutica.
Senza dubbio nel dibattito ermeneutico sono stati compiuti seri progressi in questa
direzione; ma, a dire il vero, io non vedo ancora una risposta convincente (5). Quando Bultmann
utilizzava la filosofia di Heidegger come uno strumento per l’attualizzazione della
parola biblica, questo era in consonanza con la sua ricostruzione di ciò che
è proprio del messaggio di Gesù. Ma questa ricostruzione non era un
prodotto di quella filosofia? Quale poteva essere la sua credibilità da un
punto di vista storico? Alla fine è Gesù o Heidegger che noi ascoltiamo
in un tale tentativo di comprensione? Eppure, difficilmente si potrà negare
a Bultmann di essersi confrontato col problema di come accedere al messaggio biblico.
Ma oggi si manifestano alcune forme di esegesi che non si possono spiegare se non
come sintomi della decomposizione dell’interpretazione e dell’ermeneutica. Le esegesi
materialiste e femministe non possono pretendere di essere un’interpretazione del
testo e delle sue intenzioni. Tutt’al più possono esprimere la convinzione
che il senso proprio della Bibbia sia o completamente inconoscibile o privo di significato
per la realtà della vita presente. Quindi non si interrogano più sulla
verità, ma invece soltanto su ciò che può servire ad una prassi
scelta da loro. La combinazione di tale prassi con elementi della tradizione biblica,
si giustifica allora per il fatto che questo apporto di elementi religiosi rafforza
lo slancio dell’azione. In questo modo, il metodo storico può anche servire
come copertura ad una tale manovra, nella misura in cui divide la Bibbia in unità
discontinue, che si prestano quindi a una nuova utilizzazione e che possono, con
un senso differente, essere ricomposte attraverso un nuovo montaggio (6).
Solo apparentemente le “interpretazioni” della psicologia del profondo
appaiono più serie. Qui gli avvenimenti narrati dalla Bibbia sono ricondotti
ad immagini primordiali mitiche che sarebbero sorte dalle profondità dell’anima
in forme mutevoli, attraverso tutta la storia delle religioni, e che dovrebbero indicarci
la via per il cammino redentore verso le profondità salvatrici della nostra
anima (7). Anche qui la
Scrittura si legge contro la sua intenzione: non sarebbe più invito a rifiutare
gli idoli, ma il modo in cui si presenta in Occidente il mito eterno della redenzione.
L’avidità con la quale tali forme di “interpretazione” sono oggi
spesso ritenute, anche dalla teologia, una valida alternativa, è forse il
segno più drammatico dello stato d’emergenza nel quale sono cadute l’esegesi
e la teologia.
Questa situazione è abbastanza simile, oggi, nella teologia cattolica e in
quella evangelica, anche se ciascuno, seguendo le proprie tradizioni scientifiche,
ha diversi modi di esprimersi rispetto a taluni dettagli. Per quanto concerne il
versante cattolico, il Concilio Vaticano II non ha certo creato questo stato di cose,
ma non è stato nemmeno in grado di impedirlo. La Costituzione sulla Divina
Rivelazione ha cercato di stabilire un equilibrio tra i due aspetti dell’interpretazione,
l'”analisi” storica e la “comprensione” d’insieme. Da una parte
ha sottolineato la legittimità ed anche la necessità del metodo storico,
riconducendolo a tre elementi essenziali: l’attenzione ai generi letterari; lo studio
del contesto storico (culturale, religioso, ecc.); l’esame di ciò che si usa
chiamare “Sitz im Leben”. Ma il documento del Concilio vuole al tempo stesso
mantenere fermo il carattere teologico dell’esegesi e ha indicato i punti di forza
del metodo teologico nell’interpretazione del testo: il presupposto fondamentale
sul quale riposa la comprensione teologica della Bibbia è l’unità della
Scrittura. A questo presupposto corrisponde come cammino metodologico “l’analogia
della fede”, cioè la comprensione di singoli testi a partire dall’insieme.
Il documento aggiunge altre due indicazioni metodologiche: la Scrittura è
una cosa sola a partire dall’unico popolo di Dio che ne è stato il portatore
attraverso tutta la storia. Conseguentemente leggere la Scrittura come una unità
significa leggerla a partire dalla Chiesa come dal suo luogo vitale, e considerare
la fede della Chiesa come la vera chiave d’interpretazione. Da un lato ciò
significa che la tradizione non chiude l’accesso alla Scrittura: piuttosto lo apre;
d’altro canto significa che spetta nuovamente alla Chiesa, nei suoi organismi istituzionali,
la parola decisiva nell’interpretazione della Scrittura (8).
Ma questo criterio teologico del metodo è incontestabilmente in contrasto
con l’orientamento metodologico di fondo dell’esegesi moderna; è precisamente,
anzi, ciò che l’esegesi tenta di eliminare ad ogni costo. Questa concezione
moderna può essere descritta in questo modo: o l’interpretazione è
critica, o si rimette all’autorità; le due cose insieme non sono possibili.
Compiere una lettura “critica” della Bibbia significa tralasciare il ricorso
ad una autorità nell’interpretazione. Certo, la “tradizione” non
deve essere totalmente esclusa come mezzo di comprensione; ma essa conta solo nella
misura in cui le sue motivazioni resistono ai metodi “critici”. In nessun
caso la “tradizione” può essere criterio dell’interpretazione. Presa
nel suo insieme, l’interpretazione tradizionale viene considerata come pre-scientifica
ed ingenua; solo l’interpretazione storico-critica sembra capace di dischiudere veramente
il testo. E infine, è per questa ragione che anche l’unità della Bibbia
diviene un postulato superato. Dal punto di vista dell’esegesi storica, ciò
che vale per il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento, persino per i rapporti interni
a ciascun Testamento, è unicamente la discontinuità; non più
l’unità.
Da un tale punto di partenza, il compito assegnato dal Concilio all’esegesi – d’essere
cioè contemporaneamente critica e dogmatica – appare in sé contraddittorio:
essendo queste due richieste inconciliabili per il pensiero teologico moderno. Personalmente
sono convinto che una lettura attenta del testo intero della “Dei Verbum”
permetterebbe di trovare gli elementi essenziali per una sintesi tra il metodo storico
e l'”ermeneutica” teologica. Il loro accordo tuttavia non è immediatamente
evidente (9).
Cosi la recezione post-conciliare della Costituzione ha praticamente lasciato cadere
la parte teologica della Costituzione stessa come una concessione al passato, comprendendo
il testo unicamente come approvazione ufficiale ed incondizionata del metodo storico-critico.
Il fatto che, in questo modo, dopo il Concilio, siano praticamente scomparse le differenze
confessionali tra le esegesi cattolica e protestante, lo si può attribuire
a tale recezione unilaterale del Concilio. Ma l’aspetto negativo di questo processo
è che, anche in ambito cattolico, lo iato tra esegesi e dogma è ormai
totale e che la Scrittura è divenuta anche per essa, una parola del passato
che ognuno si sforza a suo modo di tradurre nel presente, senza poter troppo fare
affidamento alla zattera su cui è salito. La fede decade allora ad una sorta
di filosofia della vita che ciascuno, per quanto gli è dato, cerca di distillare
dalla Bibbia. Il dogma, deprivato del fondamento della Scrittura, non regge più.
La Bibbia, che si è separata dal dogma, è divenuta un documento del
passato; appartiene essa stessa al passato.
2.
Il compito
Questa situazione non ha la stessa evidenza ovunque. I metodi non sono sempre
applicati in modo cosi radicale; è da molto che si cerca di correggerli. In
questo senso, lo sforzo che mira ad una migliore sintesi tra il metodo storico ed
il metodo teologico, tra la critica ed il dogma, non è nuovo. D’altronde nessuno
potrebbe pretendere che si sia già trovata una convincente visione d’insieme
che, da un lato, tenga conto delle innegabili acquisizioni del metodo storico e dall’altro
oltrepassi i suoi limiti e si apra ad un’ermeneutica appropriata. Sarà necessario
il lavoro di una generazione almeno, per condurre a buon fine una simile impresa.
Ciò che segue vuol dunque inserirsi in questo tentativo ed indicare alcuni
passi che possono farci progredire su questa strada.
Che la fuga in una sedicente pura letteralità della comprensione scritturistica
non serva granché, è che, d’altra parte, la fedeltà soltanto
piatta alla Chiesa sia ugualmente insufficiente, non è necessario mostrarlo
nei dettagli. Allo stesso modo, non basta ricusare semplicemente delle teorie particolari,
segnatamente le più temerarie e dubbie. Ma non può nemmeno soddisfare
una posizione tiepida, che cerchi di scegliere caso per caso quale risposta dell’esegesi
moderna meglio s’accordi con la Tradizione. Tale circospezione può essere
utile, certo, ma non affronta il problema alla radice; e resta arbitraria, se non
può rendere intelligibili i propri fondamenti. Per giungere ad una vera soluzione,
occorre superare le discussioni sui dettagli e spingersi sino alla radice. ciò
che si mostra necessario, è quel che si potrebbe chiamare una critica della
critica; non una critica esercitata dall’esterno, ma una critica che si sviluppi
dal suo interno, a partire dal potenziale critico che il pensiero critico possiede.
In altre parole, abbiamo bisogno di un'”autocritica” dell’esegesi storica,
che possa prolungarsi in una critica della ragione storica, e che sia dunque continuazione
e sviluppo delle critiche kantiane della ragione. Non pretendo certamente di compiere
da solo e, per cosi dire, con un colpo di mano un’impresa tanto vasta. Ma occorre
cominciare, se non altro con tentativi preliminari di ricognizione in una regione
ancora largamente inesplorata. L’autocritica del metodo storico dovrebbe cominciare
da una lettura diacronica delle proprie conclusioni; e dovrebbe rinunciare all’apparenza
d’una certezza quasi di tipo scientifico naturale, con la quale le sue interpretazioni,
fino ad oggi, sono state molto spesso presentate.
Infatti, alla base del metodo storico-critico, si trova lo sforzo di giungere, nell’ambito
della storia, ad un grado di precisione metodologica e di certezza analogo a quello
che si raggiunge nelle scienze della natura. Ciò che l’esegeta ha determinato
una prima volta, non può essere messo in questione che da altri esegeti: ecco
la regola pratica che è generalmente presupposta; e la si considera scontata.
Ma in questo caso è precisamente il modello che offrono le scienze naturali
che dovrebbe condurre ad adottare il “principio d’indeterminazione” di
Heisenberg, e ad applicarlo egualmente al metodo storico. Heisenberg ha mostrato
che il risultato di un’esperienza data è influenzato sostanzialmente dal punto
di vista dell’osservatore, ed anche che il modo di porre questioni e di fare osservazioni
agisce sull’evento naturale, modificandolo (10). Ciò
vale a maggior ragione per le testimonianze della storia: l’interpretazione non può
mai essere una pura riproduzione “del come realmente sono andate le cose”.
La parola “inter-pretazione” ci offre un orientamento per giungere alla
cosa stessa: ogni esegesi richiede un “inter”, un penetrare all’interno,
uno stare in mezzo, un prendere parte dell’interprete stesso. Una pura obiettività
è un’astrazione assurda. Colui che non prende parte non sperimenta; la partecipazione
anzi è il presupposto del conoscere. Solo ci si domanda come può esserci
partecipazione senza che l’io soffochi la voce dell’altro, ma che ci sia invece una
“intesa” interiore con il passato che renda puro l’orecchio per ascoltare
la sua parola (11).
Questo principio che Heisenberg ha formulato per le spermentazioni nelle scienze
naturali esprime uno stato di cose che vale in generale per la relazione soggetto-oggetto.
Non si può in modo neutro isolare il soggetto dalla costellazione di cui fa
parte. Non si può che tentare di situarlo nella migliore condizione possibile.
E ciò è vero a maggior ragione quando si tratta della storia, come
già detto, perché i processi fisici si svolgono nel presente e possono
essere riprodotti, mentre gli avvenimenti storici sono situati nel passato e non
possono essere ripetuti. Inoltre essi portano con sé quel carattere di impenetrabilità
e di profondità proprio di ciò che è umano; e dunque, molto
più dei fatti naturali, dipendono dall’atteggiamento del soggetto che li percepisce.
Ma come si può giungere a scoprire tutto ciò che entra nell’orizzonte
del soggetto? Occorre introdurre a questo punto ciò che ho già chiamato
“approccio diacronico dei risultati dell’esegesi”. Dopo quasi duecento
anni di lavoro storico-critico sui testi, non si può più leggerne i
risultati solo a due dimensioni; li si deve vedere in prospettiva, in collegamento
con la loro propria storia.
Dal che diviene chiaro che una tale storia non è semplicemente quella di un
progresso che va da risultati imprecisi verso altri sempre più precisi ed
obiettivi. Essa appare piuttosto e principalmente come una storia di costellazioni
soggettive, i cui cammini corrispondono esattamente agli sviluppi della storia dello
spirito, e che a loro volta si riflettono nel modo di reinterpretare i testi. Nella
lettura diacronica dell’esegesi, i presupposti filosofici di questa si manifestano
da sé. Allora, a distanza, l’osservatore si rende conto con sorpresa che queste
interpretazioni, che si supponevano cosi rigorosamente scientifiche e puramente “storiche”,
riflettono in realtà lo spirito dei loro autori piuttosto che lo spirito delle
epoche del passato. ciò non deve condurre l’esegeta allo scetticismo, ma piuttosto
invitarlo a riconoscere i propri limiti e a purificare il suo metodo.
II.
AUTO-CRITICA DEL METODO STORICO-CRITICO
SUL PARADIGMA METODOLOGICO
DI MARTIN DIBELIUS E RUDOLPH BULTMANN
1.
I principali elementi del metodo e i loro presupposti
Per non rimanere soltanto nell’astrazione di regole genera1i, vorrei tentare
di illustrare con un esempio ciò che sono venuto dicendo sin qui. Seguirò
la tesi di dottorato scritta da Reiner Blank all’Università di Basilea e intitolata
“Analisi e critica degli studi di storia delle forme di Martin Dibelius e Rudolph
Bultmann” (12), Questo libro
mi sembra un eccellente esempio della suddetta autocritica del metodo storico-critico.
Una esegesi auto-critica cessa di accumulare “conclusioni” su conclusioni,
di elaborare e di contestare ipotesi. Esamina piuttosto il suo cammino per identificare
i propri fondamenti, e per purificarsi, grazie ad una riflessione su questi fondamenti.
ciò non vuol dire che si sopprime da sé. Al contrario, insieme con
la sua autolimitazione trova il suo giusto ambito. Non è necessario aggiungere
che nel frattempo i lavori di Dibelius e Bultmann sulla storia delle forme sono stati
superati in più di un aspetto, e in singoli punti fatti oggetto di correzioni.
Ma è ugualmente vero che i loro orientamenti metodologici fondamentali determinano
ancor oggi la metodologia ed il percorso dell’esegesi moderna. I loro elementi essenziali
costituiscono sempre il fondamento dei suoi giudizi storici e teologici; ed inoltre
hanno acquisito un’autorità addirittura dogmatica.
Per Dibelius, come per Bultmann, si trattava di superare il modo arbitrario con cui,
nella fase precedente dell’esegesi critica – quella che veniva chiamata la “teologia
liberale” – si era arrivati a giudicare ciò che era “storico”
e “non storico”. Ciascuno dei nostri due studiosi ha dunque cercato di
stabilire criteri letterari rigorosi, destinati a mettere in luce con sicurezza il
processo, secondo il quale i testi si sono formati, e a fornire cosi un quadro fedele
della tradizione. È su questa base che l’uno e l’altro cercavano la “forma
pura” e le leggi che hanno condotto, a partire da queste forme iniziali, sino
ai testi quali si presentano a noi oggi. Dibelius partiva dell’idea per lui ovvia
che il mistero della storia si svela a mano a mano che si mette in luce il suo divenire
(13). Ma come si
arriva all’inizio che è postulato e alle leggi di sviluppo dell’evoluzione
successiva? Malgrado tutte le loro differenze nei dettagli, si può qui scoprire
una serie di presupposti di fondo comuni a Dibelius e Bultmann, presupposti che entrambi
consideravano, senza discuterli, come sicuri. L’uno e l’altro partono dalla priorità
della predicazione rispetto all’evento: “in principio era la parola”. Tutto,
nella Bibbia, muove a partire dalla predicazione. Bultmann spinge questa tesi tanto
lontano che per lui solo la parola può essere originaria: la parola produce
la scena (14), Tutto quanto
è evento è pertanto secondario, elaborazione mitica.
Con ciò è già stato posto un assioma che a partire da Dibelius
e Bultmann è rimasto costitutivo per l’esegesi moderna l’idea della discontinuità.
Non solo non vi è alcuna continuità tra la tradizione pre-pasquale
e post-pasquale, tra il Gesù pre-pasquale e la Chiesa che si sta formando,
ma addirittura vige discontinuità in tutte le fasi della tradizione. Ciò
è talmente vero che R. Blank ha potuto dire: “Bultmann ha cercato la
discontinuità ad ogni costo” (15). Vi era certamente
un vantaggio in tale teoria: il problema del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento,
in questo modo di vedere, diventava irrilevante. Infatti, se c’è già
discontinuità all’interno della tradizione neotestamentaria, la discontinuità
rispetto all’Antico non fa più problema. Cosi allora la continuità
tra i due Testamenti, affermata dai testi del Nuovo, fa parte di quegli elementi
mistificanti che lo storico mette a nudo, e con i quali la comunità posteriore
si è costruita la propria abitazione. Nel medesimo tempo ci si accorge come
in un lampo quanto, attraverso questo ricorso ad elementi sedicenti originari, ci
si allontani dal messaggio concreto del Nuovo Testamento. Infatti, per quest’ultimo,
è costitutivo sapersi in unità con tutta la testimonianza dell’Antico,
il quale solo adesso si comprende come un’unità e come una totalità
significativa. Ogni interpretazione del Nuovo Testamento infatti deve essere giudicata
attraverso questo criterio: se è capace o no di accordarsi con questa convinzione
fondamentale. Se ciò non è possibile, è esclusa fin da principio
una comprensione conseguente della logica interna degli scritti del Nuovo Testamento.
Ma torniamo a Dibelius e a Bultmann.
Alla tesi del carattere originario della semplice parola e a quella della discontinuità
tra le singole fasi del suo sviluppo, si aggiunge la convinzione che solo ciò
che è semplice è primitivo; ciò che è complesso è
necessariamente tardivo. Questa idea fornisce un parametro di facile utilizzazione
per determinare le tappe di una evoluzione: più un testo è teologicamente
elaborato e complesso, più è recente; e viceversa, più una cosa
è semplice, più è facile attribuirla all’origine (16), Ma il criterio
che permette di giudicare se una cosa è più o meno sviluppata, non
è cosi evidente come sembra di primo acchito. Infatti, il giudizio su questo
punto dipende essenzialmente dai criteri di valutazione teologica propri dell’esegeta;
è lasciato qui un ampio spazio all’arbitrarietà.
Ma prima di tutto, occorre contestare l’idea fondamentale qui presupposta, la quale
riposa su un modo semplicista di trasporre il modello evoluzionista della scienza
alla storia dello spirito. I processi della vita dello spirito non seguono la legge
dell’evoluzione che vale nel regno animale. In realtà, accade qui spesso il
contrario; dopo una grande innovazione possono sopraggiungere delle generazioni di
epigoni che riducono l’audacia di un nuovo inizio alla banalità di una scolastica;
la seppelliscono; la ricoprono di detriti sino a che, finalmente, attraverso numerose
diramazioni, questa scoperta possa nuovamente farsi valere.
Attraverso alcuni esempi si vedrà con facilità quanto siano discutibili
questi criteri. Chi potrebbe sostenere che Clemente Romano sia più “evoluto”
o più “complesso” di Paolo? O che Giacomo determini un avanzamento
rispetto alla lettera ai Romani? O che la Didachè vada più lontano
delle Lettere pastorali? Consideriamo le epoche posteriori: intere generazioni di
discepoli di S. Tommaso sono stati incapaci di conservare la grandezza del suo pensiero;
l’ortodossia luterana è molto plU “medioevale” di Lutero stesso.
E persino tra i grandi è impossible mantenere un tale schema evolutivo: Gregorio
Magno, per esemplo, scrive molto dopo Agostino, e lo conosce; ora, in Gregorio l’audace
visione agostiniana si trova tradotta nella semplicità della comprensione
della fede. Altro esempio: quale norma permette di decidere se Pascal debba essere
classificato innanzi o dietro Descartes? Quale delle loro filosofare deve essere
giudicata più evoluta? E di tali esempi se ne potrebbero fornire lungo tutta
la storia. Ogni giudizio basato sulla teoria della discontinuità nella tradizione
e sul principio evoluzionista della priorità del “semplice” sul
“complesso”, può dunque essere a priori messo in questione come
senza fondamento.
Ma ci resta ora da spiegare, in maniera ancora più concreta, a partire da
quali norme si cercherà di determinare ciò che e “semplice”.
Riguardo a questo, vi sono dei criteri sia per la forma che per il contenuto. Dal
punto di vista formale, si sono ricercate le forme originarie. Dibelius le trovava
nel “paradigma”, il racconto esemplare trasmesso oralmente, che si lascerebbe
ricostruire a partire dalla predicazione. Più tardivi del paradigma sarebbero
l'”aneddoto”, la “leggenda”, le collezioni di materiali narrativi
ed il “mito” (17).
Bultmann vede la forma pura nell'”apoftegma”: “il frammento originario
doveva essere ben tornito, conciso. L’interesse doveva concentrarsi sulla parola
di Gesù alla fine di ogni scena; descrizioni dettagliate di una situazione
dovevano essere estranee a questa sorta di forma; Gesù non compariva mai come
l’iniziatore… Tutto ciò che non corrispondeva a questa forma, Bultmann l’attribuiva
all’evoluzione successiva” (18).
Il carattere arbitrario di tali asserzioni che segnano ancor oggi con la loro impronta
le teorie dello sviluppo e i giudizi di autenticità, salta agli occhi. Certamente,
per essere giusti, bisogna aggiungere che queste teorie non sono cosi arbitrarie
come sembrerebbe di primo acchito. La definizione di “forma pura” si fonda
infatti sull’idea che ci si fa riguardo a ciò che per il contenuto è
primitivo; idea che dobbiamo ora mettere alla prova.
Un primo elemento di questa idea è quello che abbiamo già incontrato:
la tesi, cioè, della priorità della parola sull’evento. Ma questa tesi
nasconde due altre coppie di contrari: la contrapposizione tra la parola e il culto
e quella tra escatologia e apocalittica. In stretta relazione con queste sta inoltre
l’antitesi tra ciò che è giudaico e ciò che è ellenistico.
Secondo Bultmann, per esempio, erano ellenistici: l’idea del cosmo, il culto mistico
della divinità e la pietà cultuale. La conseguenza è semplice:
ciò che è ellenistico non può essere palestinese, e non può
quindi essere originario. Tutto ciò che concerne il culto, il cosmo o “la
mistica” deve essere rifiutato come formazione posteriore. Il rifiuto dell’
“apocalittica”, il presunto contrario dell’escatologia, conduce ad un altro
elemento: il presunto antagonismo che oppone il profetico al “legale”,
e dunque anche a ciò che è cosmico e cultuale. Ne consegue che l’etica
è ritenuta incompatibile con l’escatologia e la profezia. In principio non
ci sarebbe stata un'”etica”, ma semplicemente un “ethos” (19)
Si fanno ancora sentire qui, senza alcun dubbio le scelte fondamentali di Lutero:
la dialettica della logge e dell’evangelo, che tende ad assegnare l’etica ed il culto
all’ambito della legge, e metterle, dunque, in contrasto dialettico con Gesù;
è lui, infatti, come portatore della Buona Novella, che compie la linea della
promessa e cosi oltrepassa la logge. In questo senso, se vogliamo comprendere l’esegesi
moderna e giudicarla correttamente, ci occorre riflettere di nuovo sull’idea che
Lutero si faceva del rapporto fra i due Testamenti; al modello sino allora corrente
dell’analogia, egli sostituì una struttura dialettica. Forse è questa
svolta il vero fossato che separa l’antica esegesi dalla nuova. Comunque, tutto ciò
era, in Lutero, ancora mantenuto in un fragile stato di equilibrio: per Gesù
stesso, e quindi anche per la vita cristiana, i due aspetti della dialettica restano
essenziali; Gesù non è soltanto la pura giustificazione per grazia,
ma anche “esempio”; e in questo modo l’etica è fondata nella sua
persona.
Di contro, in Dibelius e Bultmann, tutto ciò è degenerato in uno schema
evolutivo d’un semplicismo quasi intollerabile, benché proprio ciò
abbia contribuito alla sua forza di penetrazione. Con tali presupposti, la figura
di Gesù è predeterminata. Gesù deve dunque essere concepito
come strettamente “giudaico”; tutto ciò che è “ellenistico”
deve esserne scartato; bisogna allontanare ogni elemento apocalittico, sacramentale
o mitico.
Ciò che resta è un profeta esclusivamente “escatologico”,
che non proclama in effetti alcun messaggio. Egli non fa altro che gridare in modo
“escatologico”, invitando alla vigilanza verso il “Totalmente altro”,
verso la “Trascendenza”, e presentandola perentoriamente agli uomini come
un’attesa della fine imminente del mondo.
Da questa visione delle cose si aprono due compiti per l’esegesi: bisognava spiegare
come, a partire dal Gesù profeta, non messianico e non apocalittico, si era
giunti alla comunità apocalittica, che venerava Gesù come Messia; cioè
ad una comunità ove si univano in un unico fenomeno sincretista l’escatologia
giudaica, la filosofia stoica e la religione misterica. È infatti cosi che
Bultmann descrive il cristianesimo primitivo (20). Quanto al secondo compito, consiste
nel mettere in rapporto il messaggio originario di Gesù con l’esistenza cristiana
odierna, cosi da permetterci di “comprendere” il suo appello.
Il primo compito era, in linea di principio, abbastanza semplice da svolgere, seguendo
lo schema evolutivo; ma avrebbe richiesto, per essere svolto nel dettaglio, un gran
lavoro di erudizione. Il terreno di coltura cui siamo debitori per ciò che
è contenuto nel Nuovo Testamento non andava cercato in persone singole, ma
nel collettivo, nella “comunità”. Le idee romantiche sul “popolo”
e sulla sua importanza nella formazione delle tradizioni hanno qui giocato un ruolo
rilevante (21). Aggiungiamo
a questo la tesi dell’ellenizzazione e il ricorso alla scuola della storia delle
religioni. I lavori di Gunkel e di Bousset continuavano, in questo contesto, ad esercitare
un’influenza decisiva (22). Il secondo
compito era più difficile. Bultmann l’ha affrontato con la propria tesi sulla
demitologizzazione; ma essa non conobbe neppure lontanamente il successo raggiunto
con le sue teorie sulla forma e lo sviluppo. Se è permesso di caratterizzare,
semplificando, il tentativo con cui Bultmann cerca di attualizzare il messaggio di
Gesù al nostro tempo, si potrebbe dire quanto segue: lo studioso di Marburg
stabilisce una corrispondenza tra cio che è profetico, non apocalittico, e
l’idea di fondo del primo Heidegger. L’essere cristiano, nel senso in cui l’intendeva
Gesù, si identifica allora, nelle sue lince essenziali, con quel modo di esistere
caratterizzato dall’apertura e dalla vigilanza, descritto da Heidegger. Ma a questo
punto si pone il problema di sapere se non vi sia una via più semplice per
giungere a delle affermazioni tanto generali e in buona parte puramente formali (23).
Tuttavia, ciò che qui ci importa non è il Bultmann sistematico, il
cui influsso è stato d’altronde bruscamente interrotto dall’avanzata del marxismo.
Si tratta, qui, del Bultmann esegeta, che sta a rappresentare un consenso di fondo
dell’esegesi scientifica, tuttora diffuso. Attraverso la nostra analisi si è
reso manifesto che anche il Bultmann esegeta è un sistematico e che le sue
conclusioni esegetiche non sono il risultato di constatazioni storiche, ma provengono
da un insieme strutturato di presupposti sistematici. Karl Barth ha ragione quando
fa questa constatazione: “Bultmann è esegeta, ma non credo si possa discutere
con lui di esegesi, poiché egli è allo stesso tempo un sistematico
di una tale levatura, che non si troverebbe praticamente alcun testo trattando il
quale non appaiano subito diversi assiomi del suo pensiero, e che in definitiva tutto
si decide sulla questione della loro validità” (24).
2.
L’origine filosofica del metodo
A questo punto sorge il problema di sapere perché i grandi principi esplicativi
di Dibelius e Bultmann – la forma pura, l’opposizione tra ciò che è
semitico e ciò che è greco, tra gli elementi cultuali e quelli profetici,
tra l’apocalittica e l’escaologia, ecc. – potevano avere ai loro occhi un’evidenza
tale, da far loro credere d’avere davanti un puro strumentario per la conoscenza
della storia. Perché, a tutt’oggi, questa struttura categoriale è in
larga parte ancora presupposta ed utilizzata senza discussione? Gran parte di questa
struttura è, nel frattempo, divenuta una certezza scolastica che precede il
singolo, e che sembra legittimarsi con l’ovvietà della sua applicazione. Ma
cosa ne è dei fondatori del metodo? È certo che Dibelius e Bultmann
appartenevano già ad una tradizione: abbiamo già citato la loro dipendenza
nei riguardi di GunkeI e di Bousset. Ma quale idea soggiacente li guidava? Di fronte
a questo problema, l’auto-critica del metodo storico cede il posto ad una autocritíca
della ragione storica, senza la quale la nostra analisi resterebbe prigioniera di
questioni preliminari.
In primo luogo, si può osservare che è all’interno della scuola della
storia delle religioni, che il modello evoluzionista è stato trasferito all’analisi
dei testi biblici. Si partiva da metodi e modelli delle scienze naturali, e si cercava
di applicarli ugualmente allo studio della storia. Bultmann ha generalizzato questa
idea conferendo alla cosiddetta immagine del mondo secondo le scienze naturali, una
sorta di carattere dogmatico. Cosi, per esempio, la non storicità dei racconti
dei miracoli non costituiva più alcun problema; la sola cosa che restava da
spiegare era il modo in cui si erano formati i racconti dei miracoli. Per un verso
la sua immagine del mondo delle scienze naturali restava vaga e prereflessiva; per
un altro forniva la norma assoluta per discernere ciò che poteva avere avuto
luogo e ciò di cui ci si doveva accontentare di spiegare la genesi. A quest’ultima
categoria apparteneva tutto ciò che non si incontra abitualmente nell’odierna
esperienza media (25), Poteva essere
accaduto soltanto ciò che accade sempre; per tutto il resto, occorreva inventare
processi storici la cui ricostruzione costituiva il compito proprio dell’esegesi.
Ma penso che occorra scavare più a fondo, per comprendere l’opzione fondamentale
e sistematica che è stata all’origine delle diverse categorie di giudizio.
Il vero presupposto filosofico di tutto il sistema mi sembra si situi nella svolta
filosofica compiuta da Kant, secondo la quale la voce dell’essere in sé non
può essere percepita dall’uomo; questi può intenderla solo indirettamente,
nei postulati della ragion pratica, che sono rimasti, per cosi dire, la fenditura
stretta attraverso la quale avviene per l’uomo il contatto con ciò che gli
è proprio, col suo destino eterno. Riguardo a tutto il resto, riguardo ai
contenuti della attività della sua ragione, deve accontentarsi dell’ambito
categoriale. Donde la riduzione a ciò che è positivo, empirico, all’ambito
della scienza “esatta”, ove, per definizione è escluso che possa
manifestarsi ciò che è totalmente altro, colui che è il
Totalmente Altro, un inizio totalmente nuovo che proviene da un altro piano. Tradotto
in termini teologici, ciò significa che la rivelazione deve ritirarsi nell’ambito
puramente formale dell’atteggiamento “escatologico”: ciò corrisponderebbe
alla scissione kantiana (26). Per il resto,
si può “spiegare” tutto: ciò che altrimenti avrebbe potuto
apparire come una manifestazione diretta del divino non può che essere mito,
del quale è possibile scoprire le leggi di sviluppo. È con questa convinzione
di fondo che Bultmann – e con lui la maggioranza degli esegeti moderni – legge la
Bibbia.
Egli è convinto che i fatti, così come sono descritti nella Bibbia,
non possono essere accaduti, e trova dei metodi che dovrebbero mostrare come in realtà
sarebbero accaduti. A questo livello, l’esegesi moderna comporta una “reductio
historiae in philosophiam”: la storia viene ricondotta alla filosofia e attraverso
la filosofia.
La vera questione quindi è questa: si può leggere la Bibbia anche in
un altro modo? O più esattamente: si deve essere d’accordo con la filosofia
che costringe ad una tale sorta di lettura? Poiché il dibattito attorno all’esegesi
moderna non è nel suo nucleo centrale un dibattito tra storici, ma un dibattito
filosofico. Solo a questo livello può essere correttamente condotto; altrimenti
rimane una lotta nella nebbia. In questo senso il problema esegetico si identifica
totalmente con A dibattito contemporaneo sul fondamento. Tale dibattito non può
essere condotto in modo approssimativo, e non può giungere a buon fine con
qualche semplice indicazione. Esso esige, come è già stato sottolineato,
l’impegno attento e critico di tutta una generazione. Non può, ormai, consistere
in un semplice ritorno al Medio Evo e ai Padri, per contrapporli allo spirito dell’epoca
moderna. Ma, in senso opposto, non si può nemmeno rinunciare alle intuizioni
dei grandi credenti di tutti i tempi, e fare come se la storia del pensiero avesse
preso seriamente inizio soltanto con Kant. Di una tale limitazione di orizzonti soffre,
a mio parere, largamente il dibattito recente attorno al problema dell’ermeneutica
biblica. L’esegesi dei Padri non può essere eliminata qualificandola come
“allegorica”; e la filosofia del Medio Evo, a sua volta, non può
essere liquidata semplicemente perché la si classifica come “precritica”.
III.
ELEMENTI FONDAMENTALI PER UNA NUOVA SINTESI
Dopo queste indicazioni sulla necessità di un’autocritica del metodo storico,
eccoci a confronto con il compito positivo: occorre collegare gli strumenti di lavoro
di questo metodo con una filosofia che abbia minori implicazioni estranee al testo;
una filosofia meno arbitraria che offra un maggior numero di presupposti per un vero
ascolto del testo. Questo compito positivo è senza dubbio ancor più
difficile del lavoro critico. Per concludere queste riflessioni, posso solo cercare
di aprire in questa selva alcuni primi sentieri che forse possono indicare dove e
come sia possibile trovarvi dei percorsi.
1. Nel pieno del dibattito teologico e metodologico della sua epoca, Gregorio di
Nissa invita il teologo razionalista Eunomio a non confondere la teologia con la
fisiologia (theologein) non è (fusiologein) (27), “Altra cosa è il mistero
della teologia, dice, altra la scienza della natura”. Non si può allora
“chiudere l’incomprensibile natura di Dio nel palmo d’una mano di bambino”.
Gregorio fa allusione ad un celebre detto di Zenone: “La mano aperta è
la percezione; la mano che si chiude è l’assenso dello spirito; la mano che
racchiude interamente il suo oggetto è l’afferrare con il giudizio; la mano
racchiusa da un’altra mano è la scienza sistematica” (28).
L’esegesi moderna, come abbiamo visto, ha relegato sì, Dio nel totalmente
inattingibile, nell’extramondano, e con ciò Dio resta assolutamente inesprimibile;
ma solo per poi trattare il testo biblico stesso come una realtà interamente
intramondana, secondo i metodi delle scienze naturali. Nei riguardi del testo stesso,
essa pratica il fusiologein (29): come “scienza
critica”, pretende una esattezza ed una certezza paragonabili a quelle delle
scienze naturali. Questa pretesa è falsa, perché si basa su un misconoscimento
della profondità e del dinamismo della Parola. È solo a condizione
di togliere alla Parola il suo carattere proprio di Parola e di stenderla a forza
sulla griglia di qualche ipotesi di base, che è possibile sottometterla a
regole cosi precise. Romano Guardini, a questo proposito, ha parlato della falsa
certezza dell’esegesi moderna, che “ha prodotto risultati parziali molto significativi,
ma che ha perso il suo oggetto proprio e che con ciò ha del tutto cessato
di essere teologia” (30).
A fronte di questa situazione, si può citare di nuovo una sublime frase di
Gregorio di Nissa, che resta sempre valida e orientatrice: “… stelle sono
queste luci tremule e scintillanti delle parole divine, che superano gli occhi dell’anima
con il loro luccicare… Ma se accadesse anche per la nostra anima ciò che
abbiamo udito di Elia, se la nostra mente, salita su un carro di fuoco, venisse trasportata
in alto…, allora non dovremmo rinunciare alla speranza di avvicinarci a queste
stelle, intendo dire ai divini pensieri, i quali sfolgorano attorno alle nostre anime
per mezzo delle sentenze celesti e spirituali” (31).
Con ciò non si vuol favorire qualche esaltazione entusiasta; piuttosto, è
richiesta la disponibilità ad aprirsi al dinamismo interiore della Parola,
che solo può essere compresa in una “sim-patia”, in una disponibilità
a sperimentare cose nuove, a lasciarsi condurre su un cammino nuovo. ciò che
occorre non è la mano chiusa, ma l’occhio aperto…
2. Di conseguenza l’esegeta non deve affrontare l’interpretazione del testo con una
filosofia precostituita: non deve piegarsi agli imperativi di una visione del mondo
che si presenta moderna o “scientifica”, che determini in partenza ciò
che può o non può essere. Non può escludere a priori, che, come
lui stesso fa, anche Dio possa parlare nel mondo con parole umane; non può
escludere che Dio, come lui stesso, possa entrare ed agire nella storia umana, per
quanto inverosimile ciò possa sembrargli. Egli deve essere pronto a lasciarsi
istruire dal fenomeno. Deve essere pronto ad accettare che possa accadere nella storia
un vero inizio, che come tale non può essere fatto derivare da ciò
che è accaduto prima, ma che si dispiega a partire da se stesso (32). Non può
nemmeno negare all’uomo la capacità di saper ascoltare al di sopra e oltre
le categorie della ragion pura, capacità di trascendersi verso l’infinita
ed aperta verità dell’essere.
Il problema davanti al quale ci troviamo, formulato nettamente da Kant, era d’altronde
già stato ben visto dai Padri e dai grandi teologi del Medio Evo. Cosi nota
Gregorio di Nissa a questo riguardo: “La creatura intera è incapace….
di porsi al di fuori di se stessa. Rimane sempre all’interno di sé. Qualunque
cosa possa percepire, essa percepisce se stessa” (33). San Tommaso fa un’analoga osservazione,
quando afferma che la conoscenza umana non può attingere la verità
in sé, ma solo una realtà umana, la quale pero può condurre
a scoprire altre verità. In altri termini: le verità spirituali sono
sempre percepite in modo solo metaforico, per mezzo di altre cose (34). Tuttavia, è proprio dei grandi
teologi non prendere questa evidenza del loro pensiero filosofico come criterio di
ciò che può essere vero nei racconti biblici, ma di cercare piuttosto,
a partire dal fenomeno che viene loro incontro nella parola biblica, di dilatare
il proprio pensiero.
Gregorio di Nissa lo fa in due modi: chiuso nella prigione del suo essere e della
sua conoscenza di creatura, l’uomo porta in sé l’ardente desiderio di uscirne;
porta in sé, come una freccia, l’orientamento verso l’amore infinito. Ed è
precisamente qui che Dio si manifesta in lui. L’uomo è per se stesso uno specchio
di Dio; e quando si percepisce pienamente, percepisce più che se stesso: vede,
dentro di sé, il riflesso della pura luce. All’uomo, certamente, non è
dato di uscire da sé ma Dio può penetrare in lui. È cosi che
l’uomo, nella dinamica del suo essere, può nello stesso tempo trascendersi,
diviene più simile a Dio; ora, somiglianza significa conoscenza: noi conosciamo
ciò che siamo, non di più e non di meno. Gregorio aggiunge qui una
seconda riflessione: questo penetrare di Dio negli uomini ha preso una forma storica
nell’Incarnazione. Cosi le monadi umane vengono fatte saltare nel soggetto nuovo
del nuovo Adamo. Dio ferisce l’anima: questa ferita è il Figlio, ed è
cosi che veniamo aperti. Il nuovo soggetto, questo Adamo che diviene uno nella Chiesa,
è intimamente in contatto con il Figlio, e cosi anche con il Dio trinitario
stesso (35). San Tommaso
d’Aquino ha espresso in forma metafisica queste due idee attraverso i principi dell’analogia
e della partecipazione. Ha cosi reso possibile una filosofia aperta, capace di accogliere
il fenomeno biblico nella sua radicalità. Di fronte al dogmatismo di una presunta
visione scientificonaturale del mondo, occorrerebbe, per ritrovare i presupposti
di una comprensione della Bibbia, proseguire oggi la riflessione nella linea di una
simile filosofia aperta (36).
3. Similmente occorre riesaminare la relazione tra l’evento e la parola. Per Dibelius,
Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento
irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal
caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore
di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti
stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni
della parola e ad essa occorre riferirli. I giudizi che provengono da un tale punto
di partenza raggiungono, certamente, per gli uomini d’oggi, un alto grado di evidenza:
questo tipo di evidenza corrisponde alla nostra attuale struttura di verosimiglianza,
ma non è detto che sia necessariamente fondato nella struttura della realtà
come tale. Una tale evidenza non sarebbe ammissibile anche se il principio stesso
del metodo scientifico – per il quale ogni cosa che succede può trovare la
sua spiegazione causale in rapporti di attività puramente immanenti all’operazione
stessa – fosse non solo valido dal punto di vista metodologico, ma anche vero in
sé e per sé. In questa situazione non ci sarebbe altro, infatti, se
non “caso e necessità”; e non si potrebbero allora considerare gli
avvenimenti che come fatti bruti.
Ma ciò che può essere utile come principio metodologico per le scienze
naturali è, come principio filosofico, già una insulsaggine, e come
principio teologico, un controsenso. Qui occorre, se non altro per curiosità
scientifica, sperimentare col principio esattamente inverso, constatare che può
essere anche il contrario.
Di nuovo, come contro-prova, può qui servirci san Tommaso, il quale ci presenta
una sintesi della riflessione filosofica di oltre un millennio e mezzo. In lui la
natura, gli astri, le cose in generale, la vita, il tempo seguono un certo corso,
ossia un movimento orientato verso un fine. Una volta che le cose hanno raggiunto
il loro fine, allora si può scoprire il vero senso, che era per cosi dire
nascosto in esse. Questo senso che si manifesta alla fine del movimento va oltre
il senso che si poteva tirar fuori ad ogni tappa del percorso. “Questo nuovo
senso presuppone l’esistenza di una provvidenza divina, l’esistenza di una storia
(di salvezza) che giunge al suo termine” (37). L’azione di Dio appare dunque come principio
di intelligibilità della storia. Il principio che crea l’unità della
storia passata e presente, il principio “che conferisce un senso alla storia,
è l’avvenimento storico del Cristo. Costui dona anche all’avvenire la propria
unità” (38). “Le epoche
della storia umana sono unificate da una azione” (39), l’azione del Cristo; su di essa riposa
il rapporto dell’uomo con Dio. “Tutta la storia e tutta la Scrittura devono
essere pensate a partire da questa azione” (40). Ciò significa che le azioni che
si sono svolte nell’Antico Testamento si fondano su un’azione futura, ed è
solo a partire da questa che possono essere comprese in maniera adeguata. Ciò
significa ancora che parola, realtà e storia non possono essere separate l’una
dall’altra. “Perché la parola di Dio opera ciò che significa;
se si vedono le cose a partire da lui, non si può dare separazione tra azione
e parola” (41).
In altri termini, l’evento può già essere una “parola”, conformemente
alla terminologia biblica stessa (42). Ne derivano
due regole importanti per l’interpretazione:
a) Inizialmente occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali,
se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola
e l’evento, che relega l’evento in una regione “senza parola”, cioè
senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante,
perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo
conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza
concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito
del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica.
b) Inoltre, un tale dualismo introduce una separazione tra la parola biblica e la
creazione, e sopprime la continuità di senso tra l’Antico ed il Nuovo Testamento,
per dar valore a un principio di discontinuità. Ma quando si è perduta
la continuità tra parola ed evento, non vi è più unità
nella Scrittura. Separato dall’Antico, il Nuovo Testamento scompare automaticamente;
infatti, come suggerisce il suo stesso titolo (“Nuovo Testamento”), esso
agisce solo in grazia di questa unità. Conformemente a ciò che dall’interno
pretende il testo biblico stesso, occorre sostituire al principio della discontinuità
quello dell'”analogia Scripturae”; ed al principio meccanicista quello
teologico (43).
Sicuramente, in un primo tempo occorre reintegrare i testi nel loro ambito, quello
della storia, ed interpretarli nel loro contesto storico. Ma in un secondo tempo
del processo interpretativo, occorre vederli anche nella totalità dello svolgimento
storico, a partire dall’evento centrale che è Cristo. Soltanto 1 armonia dei
due metodi permette di giungere alla comprensione della Bibbia. Presso i Padri e
gli autori del Medio Evo il primo momento della interpretazione era largamente deficitario,
e cosi il secondo cadeva facilmente nell’arbitrarietà. Ma oggi, inversamente,
ci manca il secondo momento. Il primo momento stesso allora tende alla irrilevanza;
anzi la negazione dell’unità di senso conduce anche qui ad un’arbitrarietà
metodologica. Riconoscere di volta in volta in ogni parola storica il potere di autotrascendersi
che essa possiede, riconoscere dunque la legittimità delle riletture, grazie
alle quali, nella Bibbia, l’evento ed il senso sono progressivamente implicati l’uno
nell’altro: ecco ciò che appartiene ai compiti di una interpretazione appropriata
per la quale si potranno e dovranno trovare i metodi adatti. In questo senso vale
sempre la massima esegetica di Tommaso d’Aquino: “Il compito del buon interprete
non è considerare le parole, ma il senso” (44).
4. Per fondare e rendere metodologicamente accessibile questo potere che i singoli
testi biblici hanno di autotrascendersi e d’integrarsi cosi all’insieme, la tradizione
non ha soltanto indicato il principio della centralità cristologica; essa
ha formulato un secondo principio: questa mira “cristologica” deve integrarsi
in una visione “teologica” in senso stretto (45) ciò significa tutte le parole
della Scrittura sono parole d’uomo e devono in prima istanza essere interpretate
come tali; e tuttavia esse poggiano su una “Rivelazione”, esse sono toccate
cioè da una “esperienza” che oltrepassa largamente la riserva esperienza
personale dell’autore. Nelle parole umane è Dio che parla, e da qui si manifesta
l’inadeguatezza costitutiva della parola concreta in rapporto alla realtà
da cui proviene. Nel linguaggio teologico odierno si è soliti chiamare la
Bibbia: “la Rivelazione”. Ciò non sarebbe mai venuto in mente agli
antichi. La Rivelazione è un processo dinamico tra Dio e l’uomo, che diviene
realtà di nuovo e solo nell’incontro. La parola della Bibbia testimonia la
Rivelazione; ma non la contiene in modo tale da poterla esaurire in se stessa e da
poterla mettere in tasca come un oggetto. La Bibbia testimonia la Rivelazione; ma
il concetto di Rivelazione in quanto tale la oltrepassa. In pratica ciò vuol
dire che un testo può significare molto più di ciò che il suo
autore stesso era in grado di pensare (46). Ciò
che vale già per i grandi testi poetici, a maggior ragione vale per la parola
biblica. Il singolo testo contiene un sovrappiù di senso, che va al di là
del suo contesto storico immediato; perciò è possibile ricomprenderlo
in un nuovo contesto storico e situarlo in complessi significativi più vasti:
è il diritto alla rilettura. Questa è la ragione per cui la totalità
della Scrittura ha il proprio valore. Essa è molto più del raggruppamento
delle singole parti dell’arazzo, che i diversi autori potevano avere in vista, ciascuno
nel proprio contesto storico. Non si ha ancora il tutto, quando si possiedono tutte
le singole parti.
Per l’interpretazione occorrerà dunque tener conto di ciò che annota
M. Buber riguardo alla tradizione della Bibbia fatta in collaborazione con F. Rosenzweig.
Nel loro lavoro i due autori sono stati certamente molto attenti agli strati redazionali
che la critica ha oggi scoperto e li segnalano per mezzo delle abbreviazioni correnti.
Ma nella loro traduzione non hanno voluto far ascoltare voci isolate; ciò
che era autorevole, in definitiva, era per loro l’insieme concreto del testo biblico,
che hanno segnalato con la sigla R. Dal punto di vista dell’esegesi tecnica, ciò
significava semplicemente “Redattore”. Ma per il loro uso hanno tradotto
“R” con “Rabbenu” – Nostro Maestro. È il testo nel suo
insieme ad essere “nostro Maestro”. Preso nella sua totalità, esprime
una mira che si estende al di là delle intenzioni che si possono supporre
nelle fonti prese singolarmente (47). Il lavoro d’interpretazione
può (e forse deve) occuparsi di J, P, E, ecc.; ma in fin dei conti l’obiettivo
di un’esegesi corretta deve essere R; occorre cioè comprendere il testo biblico
concreto come una totalità che ha significato pieno in se stessa.
5. Negli ultimi cent’anni l’esegesi ha realizzato grandi cose, ma ha anche commesso
grandi errori; e questi errori sono divenuti quasi dei dogmi accademici. Attaccarli
è considerato da molti studiosi addirittura un sacrilegio, soprattutto se
queste critiche vengono da qualcuno che non è esegeta. Tuttavia, un esegeta
eminente quale Heinrich Schlier aveva da tempo avvertito i colleghi di non sprecare
tempo in banalità (48). Joachim Gnilka
ha dato una concreta espressione a questo avvertimento, quando reagì contro
l’eccessiva importanza attribuita alla storia delle tradizioni (49).
Nella stessa direzione vorrei formulare i seguenti desiderata:
a) Sembra giunto il tempo di una nuova riflessione di fondo sul metodo esegetico.
L’esegesi scientifica deve riconoscere che in un buon numero dei suoi assiomi fondamentali
è presente l’elemento filosofico, e deve quindi riconsiderare criticamente
i risultati fondati su questi assiomi.
b) Non si può studiare l’esegesi in un modo unilineare, sincronico, come si
fa per le scoperte delle scienze naturali: queste non dipendono dalla loro storia,
ma unicamente dalla precisione dei dati di misurazione. L’esegesi, di contro, deve
riconoscere di essere una disciplina storica. La sua storia fa parte di ciò
che essa è, le posizioni che ha raggiunto deve sempre integrarle in maniera
critica nella totalità della sua storia; così sarà in grado,
da un lato, di riconoscere il carattere relativo dei propri giudizi; e d’altro canto
sarà meglio in grado di penetrare in una comprensione reale, benché
sempre incompleta, della parola biblica.
C) I metodi filologici e quelli delle scienze della letteratura sono e rimarranno
d’una importanza decisiva per una corretta esegesi. Ma per poterne fare uso in modo
veramente critico – soprattutto nei riguardi di un testo che pone tali esigenze –
occorre ancora una conoscenza delle implicazioni filosofiche del processo dell’interpretazione.
Lo studio autocritico della propria storia deve anche essere un esame delle alternative
filosofiche essenziali del pensiero umano. A questo riguardo appare insufficiente
considerare solo gli ultimi centocinquat’anni. Ancora, occorre introdurre nella discussione
le grandi proposte del pensiero patristico e medioevale. Infine, è ugualmente
indispensabile riflettere sulle opzioni fondamentali della Riforma e sulle scelte
che essa implica nella storia dell’interpretazione.
d) Ciò che ci è ora necessario non sono nuove ipotesi sul “Sitz
im Leben”, sulle possibili fonti o sul processo susseguente della tradizione.
Ciò di cui abbiamo assolutamente bisogno, è uno sguardo critico sul
paesaggio esegetico attuale, per ritornare al testo e distinguere tra le ipotesi
feconde e quelle inutilizzabili. Solo a queste condizioni si può aprire una
nuova e fruttuosa collaborazione tra l’esegesi e la teologia sistematica. Unicamente
per questa via l’esegesi sarà di vero servizio alla comprensione della Bibbia.
e) Infine, l’esegeta deve rendersi conto di non abitare una regione neutra, al di
sopra o al di fuori della storia e della Chiesa. Pretendere che si possa accedere
direttamente a ciò che è puramente storico non può che produrre
cortocircuiti. Il primo presupposto di ogni esegesi è accettare la Bibbia
come un unico libro (50). Facendo questo,
l’esegesi ha già scelto una posizione che non risulta da un approccio solamente
letterario. Ha compreso che questo testo letterario è prodotto da una storia
che ha una sua coesione interna, e che questa storia è il vero luogo della
comprensione. Ma se l’esegesi vuol essere anche teologia, deve compiere un altro
passo: deve riconoscere che la fede della Chiesa è quella forma di “sim-patia”
senza la quale la Bibbia resta un libro sigillato. Essa deve giungere a riconoscere
questa fede come un’ermeneutica, come il luogo della comprensione, che non fa una
violenza dogmatica alla Bibbia, ma ad essa precisamente fornisce l’unica possibilità
d’essere veramente se stessa.
Siamo così tornati al nostro punto di partenza. I vicoli ciechi del metodo
critico ci hanno mostrato chiaramente una volta di più che la comprensione
non è possibile senza uno che comprenda; questa è la chiave senza la
quale un testo non ha nulla da dire al nostro tempo. Il grande merito di Bultmann
è stato quello di aver messo in rilievo con chiarezza la necessità
dell’ermeneutica, anche se è poi rimasto prigioniero di presupposti che tolgono
in gran parte valore alle sue conclusioni. Forse l’aporia dei tentativi attuali può
aiutarci a comprendere ora anche in modo nuovo che la fede è veramente quello
spirito in cui è nata la Scrittura, e che è dunque anche l’unica porta
per penetrare nel suo interno.
NOTE
(1) Questa situazione è stata presentata in modo molto spigliato
e con stile spontaneo oltre che con gran talento letterario, da C.S. LEWIS, Fern-seed
and Elephants and Other Essays on Christianity, ed. by W. Hooper, London 1975.
Riflessioni molto pertinenti a proposito di questo problema si trovano anche in E.
KÄSTNER, Die Stundentrommel vom Heiligen Berg Athos, Inselverlag 1956. Per una
diagnosi della situazione è inoltre consigliabile l’importante opera di J.
GUITTON, Silence sur l’essentiel, Paris 1986, pp. 47-58. Per una visione d’insieme
della storia dell’esegesi storico-critica si può consigliare W. KÜMMEL,
Das Neue Testament. Geschichte der Erforschung seiner Probleme, Freiburg 1958
(tr. it. Il Nuovo Testamento. Storia dell’indagine scientifica sul problema neotestamentario,
Bologna 1976).
(2) In ambito protestante si può portare come esempio la Systematische
Theologie di P. TILLICH, Stuttgart 1956-1966, in cui i riferimenti scritturistici
per i tre volumi occupano due pagine appena, e non a caso. In ambito cattolico si
possono citare le ultime opere di K. RAHNER o almeno il suo Grundkurs des Glaubens,
Freiburg 1976 (tr. it. Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto
di cristianesimo, Milano 1984/4) in cui cerca, nella misura del possibile, di
mantenere le distanze nei confronti dell’esegesi (p. es. alla p. 25).
(3) Cf. GUITTON, Silence, cit. (n. 1), pp. 56 sgg., R. GUARDINI,
Das Christusbild der paulinischen und johanneischen Schriften, Würzburg
1961/2, p. 15.
(4) Così KÄSTNER, Die Stundentrommel, cit. (n.
1), p. 121, riflessioni simili si trovano in L. KOLAKOWSKI, Die Gegenwärtigkeit
des Mythos, München 1973. pp. 95 sg.
(5) Vorrei rinviare particolarmente ai lavori di P. RICOEUR p. es.
Le conflit des interprétations. Essai d’herméneutique, Paris
1969 (tr. it. Il conflitto delie interpretazioni, Milano 1982) e in particolare:
I. Ermeneutica e strutturalismo e II. Ermeneutica e psicanalisi. Per situare lo stato
attuale della questione, è utile consultare P. STUHLMACHER, Vom Verstehen
des Neuen Testaments. Eine Hermeneutik, Göttingen 1986. Inoltre vi sono
osservazioni importanti in P. TOINET, Pour une théologie de l’exégèse
(con prefazione di I. de la Potterie), Paris 1983 si veda anche R. LAURENTIN, Comment
réconcilier l’exégèse et la foi, Paris 1984 (tr. it. Come
riconciliare l’esegesi con la fede, Brescia 1986), P. GRECH, Ermeneutica e
teologia biblica, Roma 1986; P. GRELOT, Evangiles et histoire, Paris 1985;
ID., L’origine dei Vangeli, Città del Vaticano 1990. La rivista “Theologische
Quartalschrift” di Tubinga nel 1979 ha dedicato un intero fascicolo (pp. 1-71)
alla discussione di questo argomento, nella forma di un dibattito attorno a un articolo
di J. BLANK, Exegese als theologische Basiswissenschaft (pp. 2-23). Sfortunatamente,
questo articolo è poco utile: per l’autore infatti i problemi che sorgono
a proposito dell’esegesi sembrano doversi ricondurre esclusivamente a quello di un
dogmatismo non ancora giunto all’altezza del pensiero storico.
(6) Le nuove forme d’interpretazione materialista e femminista della
Bibbia ne sono un esemplo significativo. Cf. per es. K. FÜSSEL, Materialistische
Lekture der Bibel, in Theologische Berichte. 13. Methoden der Evangelien-Exegese,
Einsiedeln 1985, pp. 123-163.
(7) Il rappresentante principale di questa esegesi, che si fa strada
ogni giorno di più, è E. Drewermann. Cf. G. LOHFINK-R. PESCH, Tiefenpsychologie
und keine Exegese, Stuttgart 1987; cf. anche AA. VV., Tiefenpsychologische
Deutung des Glaubens? Anfrangen an Eugen Drewermann (Quaestiones disputatae,
113), Freiburg 1988.
(8) Cf. soprattutto Dei Verbum, 11 e 12; cf. anche J. GNILKA,
“Die biblische Exegese im Lichte des Dekretes über die göttliche Offenbarung”,
in Münchener Theologische Zeitscrift, 36 (1985), pp. 1-19.
(9) Cf. GNILKA, Die biblische Exegese, cit. (n. 8), pp. 1-9,
si veda anche il commento di GRILLMEIER al terzo capitolo della Costituzione, in
Lexikon fur Theologie und Kirche, Ergänzugsband 2, 528-558.
(10) Cf. W. HEISEMBERG, Das Naturbild der heutigen Physik,
Hamburg 1955, in particolare alle pp. 15-23 (tr. it. Natura e fisica moderna,
Milano 1985).
(11) Mi riferisco a STUHLMACHER, Vom Verstehen cit. (n. 5),
Ia sua risposta a questi problemi consiste in una “ermeneutica dell’accordo
con i testi biblici” (pp. 222-256).
(12) R. BLANK, Analyse und Kritik der formengeschichtlichen Arbeiten
von Martin Dibelius und Rudolf Bultmann (Theologische Dissertationen, 16, ed.
da Bo Reicke), Basel 1981.
(13) BLANK, Analyse, cit. (n. 12), p. 72; di contro, KÄSTNER,
Die Stundentrommel, cit., p. 120, parla della “superstizione… secondo
la quale il complesso, ma anche ogni dettaglio, deve comprendersi a partire dalle
proprie origini”.
(14) BLANK, Analyse, cit. (n. 12), p. 97.
(15) Cf. BLANK, Analyse, cit. (n. 12), p. 154.
(16) BLANK, Analyse, cit. (n. 12), pp. 89-183. Questo criterio
è praticamente sempre accettato. Accontentiamoci di un solo esempio, che pero
è significativo: la posizione di L. Oberbnner nella sua recensione di J. CARMIGNAC,
La naissance des Evangiles synoptiques, Paris 1984 (tr. it. La nascita dei
vangeli sinottici, Milano 1986) apparsa in Theologische Revue 83 (1987) 194.
Senza riflessione critica, egli considera come naturale che, se li si paragona a
Paolo nei vangeli sinottici “vi è senza dubbio una riflessione più
elaborata, per esempio in ciò ché concerne l’ecclesiologia e l’escatologia”;
e ne trae, senza altre ragioni, un criterio di datazione. Ma a partire da quale criterio
si può decidere quando una riflessione è più elaborata e quando
lo è di meno? Evidentemente, ciò dipende innanzi tutto dal punto di
vista dell’osservatore. Ed anche supponendo che questo criterio sia valido (quello
del grado di elaborazione di un pensiero), chi può provare che se ne possa
dedurre necessariamente la datazione più antica o più recente dl questo
pensiero?
(17) BLANK, Analyse, cit. (n. 12), pp. 11-46.
(18) BLANK, Analyse, cit. (n. 12), P. 98.
(19) M. DIBELIUS, “Die Unbedingtheit des Evangeliums und die
Bedingheit der Ethik”, in Die Christbche Welt, 40 (1926), pp. 1103-1120,
in particolare p. 1107 e 1109, dello stesso autore, Geschichtliche und übergeschichtliche
Religion im Christentum, Göttingen 1925; cf. BLANK, Analyse, cit. (n.
12), pp. 66-71.
(20) Cf. R. BULTMANN, Urchristentum, Zürich 1954/2,
in particolare pp. 101 sgg. (tr. It. Il cristianesimo primitivo nel quadro delle
religioni antiche, Cosenza); cf. anche BLANK, Analyse, cit. (n. 12), pp.
172 sgg.
(21) Cf. BLANK, Analyse, cit. (n. 12) p. 111, 175.
(22) Cf. W. KLATT, Hermann Gunkel: Zu seiner Theologie der Religionsgeschichte
und zur Entstehung der formgeschichtlichen Methode, Gottingen 1969.
(23) Si vedano i problemi derivanti dalla demitologizzazione. Gli
aspetti più importanti d questa discussione si trovano nei 5 volumi curati
da H.W. BARTSCH, Kerygma und Mythos, Hamburg 1948-1955.
(24) K. BARTH, Kirchliche Dogmatik, 3/2, Zurich 1959/2, p.
534 (tr. it. Dogmatica ecclesiale, Bologna), citato in BLANK, Analyse,
cit. (n. 12), p. 148.
(25) Brillanti analisi della questione si trovano in P.L. BERGER,
A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural,
New York 1969. Eccone un breve passaggio: “L’epoca attuale è apparentemente
immunizzata contro ogni sorta di relativizzazione. Ci si lagna, nei confronti degli
autori del Nuovo Testamento, per il fatto che avrebbero avuto una coscienza falsa,
in quanto radicata nella propria epoca. Ma lo studioso moderno, senza il minimo controllo,
sembra essersi fatta la convinzione che la propria epoca – la nostra epoca – sia
necessariamente una benedizione integrale. In altri termini, intellettualmente parlando,
un elettricista o un radioascoltatore dovrebbe essere posto al di sopra dell’Apostolo
Paolo”. Sulla questione della visione del mondo, si trovano riflessioni importanti
in H. GESE, Zur biblischen Theologie, München 1977, pp. 202-222.
(26) Cf BLANK, Analyse, cit. (n. 12), p, 137: «Per
lui [Bultmann] è logicamente conseguente che i racconti di miracolinon siano
storici». Per quanto riguarda l’orizzonte filosofico e kantiano di questo punto
di vista e la sua critica, cf. J. ZÖHRER, Der Glaube an die Freiheit undder
historsche jesus. Eine Untersuchung der Philosophie Karl Jaspers’ unter christologischem
Aspekt, Frankfurt 1986.
(27) GREGORIO DI NISSA, Contra Eunomium, X, ed. W Jaeger,
II, 3, pp 227, 26 (Migne PG 45, col. 828 C); cf. anche Homilia 11 in Cantica canticorum,
in Migne PG 44, col. 1013 C (tr. it. a cura di C. MORESCHINI, Omelie sul Cantico
dei cantici, Roma 1988) Il KÄSTNER, Die Stundentrommel, cit. (n.
1), si esprime in una maniera simile: “…ognuno comprende intuitivamente che
il risultato della scienza e della ricerca si riduce quasi a nulla quando lo si paragona
con ciò che, nella loro ignoranza, seppero trovare questi scultori di legno:
il vantaggio che se ne ricava con molta ingegnosità è magro. Ma l’organo
con il quale essi cercavano – l’occhio – era il più nobile dei due, mentre
la ricerca storica non è che un organo fatto per “prendere”: essa
vuole “(com)-prendere”: lo dice la parola stessa”.
(28) Cf. H.U. VON BALTHASAR nell’introduzione alle omelie di Gregorio
di Nissa sul Cantico dei cantici: Gregor von Nyssa. Der versiegelte Ouell. Auslegung
des Hohen Liedes, Einsiedeln 1984/3, p. 17.
(29) Il significato della parola greca indica appunto una spiegazione
secondo i principi delle scienze naturali.
(30) GUARDINI, Das Christusbild, cit. (n. 3), p. 14. Le riflessioni
metodologiche delle pagine 7-15 fanno parte, a mio parere, delle cose più
importanti fino ad oggi dette a proposito del metodo d’interpretazione della Bibbia.
Riguardo a tale questione, Guardini si era già espresso in modo più
dettagliato all’inizio della sua attività, in un importante articolo “Heilige
Schrift und Glaubenswissenschaft”, in Die Schildgenossen 8 (1928) 24-57,
pubblicato in traduzione italiana in questo volume, alle pagine 45-91. Sulla teoria
e la pratica esegetica di Guardini una presentazione critica si trova in M. THEOBALD,
Die Autonomia der historischen Kritik Ausdruck des Unglaubens oder theologische
Notwendigkeit? Zur Schriftauslegang R. Guardinis in L. HONNEFELDER – M. LUTZ-BACHMANN
(edd.), Auslegungen des Glaubens. Zur Hermeneutik chrislicher Existenz, Berlin-Hildesheim
1987, pp. 21-45.
(31) GREGORIO Dl NISSA, Homilia 10 in Cantica canticorum,
in Migne PG 44, col. 980 b-c; nell’ed. W. Jaeger (Leiden 1960) VI 295,5-296,3. Traduzione
tedesca di VON BALTHASAR, Gregor von Nyssa, cit. (n. 28) e italiana di C.
MORESCHINI, Omelie, cit.
(32) GUARDINI, Das Chnstusbild, cit. (n. 3), p. 11.
(33) VON BALTHASAR, Gregor von Nyssa, cit (n 28), p. 16;
dello stesso autore cf anche Présence e pensée. Essai sur la philosophe
reigieuse de Grégoire de Nysse, Paris 1942.
(34) S. theol., I, q. 88, art. 1. resp.; cf. q. 84, art.
7; si veda anche q. 13, art. 6. Si consulti anche l’ importante lavoro di M. ARIAS-REYERO,
Thomas von Aquin als Exeget, Einsielden 1971 pp, 176 e 204 , da cui prendo spunto
per ciò che segue.
(35) VON BALTHASAR, Gregor von Nyssa, cit. (n. 28), pp. 10-24.
(36) ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, cit. (n. 33), p. 85,
vi sono anche dettagliate citazioni dagli scritti di san Tommaso.
(37) ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, cit. (n. 33), p. 85; vi sono
anche dettagliate citazioni dagli scritti di san Tommaso.
(38) ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, cit. (n. 33), p. 106.
(39) ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, cit. (n. 33), p. 107.
(40) ARIAS-REYERO,Thomas vonAquin, cit.(n.33),p. 107.
(41) ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, cit. (n. 33), p. 102.
(42) Cf. J. BERGMANN – H. LUTZMANN – W.H. SCHMIDT, dabar,
in G.J. BOTTERWECK – H. RINGGRENN (edd ), Theol. Wörterbuch zum AT (tr.
it. in corso. Grande lessico dell’Antico Testamento, Brescia 1988), 2 (1977)
89-133; O. PROCKSCH, legô ktl, L, in G. KITTEL – G. FRIEDRICH (edd.),
Grande lessico del Nuovo Testamento, VI, Brescia 1970, specialmente 166-278.
Per l’unità tra parola e realtà in san Tommaso, cf. ARIAS-REYERO, Thomas
von Aquin, cit. (n. 33), pp. 102, 246 sg. e passim.
(43) Per una esatta comprensione della teleologia, cf. R SPAEMAN
– R. LÖW, Die Frage Wozu? Geschichte und Wiederentdeckung des teleologischen
Denkens, München-Zürich 1981.
(44) “Officium est enim boni interpretis non considerare verba
sed sensum”, In Matthaeum XXVII, I, n. 2321, ed. R. Cai, Torino-Roma
1951 p 358; cf ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, Cit. (n. 33), p 161.
(45) Cf. ARIAS-REYERO, Thomas von Aquin, Cit. (n. 33), pp.
153-262.
(46) Mi sia permesso rinviare alla mia analisi del termine rivelazione
in Bonaventura: J. RATZINGER, Die Geschichtstheologie des hl. Bonaventura,
München-Zürich 1959, specie alle pp. 58-61; altri elementi nella mia conferenza:
“Buchstabe und Geist des Zweiten Vatikanums in den Konzilsreden von Kardinal
Frings”, in Internationale Katholische Zeischrift, 16 (1987), pp. 251-265.
Cf. anche K. RAHNER – J. RATZINGER, Offenbarung und Überlieferung, Freiburg
1965, pp. 34-38 (tr. it. Rivelazione e tradizione, Brescia 1970).
(47) M. BUBER, Zu einer neuen Verdeutschung der Schrift,
Olten 1954, pp. 7 sg. e 40 sg.
(48) H. SCHLIER, “Was heisst Auslegung der Heiligen Schrift?”,
in Besinnung auf das Neue Testament. Exegetische Aufsätze und Vorträdge,
2, Freiburg 1964, pp. 35-62: 62 (tr. it. Riflessioni sul Nuovo Testamento,
Brescia 1976/2); cf. GNILKA, Die biblische Exegese, cit. (n. 8).
(49) GNILKA, Die bibliscbe Exegese, cit. (n. 8), p. 14.
(50) La Costituzione Dei Verbum ricorda che nell’interpretazione
della Scrittura si deve essere attenti “al contenuto e all’unità di tutta
la Scrittura” (n. 12, 3); cfr. H. DE LUBAC, L’Ecriture dans la Tradition,
Paris 1966, pp. 148-166: “Concorde des deux Testaments”; P.J. CAHILL, “The
Unity of the Bible”, in Biblica, 65 (1984), pp. 404-411.
*Traduzione
dal francese di Natale Benazzi con revisione sul tedesco di Stefano Gennarini. Note
a cura di Ambrogilo Piazzoni; testo tratto da AA.VV., L’esegesi cristiana oggi,
Casale Moferrato (AL) 1991, pp. 93-125.