«In Corde Jesu»
La devozione al Sacro Cuore di Gesù
di P. Louis Mendizabal S.J.
(I parte)
INDICE
Cap. II – ALCUNE IDEE SBAGLIATE E LORO CAUSE
Cap. IV – GESÙ’ CRISTO MI AMA ADESSO
Cap. V – GESÙ’ CRISTO SOFFRE ADESSO?
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Tratto da P. LOUIS MENDIZABAL S.J.,In
Corde Jesu. La devozione al Sacro Cuore di Gesù, Pessano: Mimep Docete,
s.d., pro manoscritto.
Accade spesso di sentir parlare di crisi religiosa nel mondo.
L’umanità si attacca disperatamente al materialismo e non comprende che in
esso non è la salvezza, ma al contrario il peso che la sommerge.
Simile situazione ci ha fatto forse sognare conversioni di masse. Eppure rimane sempre
ferma la verità generale: la santità è un impegno interamente
personale. Il cattolicesimo viene ad essere la storia di questo «corpo a corpo»
tra Gesù Cristo e ogni cattolico.
In questo «corpo a corpo» ha una speciale azione la Chiesa. Non è
una vuota espressione chiamare la Chiesa: «nostra Madre». Essa lo è
realmente e per molti titoli. Essa ci ha dato alla luce nel Battesimo e nelle sue
braccia riposiamo fino alla morte. Nella vita soprannaturale è caratteristico
il fatto del frutto che rimane unito al suo principio e che aderisce sempre più
intimamente ad esso: come il Verbo eterno generato dal Padre rimane in esso (cfr.
Gv. 15, 4 ss). Nella vita di perfezione quanto più la personalità progredisce
e matura, tanto più dipende dai suoi principi: Cristo e la Chiesa. Nel massimo
della sua unione con la Chiesa, sua Madre, il cattolico si identifica in qualche
maniera con il Cuore stesso della Chiesa, con Cristo.
Se si vuol trovare una soluzione alla crisi religiosa del mondo occorre cercarla
nella realizzazione di queste relazioni soprannaturali.
Dalle verità rilevate da Cristo ed insegnateci dalla Chiesa, ci appare essenziale
per la nostra vita soprannaturale l’unione con Gesù Cristo. La vita soprannaturale
infatti è una realtà in noi, solo dal momento in cui Gesù Cristo
vive in noi. Questa vita è la grazia.
Attraverso il Battesimo siamo già uniti a Cristo in unione misteriosa, che
l’Apostolo con enfasi ci descrive nel dire: «Tutti voi che siete stati battezzati
in Cristo, siete rivestiti di Cristo» (Gal. 3, 27). Gesù Cristo prende
possesso di noi. Noi siamo tutti una persona mistica in Gesù Cristo. Se poi
viviamo in grazia, allora noi siamo ancora più intimamente uniti a Gesù
Cristo per la virtù infusa della carità. Uniti, per dir così,
al Cuore di Cristo. Penetriamo in tutta verità nella familiare ed intima confidenza
con la sua Persona.
È necessario che nella nostra fede prendiamo coscienza di questo fatto, e
che conseguentemente sviluppiamo sempre più la nostra unione con Gesù
Cristo fino alla maggiore intimità possibile. E se ciò avvenisse in
ogni cattolico, tutti verrebbero ad unirsi più strettamente tra di loro nel
medesimo Cristo Gesù (Gal. 3, 28).
Per ottenere ciò abbiamo un potente mezzo: la devozione al Cuore di Gesù.
Essa infatti ha grande efficacia nel darci la coscienza della unione di Cristo con
noi, della nostra vitale relazione con Lui, e di conseguenza nell’eccitare il nostro
amore per Lui e nello stringere la nostra unione con Lui. Pio XI scrisse: «Non
è forse vero che in questa forma di devozione è contenuta la somma
di tutta la religione e con essa una norma di vita più perfetta? Infatti più
speditamente conduce le anime a conoscere intimamente Cristo e le spinge ad amarlo
con più veemenza e ad imitarlo con più efficacia» (Miserentissimus).
Le cause che contribuiscono ad una tale efficacia nella devozione al Cuore di Gesù
sono due: la sua essenza e le promesse che Cristo ha ad essa vincolate.
Non vogliamo occuparci adesso delle promesse. Il nostro intento è indicare
come la stessa essenza della devozione al Cuore di Cristo la costituisca così
efficace per la formazione del cattolico, per la sua santità e perfezione.
ALCUNE IDEE SBAGLIATE E LORO CAUSE
Gli ultimi Papi -ne fanno fede numerosi documenti pontifici
(Cfr. Enciclica «Annum Sanctum» di Leone XIII; Enciclica «Miserentissimus
Redemptor» di Pio XI; Enciclica «Haurietis Aquas» di Pio XII.)
– hanno insistito perché il popolo cristiano abbracciasse la devozione al
Cuore di Cristo.
Chi potrebbe dubitare della sincerità di tali raccomandazioni?
In pratica però quante difficoltà verso la devozione.
Prendiamo un giovane: basta che senta parlare di devozione al Sacro Cuore, perché
si rinchiuda sulla difensiva. Quelli che poi, vinta la prima opposizione, abbracciano
la devozione, vi si trovano a loro agio? O non sentono forse la necessità
di cambiare costantemente la propria posizione, proprio come si fa con una macchina
da cui si sperava un efficienza che non si riesce ad ottenere? Forse noi stessi abbiamo
provato un tale disagio. Non è quindi fuor di luogo domandarsi: l’opposizione
iniziale e la difficoltà che permane provengono dagli elementi essenziali
della devozione, oppure siamo davanti ad elementi accessori che disturbano e rendono
più debole la vera devozione!
La risposta sembra essere che la causa principale della opposizione sia dovuta ad
errori nell’esposizione. Si propone infatti talvolta, come vera devozione, solo ciò
che è un adulterato miscuglio. Quanto poi alla difficoltà essa non
va tanto contro la devozione al Cuore di Cristo, quanto contro una deformazione della
medesima.
Eccone la spiegazione.
1 – Il fatto della opposizione
La parola è segno del pensiero. Quando però
è pronunciata non ci esprime solo il pensiero puro, ma insieme ci connota
le altre molteplici esperienze affettive che sono ad essa associate. Questa sembra
essere la ragione dei frequenti malintesi nella devozione al Cuore di Cristo. Per
convincersene basta pensare a ciò che avviene.
Nel cuore di un giovane, che ha ardentemente lavorato per il Regno di Cristo, si
è andata formando una personalissima immagine di Gesù Cristo. Per lui
la parola stessa «Gesù» è intimamente legata alle fasi
più personali della sua vita. Il sentirsi proporre adesso il termine «Sacro
Cuore» provoca in lui quasi inevitabilmente una disillusione: gli sembra che
gli venga distrutto il suo Gesù e con Lui una parte stessa della propria vita.
Egli non è disposto a sostituire Cristo con il «Sacro Cuore».
Questo termine evoca infatti in lui delle associazioni affettive sgradevoli e senza
vita: forse vede davanti a sé immediatamente quelle solite vecchiette bisbiglianti
preghiere in una oscura cappella, illuminata dalla luce delle candele davanti ad
un quadro… la cui immagine rispecchia una sdolcinatezza che gli ripugna istintivamente.
Se poi si aggiunge a questo una impostazione esterna, che gli dà ad intendere,
che se non abbraccia tale devozione non compie i desideri e gli ordini della Chiesa,
né merita le straordinarie grazie promesse a questa devozione, è facile
che un tal giovane rimanga, forse per sempre, come una personalità sdoppiata
e divisa. Il difetto di assimilazione appare poi lungo tutta la vita. Una vita che
per quanto riguarda il Sacro Cuore si muove con atti forzati. Un uomo che con un
semplice cambio di attenzione si converte in una doppia personalità: spontaneo
e naturale nella vita ordinaria, artificiale ed impacciato a causa del «Sacro
Cuore» nella vita di preghiera e di apostolato specifico. Da qui la mancanza
di accordo ed i sempre ripetuti sforzi per ottenere una maggiore efficacia e rendimento
della devozione.
Questi i fatti che l’esperienza ci mostra.
Gesù non propose la devozione ai santi favoriti dalle
sue rivelazioni con sottili distinzioni scolastiche sugli elementi essenziali e quelli
accidentali. Egli la introdusse lentamente e passo passo nella devozione nel modo
con cui quel determinato santo avrebbe dovuto praticarla. In questa pratica e dottrina
globale si trovano a volte mescolati elementi essenziali e accidentali. I documenti
che i santi ci hanno lasciati sono necessariamente coloriti dalla loro personalità;
come l’acqua che passa attraverso un filtro impregnato di materia colorante riceve
da esso il suo colore.
Alcune di queste colorazioni personali, sottolineate e tolte dal contesto da certi
devoti del Sacro Cuore, sono ciò che la rende per molti irta di difficoltà,
e ciò che invade certe immagini che sono in uso. Queste immagini ed i loro
devoti sono alla base delle associazioni affettive che abbiamo scoperte come unite
al. termine: «Sacro Cuore».
Il compito degli apostoli del Sacro Cuore avrebbe dovuto essere quello di analizzare
i documenti dei santi favoriti dal Cuore di Gesù, e purificarli da ogni mistura
meramente personale, quelli che si devono realizzare in ognuno dei veri devoti. Quindi
applicare tali elementi essenziali al carattere personale della persona concreta.
Tale compito non è però facile.
Sono quindi da scusarsi quegli apostoli che nel loro lavoro non hanno sempre e in
tutto raggiunto il vero scopo.
Al nostro tempo Gesù Cristo stesso è venuto incontro a noi per porre
in risalto chiaramente gli elementi essenziali: essi sono proposti nelle encicliche
pontificie. Non vi sarebbe scusa se seguitassimo ad inciampare nelle medesime difficoltà,
se non ci sforzassimo di liberare la devozione dalle oscurità che le si sono
venute mescolando. Leggendo le Encicliche ci convinceremo che la devozione al Cuore
di Cristo è la quintessenza della religione: ciò che suppone una vita
intera.
CAPITOLO III
LA VERA DEVOZIONE
La vera devozione al Sacro Cuore è una norma direttiva
di vita, una nuova concezione della vita e del mondo. Essa impegna l’intera vita
di un cattolico. Esercita la sua influenza su di essa mostrando e scoprendo delle
nuove possibilità e tendendo a trasformarla, col tempo, in un nuovo modo di
vivere. È un modo di concepire la vita che si adatta benissimo al nostro tempo.
L’immagine del S. Cuore non è affatto la cosa più importante. Ciò
che è il più importante è il concetto della vita del Cattolicesimo.
Basterebbe che con la grazia di Dio noi comprendessimo in che consiste la devozione
al Cuore di Cristo, e da quel momento forse la visione del mondo intero cambierebbe
ai nostri occhi.
1 – Concezione immanente del
mondo
Il mondo oggi vive solo per il proprio interesse. È
talmente preso dai piccoli interessi della vita materiale che non ha nemmeno il tempo
di pensare a Dio e di occuparsi della vita soprannaturale.
Tutto ciò che accade durante il giorno si guarda con occhio puramente umano,
sempre e solo nei limiti della materialità. Ci si preoccupa solo di quello
che può mettere in pericolo la propria vita e le proprie comodità.
La ricerca di una soluzione dei problemi sociali è vista come una questione
economica, ed in fondo, e troppo spesso, preoccupa i ricchi solo in quanto costituisce
un pericolo per la loro comoda vita, ed i poveri in quanto tocca il loro benessere
materiale. L’arte, la musica, lo sport: tutto si guarda sotto la stessa luce.
Per convincerne basta dare un’occhiata ai giornali.
Si prova compassione per tutto e per tutti, ma la compassione dei giornali è
effimera come la curiosità, e quella dei lettori non dura forse quanto dura
il giornale.
Ogni tanto, anche in questo mondo così interessato, gli uomini si ricordano
di Dio. Forse vanno a Messa, per qualche istante vivono della vita soprannaturale,
ma ben presto ritornano alla vita mondana.
Viviamo troppo presi dai nostri affari. Dio sta in cielo, lontano, molto lontano,
si pensa, e ricorriamo a Lui solo qualche volta per domandargli la salute ed il successo
delle nostre cose.
Il pericolo maggiore del momento presente è la separazione tra la religione
e la vita. La religione nel pensiero o nel cuore per qualche momento; il resto per
la vita, gli affari, il proprio comodo.
Gesù Cristo, poi, dalla maggior parte degli uomini è considerato come
un grande uomo, un eroico benefattore dell’umanità, esistito duemila anni
or sono… ma che adesso è lontano da noi.
Riguardo poi al peccato gli uomini non hanno idee chiare. Anche molti cattolici lo
considerano spesso solo come una trasgressione della legge di Dio, messa per lo più
allo stesso livello o un po’ più nel vago, di una trasgressione delle leggi
dello stato. Si considera cioè solo come una disobbedienza ad un ordine che
ci è imposto e ci opprime. Dio rimane sempre al di fuori, troppo lontano perché
Lo si possa raggiungere.
2 – La rivelazione del S. Cuore
per me
Nel mondo ora descritto ecco comparire la devozione al S.
Cuore, come un bagliore che illumina e ci mostra il significato profondo delle cose.
Come all’improvviso, il mondo cambia ai nostri occhi. Si ha la percezione che qualsiasi
azione morale ha un senso molto più profondo, che non possiamo scherzare con
la nostra vita di santità, che siamo uniti a Gesù Cristo in intima
relazione.
Si stava proiettando un documentario Lo spettacolo era già cominciato quando
entrai. Si vedevano le mani di un chirurgo muoversi, usare bisturi, pinze… Evidentemente
Si trattava di una operazione. Mi sedetti tranquillamente. Guardandomi attorno notai
però con stupore che gli altri spettatori quasi non respiravano dall’emozione.
Volsi di nuovo lo sguardo allo schermo ed ebbi la spiegazione di tutto. Il quadro,
preso da un punto più alto, mostrava che il chirurgo stava facendo un’operazione
al cuore Anch’io da quell’istante trattenni il respiro. Un pensiero, forse quello
stesso che faceva stare tutti in ansia, mi assalì. La più piccola distrazione
o inavvertenza del chirurgo sarebbe stata pagata con la vita di quell’uomo.
Prima avevo guardato con indifferenza e freddezza le diverse azioni di quel chirurgo:
erano scene singole delle quali non avevo afferrato l’importanza. Improvvisamente
una di esse mi scoprì il significato di tutta quella attenzione e l’importanza
della cosa che veniva svolgendosi sotto gli occhi degli spettatori ansiosi.
Il documento proseguì illustrando ulteriori particolari tecnici, che ho dimenticato.
Mi è rimasto però impresso per sempre il significato che avevano assunto
quei movimenti che in un primo tempo avevo guardato con aria indifferente.
In mezzo a questo mondo le cui azioni non sembrano aver valore alcuno appare davanti
a noi come un richiamo: «Tutto ciò è una operazione al Cuore
di Cristo».
Certo ogni cosa aveva questa conseguenza prima ancora che mi si svelasse questa devozione,
come quell’operazione si effettuava realmente al cuore, prima ancora che io ne avessi
preso conoscenza. Ora so che è una realtà e «per me» il
mondo ha totalmente cambiato aspetto.
Questa concezione del mondo può arrivare a trasformare completamente un uomo.
Questa grazia molto grande, che non dovremmo mai stancarci di chiedere nella preghiera;
grazia che consiste nella rivelazione del Cuore di Gesù a noi, non in una
visione soprannaturale, ma nell’intima convinzione di questa profonda realtà.
È una rivelazione del Sacro Cuore a me, singolo membro del suo mistico Corpo.
Visione uguale a quella che ebbero gli Apostoli. Stavano nel cenacolo a porte chiuse,
così come forse viviamo noi, chiusi in una gretta osservanza delle leggi di
Dio e della chiesa. Improvvisamente Gesù Cristo compare in mezzo a loro e
con la sua presenza dice loro: «Perché mi avete dimenticato? Non sapevate
che io sono vivo? Perché mi considerate morto? Ho ancora parte nella vostra
vita. Sono vivo: guardate le mie mani e il mio cuore».
Grazia uguale a quella che ebbe S. Paolo sulla via di Damasco. Anche Paolo aveva
idee anguste, farisaiche riguardo al mondo governato dalle Leggi della Torà.
Gesù Cristo gli appare, vivo e vero, e gli fa comprendere il profondo significato
del suo agire e del mondo intero: «Io sono quel Gesù che tu perseguiti».
Chiediamo a Dio che ci conceda questa grazia.
Domandiamo al Cuore di Cristo che ci si mostri così: come una fiaccola d’amore
che brilla attraverso la ferita che la nostra ingratitudine ha aperto. La luce di
questa fiaccola opera nel piano soprannaturale come dei raggi X. Il mondo cambia
ai nostri occhi dal momento che ci è mostrato il fine delle cose e delle azioni:
sia nei nostri riguardi, sia, soprattutto, riguardo a Gesù.
Da questa luce e da questa visione inizierà per noi un genere di vita nuovo.
Infatti per l’anima in questo mondo altro non esiste che se stessa e Gesù:
le altre anime e le altre cose tutte esistenti, essa deve considerarle unicamente
attraverso Gesù Cristo ed in quanto le conducono a Lui.
3 – Punti fondamentali della
devozione al S. Cuore
Ci sembra che la rivelazione a noi del Cuore di Cristo e
il suo significato si possa racchiudere in due principi, dai quali deriva una norma
di azione racchiusa nei concetti di Consacrazione e di Riparazione in unione al sacrificio
di Cristo.
Esporremo tutto ciò in breve per farne poi nei capitoli seguenti una analisi
più estesa.
Devozione al S. Cuore significa dare a Cristo il posto che
Gli spetta nel mondo e nella nostra vita. Perché Gesù non può
essere sostituito, anche con la figura del più grande santo e con la Madonna
stessa. Cristo personalmente continua a reclamare da noi un amore assoluto come lo
esigeva nella sua vita.
Il Cattolicesimo, come ce lo presenta la devozione al S. Cuore consiste precisamente
non solo nell’evitare il peccato ma in un dialogo continuo con una persona viva Gesù
Cristo, che ci è molto vicino, più vicino di quello che possiamo immaginare.
Più un cattolico è perfetto, più diviene profonda questa attitudine
di umile attenzione a Cristo che gli parla costantemente sia direttamente che indirettamente
per mezzo dei suoi rappresentanti.
Questo concetto della vita ci mostra che tutto proviene da Gesù che ci ama,
al momento presente. Non ci amò solamente nella sua vita mortale fino a dare
il suo sangue per noi, ma oggi e adesso pensa continuamente a noi, a te.
La realtà della grazia è una realtà di oggi ed è Gesù
Cristo che ad ogni momento sceglie ed invia le grazie che ognuno di noi riceve.
Le nostre azioni sono o una gioia o una vera ferita al Cuore
di Cristo. Non solo perché nella sua vita mortale Egli le vide tutte e Gli
furono causa di gioia e di dolore, ma anche perché adesso Gesù Cristo
ne risente.
Ora Gesù non può più soffrire nel Suo corpo fisico, può
invece gioire e godere. Ogni azione buona Gli reca un piacere. Si rallegra nel vedermi
entrare in una chiesa come farebbe un amico a cui facessi visita.
I nostri peccati invece, benché non possano in Lui causare dolore alcuno,
dato che Egli è per la sua glorificazione impassibile, sono però oggetto
della sua intima compassione; e una vera ferita è perciò causa di sofferenza
per il suo Mistico Corpo. Noi che apparteniamo alla chiesa cattolica siamo una sola
cosa, e le azioni di ognuno di noi influiscono sull’intero Corpo Mistico. Dio ha
voluto che dalla nostra perfezione dipendesse la salvezza di molte anime.
Il peccatore ha perso per la vita soprannaturale ogni diritto e non ha nemmeno la
possibilità di esprimere un desiderio efficace di essere liberato dal peccato.
Un tale desiderio è frutto infatti della misericordia divina e Dio può
far dipendere la concessione di questa grazia dalle nostre preghiere e opere buone.
Dio non invia alla Sua Chiesa molte grazie perché i nostri peccati realmente
glielo impediscono. Il corpo Mistico soffre realmente dei peccati di ognuno di noi.
L apparizione sulla via di Damasco non era un semplice simbolo.
Il Cuore di Cristo ferito ci mostra questa vera sofferenza. Non solo i dolori che
patì durante la sua vita sulla terra, ma anche quelli attuali nel Suo Corpo
mistico, e il suo sentimento di attuale compassione per i peccati e le sofferenze
delle sue membra. Alla luce di questo concetto possiamo vedere adesso meglio quale
dovrà essere il nostro modo di corrispondere.
Illuminata dal Cuore di Cristo ogni cosa, sia essa piacevole
o meno, ci appare in ultima analisi come proveniente sempre dall’amore di Cristo,
ogni umana azione ci si mostra come indice dello stato dei nostri rapporti con Cristo:
risposta negativa o positiva nel nostro colloquio con il Figlio di Dio.
Dobbiamo conservare questa convinzione in ognuno dei nostri giorni, e vivere di questa
visione. Così le notizie riportate dai giornali ci appariranno in ben diversa
luce. Quante sofferenze nel Corpo mistico! Leggendo per esempio che vi è guerra
e che un paese è stato distrutto, spontaneo sorgerebbe il pensiero di Gesù,
vivente nei nostri fratelli, che è sepolto con essi sotto le macerie.
Se noi fossimo veramente convinti di ciò, se avessimo questo grande amore
a Gesù Cristo ci sarebbe quasi impossibile dimenticarlo. Non saremmo capaci
di passare davanti ad una chiesa e di non entrare a salutarLo, come del resto riterremmo
psicologicamente impossibile comportarci così con nostro fratello.
Quando avremo trovato il valore di tutte le cose di questo mondo, avremo trovato
il valore di tutte le cose di questo mondo, avremo capito innanzi tutto il valore
della nostra esistenza. Motivo del nostro agire ci apparirebbe, quale in realtà
è, il dare una risposta positiva a Gesù Cristo arrecandogli così
una nuova gioia.
Apparteniamo al Signore: «Sia che viviamo, sia che
moriamo, siamo del Signore» (Rm. 14, 8).
Convinti di ciò dobbiamo offrirci al Signore: «Prendi e ricevi le mie
azioni e la mia persona; disponi di tutto me stesso per la tua gloria». Realizzeremo
così la nostra Consacrazione come la cosa più naturale. Ci sarà
più facile psicologicamente l’evitare il peccato che può offenderlo,
giungendo così a vivere la Riparazione negativa. Ci sentiremo spinti ad amare
Cristo e a servirlo in modo da compensare la dimenticanza di tanti uomini, realizzando
così la Riparazione affettiva. Sapremo dare uno scopo alle nostre difficoltà
e sofferenze offrendole a Cristo in riparazione dei nostri peccati e di quelli degli
altri, attuando lo spirito di riparazione afflittiva, in unione al sacrificio di
Cristo in Croce che si rinnova quotidianamente sugli altari.
La consacrazione assume così un aspetto di riparazione e la riparazione compenetrandoci
sempre più a Gesù Cristo completa e perfeziona la nostra consacrazione
stessa.
Per la nostra unione con Cristo, Egli vive in noi e noi siamo le sue immagini nel
mondo, i testimoni della sua presenza nella Chiesa. Dopo esserci offerti con Cristo
nella Messa, ed esserci uniti al Suo sacrificio, Egli viene a noi nella Comunione,
per trasformarci in Sé. Ecco lo scopo del nostro intimo rapporto con Cristo:
trasformarci in Lui per essere sempre più e sempre meglio i suoi visibili
rappresentanti. La nostra trasformazione in Gesù Cristo deve infatti trasparire
nelle nostre azioni esterne; la nostra vita deve essere una visibile rivelazione
che indichi agli uomini il valore delle cose e del mondo intero. Gli uomini devono
finalmente accorgersi che noi siamo veramente morti a noi stessi ed al mondo della
corruzione affinché Cristo viva in noi.
Abbiamo esposto in breve la devozione al Cuore di Gesù. Essa è composta
di vari gradi e gli ultimi, i più perfetti fra questi, possono essere dei
grandi mistici.
Ammiriamo la ricchezza di questa devozione per saper poi distinguere fra pii esercizi
e usuali preghiere, cose delle quali non si vuol negare la necessità e l’utilità,
ma che non sono affatto la devozione al S. Cuore.
Preghiamo con fervore Dio, Padre nostro e Padre di Cristo, che si degni di concederci
la grazia di avere una personale rivelazione del Cuore di Gesù, nel senso
sopra spiegato, in modo che noi sappiamo realizzare nella nostra vita una reale devozione
quale è voluta dal Padre, e amata dal Cuore del Figlio.
«Nessuno conosce il Figlio all’infuori del Padre» (Mt. 11, 27). Domandiamogli
che ci comunichi questa conoscenza, con le parole dallo Spirito Santo ispirate a
S. Paolo: «Piego le ginocchia davanti al Padre del Signor nostro Gesù
Cristo… affinché Egli dimori nei (vostri) cuori per mezzo della Fede…
radicati e fondati nell’Amore». (Ef. 3,14).
CAPITOLO IV
GESÙ CRISTO MI AMA ADESSO
È troppo breve una vita umana per conoscere il mistero
di Gesù: un Dio Uomo. Il Verbo eterno consostanziale al Padre da cui riceve
l’identica natura, si fa uomo… Un essere umano, che percorre inavvertito la Galilea,
è nello stesso tempo unito alla divinità.
Chi di noi può anche solamente sfiorare questo mistero? Questa Persona possiede
tutti gli attributi divini: Onnipotenza, Sapienza, Bontà, Misericordia, Giustizia…
Sostiene il mondo nelle sue mani e al tempo stesso si siede sull’orlo di un pozzo,
perché è «stanco» (Gv. 4, 6). Vero Dio e vero Uomo.
Sarebbe troppo lungo delineare qui un ritratto di Gesù Cristo. Prendiamo i
Vangeli: «ciò che di meglio si è scritto su Gesù»…
Ma se è abbastanza facile arrivare ad una conoscenza intellettuale di Cristo,
più difficile è possederne quella conoscenza fatta di ammirazione e
di amore, che ci introduce nelle file dei suoi seguaci. Non basta però provare
ammirazione per Lui, occorre fare un passo avanti. È bello che un uomo cominci
ad interessarsi di Gesù Cristo; è cosa migliore che in Lui veda il
più grande personaggio della storia dell’umanità; se poi riesce a vedere
in Lui l’Uomo-Dio, è già penetrato nella verità; gli manca però
ancora una cosa: ossia comprendere che questo Uomo-Dio è un suo amico. In
altre parole: se, considerando la vita del Signore e la sua grandezza, giungiamo
a provare ammirazione per Lui, dobbiamo, come Zaccheo, saper scorgere Gesù
che tra la moltitudine viene verso di noi, ci chiama per nome e chiede con insistenza
la nostra amicizia: «Zaccheo, presto scendi perché oggi (ogni giorno)
devo fermarmi in casa tua» (Lc. 19, 5).
E questo non è un sogno, ma una autentica realtà, perché Gesù
Cristo mi ama adesso, più di quanto io ami me stesso, e così come sono:
pieno di miserie.
1- Gesù Cristo mi amò nella sua vita mortale
Gesù, fin dal suo concepimento, possedeva nella sua
natura umana la visione beatifica. È verità certa questa. Ora in questa
visione Egli ci ha veduti con ogni nostro pensiero.
Per questo, quando noi ricostruiamo nell’ immaginazione i fatti della vita di Gesù,
possiamo con aderenza alla realtà vedere noi stessi insieme agli spettatori.
Lo sguardo di Cristo, fuori dai limiti dello spazio e del tempo, vedeva la nostra
reale esistenza, il nostro corrispondere, il nostro reagire, gli affetti e i desideri
che avremmo provato nel meditare la sua vita. Certo ci ebbe davanti quando pregando
disse: «Non prego solamente per essi, ma anche per tutti coloro che nella loro
parola, credono in Me». (Gv. 1 7, 20).
Ognuno di noi può, dunque, dire: Gesù pensava continuamente a me; fine
esplicito della sua vita fu la mia istruzione, la mia redenzione. Egli ha istituito
la Chiesa e tutti gli elementi che la compongono, per me in particolare, per amor
mio, e pensando espressamente a me, così come mi ha anche donato la sua Ss.ma
Madre, dicendo: «Ecco tua Madre», altrettanto devo pensare del Papa,
dei Sacramenti… quasi che io solo dovessi da essi trarre profitto.
Fine dei Sacramenti e della Chiesa è di comunicarci
e sviluppare in noi la vita della Grazia, la nostra unione con Gesù Cristo.
Egli dà realmente i suoi doni (la Chiesa ecc.) per poi darci Se stesso, nell’unione
più intima che possiamo immaginare.
«Gesù Cristo è la vita nostra» (Col. 3, 4) non solo nel
modo in cui è un Legislatore nella comunità che governa, ma in un senso
molto più vero.
Nel Battesimo siamo stati generati da Cristo… «da Dio sono nati» (Gv.
1, 13). E generazione comporta produzione di un essere vivente da un altro vivente
a lui congiunto per la stessa natura. Il figlio assomiglia al padre. Così
avviene anche nella vita soprannaturale.
Gesù Cristo imprime in noi nel Battesimo un «carattere»: una «somiglianza
con Lui»: somiglianza fondamentale e radicale, che trova la sua perfezione
nella vita della Grazia. Non sono le nostre buone azioni che ci rendono in primo
luogo simili a Cristo. Anzi è proprio perché assomigliamo a Cristo,
che dobbiamo imitarlo, vivere come richiede la nostra condizione. Esigenza questa
del nostro essere stesso che tende sempre ad esprimersi e svilupparsi secondo la
sua natura.
Nel nostro agire come figli di Dio non si tratta di una rappresentazione teatrale,
in cui dobbiamo fare la parte di re, che in realtà non siamo. Nel caso nostro
siamo fatti re e di conseguenza come tali dobbiamo agire. Non si tratta però
di divenire come i re di questo mondo: il che non importa cambiamento nella natura
umana. L’essere figlio di Dio eleva veramente la natura umana, perfezionandola molto
più di quanto essa potrebbe farlo da sola con qualsiasi virtù e ascesi
puramente naturale.
Nè siamo solamente simili a Cristo, ma Cristo è la nostra vita. Esaminate
voi stessi, per vedere se-siete nella fede, fate saggio di voi stessi. Non riconoscete
da voi medesimi che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate proprio
riprovati (II Cor. 13, 5). La vita nostra è una partecipazione della vita
stessa di Cristo: «Io sono la vite, voi i tralci», «Senza di me
non potete far nulla (Gv. 15, 5).
«Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me»
(Gal. 2, 20). «perché voi siete morti e la vostra vita è nascosta
con Cristo in Dio» (Col. 3, 3). E la nostra vita è una unione sempre
più intima con Cristo: «Rimanete in me e io in voi» (Gv. 15, 4).
«E la nostra comunione è col Padre e col Figliolo di Lui, Gesù
Cristo» (1 Gv. 1, 3)
Tale unione con Cristo ci sostiene in grazia, anzi ce l’accresce e ci rende sempre
più simili a Lui: «Figlioletti miei, che porto nel mio seno, finché
in voi non sia formato Cristo» (Gal. 4,19) «finché non arriviamo
tutti alla misura dell’età piena di Cristo» (Ef. 4,13)
Unione trasformante che si estende non solo all’anima, ma perfino al corpo: «Voi
siete il tempio del Dio vivente» (2 Cor. 6,16). «Non sapete voi che il
vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che in voi è dato da Dio,
e che non appartenete a voi stessi?…» «Glorificate e portate Dio nel
vostro corpo» (1 Cor. 6,19, 20).
Il nostro corpo consacrato e unto prima nel Battesimo e poi nella Cresima, è
divenuto tempio dello Spirito Santo, ed è perciò santo anch’esso. Volendo
usare un ardito paragone: il corpo di un cristiano si differenzia da quello di un
pagano, analogamente come un’Ostia consacrata differisce da una non consacrata. Nei
due casi l occhio umano non percepisce alcuna differenza, ma questa in realtà
esiste.
Proprio perché il nostro corpo è santo noi risorgeremo gloriosi con
esso e con esso saremo assunti con Cristo. Così è già avvenuto
per la nostra Madre assunta in cielo.
Quando gli uomini hanno sepolto un altro uomo, dopo qualche tempo non si preoccupano
più del suo corpo. Solo Gesù, che ardentemente desidera glorificare
le sue membra pensa ancora al nostro corpo: «Affinché la vita di Gesù
si manifesti nella nostra carne mortale» (Il Cor. 4,10).
Per conservare ed aumentare questa unione e somiglianza con Lui, che raggiunge il
corpo stesso, Gesù Cristo ci dà per alimento il Suo Corpo e il Suo
Sangue: «Come il vivente Padre mio inviò me e io vivo per il Padre,
così chi mangia di me, vivrà per me» (Gv. 6, 58).
Cristo non organizzò la sua Chiesa in generale. Non morì, né
istituì i Sacramenti per una massa ignota, dicendo: «Esista un Battesimo
che come una macchina produca dei figli di Dio che si uniscano a me». Egli
non ha dimenticato tutto, dal momento che è salito col corpo risorto nella
gloria del Padre. Sarebbe assurdo il pensarlo, sarebbe quasi totale ignoranza della
vita soprannaturale. Questa è infatti una relazione tra persone intelligenti
e amanti. Gesù Cristo realizza coscientemente la sua unione con ogni uomo
in grazia di Dio. La sua natura umana prova la gioia e l’emozione di una nuova amicizia.
Coscienza e amore che sussistono in ciascun momento della sua unione con noi e accompagnano
uno per uno i favori che Egli ci fa. Egli ha coscienza della sua vita e di quella
che dà agli altri. Non ci è lecito pensare quello che l’emorroissa
pensava quando cercava di rubargli un miracolo…
3 – Tutto ci viene dall’amore di
Gesù
Le varie circostanze in cui la nostra vita si muove, non
sono dovute al caso: Dio le richiede per la nostra santificazione. Esse sono un aiuto
per ottenere le grazie meritateci da Gesù Cristo e provengono dall’amore personale
di Cristo per noi. Per Lui non esiste la massa: ci conosce personalmente e nella
nostra individuale santità.
Ciò è vero, sia quando si tratta di circostanze naturali piacevoli:
gioie familiari, successi professionali…, sia quando si tratta di grazie spirituali:
fervore e grazie nella preghiera…, ma anche nelle croci e nelle difficoltà
che Ci Si presentano. Tutto ciò che ci accade ci viene elargito dalle mani
trafitte di Gesù, che pesa tutto sulle ferite del suo amore, dandoci solo
ciò che vede essere la cosa migliore per noi, insieme alle grazie necessarie
per sopportarla. È evidente che non prova gusto nel vederci soffrire, e non
permetterà che spargiamo lacrime senza motivo. Quando ci invia difficoltà,
Egli ci ama ancora di più, perché allora Egli stesso porta la pena
di vederci soffrire. E lo fa solo perché è cosciente che quelle difficoltà
sono un bene per noi in quel momento.
La delicatezza dell’amore di Cristo per noi non è stata lontana da noi nemmeno
durante i nostri peccati: in quei medesimi istanti Egli aveva cura di noi: per non
farci precipitare più in basso, per fermarci in tempo e per conservarci la
possibilità di amarlo più perfettamente per tutta la vita. Questa è
la realtà. Tutte le grazie attuali che Gesù distribuisce ad ogni momento,
le distribuisce con piena coscienza di ciò che fa. «Senza di me non
potete far nulla» disse Gesù. Dunque ognuno di noi dipende da Lui, come
la Chiesa tutta. Tale dipendenza in Cristo, cosciente ed amorosa, richiede che noi
viviamo per lui, solo per Lui, nella misura delle grazie che ci sono state concesse:
«Secondo la misura del dono di Cristo» (Ef. 4, 7).
Dobbiamo domandare la grazia di sentire nell’intimo dell’anima questa verità,
alla luce della fede, affinché divenga per noi una norma di vita. Vedere Gesù
Cristo nei suoi doni, che non sono altro che la sua presenza in noi ed una partecipazione
delle sue perfezioni. In questo modo anche i dolori più difficili che dovremo
sopportare si trasformeranno ai nostri occhi in un misterioso segno dell’amore di
Cristo.
Il Padre Raffaele Reyes insegnava lettere in un seminario. Era ancora giovane quando
rimase cieco e così non poté essere ordinato sacerdote. Se al mondo
vi sono delle dure prove, tra queste non sono le più piccole il divenire ciechi
e il dover rinunciare al sacerdozio per chi ne ha ricevuto e abbracciato la vocazione
Ma Raffaele Reyes che viveva fortemente la realtà del suo intimo dialogo con
Cristo, scrisse in quella occasione una poesia meravigliosa. In essa diceva: «Quando
ero piccolo mia madre era solita avvicinarmisi di nascosto, mettermi le mani sugli
occhi, per domandarmi poi: «Chi è?». Io, che la riconoscevo, rispondevo
abbracciandola:
«Sei la mia mamma!». Ora sono ormai grande e sei venuto tu, Dio mio,
e mi hai posto le mani sugli occhi e mi chiedi: «Chi sono?». Io riconosco
la tua voce e le tue mani e rispondo: «Sei mio Padre!» E il mio desiderio
è che Tu ritiri le tue mani, affinché io possa contemplare il Tuo volto
e abbracciarti per tutta l’eternità».
***
Così dovremmo poter dire anche noi durante la nostra
vita, specialmente nei giorni di interiore oscurità, di angustie, di croci.
«Sei tu, o Gesù, il mio amico. Desidero solo vedere il Tuo volto. Ti
vedano i miei occhi, o Gesù buono…» E quando le tenebre divenissero
più intense e noi non sapessimo guidare l’anima nostra, dovremmo con maggiore
fiducia gettarci tra le sue braccia supplicandolo: «Guidami tu, Signore. Io
non ci vedo più e la notte s’avanza. Mio Dio… Tu solo sei la Luce».
4 – Gesù mi ama così come
adesso sono
Noi siamo un risultato di tutta la nostra vita e di tutto
il nostro passato, delle nostre qualità e difetti, del nostro carattere, delle
nostre infedeltà e peccati passati.
Gesù ama sì il nostro «Io» ideale, ma anche la sua reale
attuazione: «Egli sapeva che cosa ci fosse nell’uomo» (Gv. 2, 25)
Forse noi non siamo soddisfatti di noi stessi perché ci vediamo troppo al
disotto dell’io elevato che nel nostro orgoglio sogniamo. Forse per questo cerchiamo
di occultare a noi stessi ciò che siamo quando ci mettiamo in preghiera, come
se in realtà non continuassimo sempre ad essere quegli uomini deboli e peccatori
che siamo… Forse il ricordo delle nostre infedeltà ci turba e costituisce
per noi un tormento: «Perché ho commesso tanti peccati e così
gravi?»
Ma attenzione, non sempre questa domanda nasce in noi dall’amore di Cristo, anche
l’amor proprio e l’orgoglio sanno produrre un simile frutto. E se ne vogliamo la
prova, domandiamoci: i peccati degli altri, producono in noi un eguale dolore? E
non sono forse anch’essi offese a Cristo’
Il ricordo del passato costituisce spesso per molti buoni un problema psicologico.
Non perché dubitino di essere stati perdonati, ma per il pensiero delle tante
occasioni in cui non sono stati fedeli a Cristo. Così il passato infedele
è per alcuni un peso morto che trascinano per tutta la vita.
Ma non bisogna preoccuparsi. Cristo ci ama così come siamo, con il nostro
passato. La prova più grande di amore verso di Lui è fidarsi di Lui,
accettare la vita passata così come è stata ed esserGli veramente riconoscenti
di aver permesso quei peccati che ora servono a mettere le basi della nostra umiltà.
Non dobbiamo turbarci per i peccati passati. dobbiamo detestarli, e preferire la
morte prima di commetterne altri. Ma dobbiamo ringraziare Gesù che li ha permessi.
Nessuno può voler servire Cristo solo con la condizione che Egli ne faccia
un capolavoro di giustizia, ove risplenda solo l’innocenza. Dobbiamo esser contenti
che Egli faccia di noi un capolavoro della sua misericordia.
La vita spirituale non è come una combinazione di treni, nella quale perdutone
uno è finito l’intero viaggio. La vita spirituale può essere più
giustamente paragonata ad una gita in montagna. Perduto il cammino una volta e fallito
il primo progetto, non per questo si deve rinunciare. Basta mettersi nelle mani di
una guida. È facile che egli ci conduca ad una escursione migliore di quella
che era in progetto.
Fidati di Gesù Cristo, che ha i suoi disegni su di te. Non turbarti per il
passato: Egli ti ama adesso.
Affida il tuo passato alla Misericordia, il futuro alla Provvidenza e trascorri il
presente amando. «Io conosco le mie pecorelle… nessuno me le strapperà
di mano» (Gv. 10, 28).
Accetta la tua vita passata e abbandonati nelle mani di Gesù. Non vi è
nel Vangelo un passo in cui Gesù Cristo rinfacci un peccato a coloro a cui
ha perdonato. Un peccato rimpianto può dare più gloria a Dio di un
atto virtuoso del quale uno si vanti.
Ripensare continuamente al passato ed occuparsene sempre, significa avere un erroneo
concetto dell’amore di Gesù. Non ci dispiacerebbe forse che una persona cara
ritornasse sempre a ricordarci un dolore causatoci una volta?
CAPITOLO V
GESÙ CRISTO SOFFRE ADESSO?
Non è in poco tempo che si giunge a comprendere la
portata del peccato e ad acquistarne un’esatta cognizione. Eppure è cosa importantissima
per il nostro tempo che ha perso il senso della sua gravità.
In molti peccatori che pur riconoscono le loro cattive abitudini, e in molte anime
che vivono con pochissima cura della religione, si riscontra un indefinito atteggiamento
interiore che può così tradursi: «Se avessi conservato l’innocenza,
mi sforzerei di conservarla anche in seguito, ma dal momento che l’ho persa perché
mi devo sforzare?»
Una tale espressione è possibile solamente quando si ha del peccato un concetto
umano. Se, poi, vogliamo tradurre tale espressione nei termini della devozione al
S. Cuore, si nota quanto di diabolico si celi in simile idea. Essa equivale, infatti,
all’altra: «Se non avessi flagellato Gesù cristo, farei di tutto per
non flagellarlo mai, ma dato che l’ho colpito una volta, continuerò a colpirlo».
Difficoltà e turbamenti nella vita dell’anima sono spesso generati da una
incompleta idea del peccato, come se questo fosse solamente un disordine morale,
una colpa giuridica, o addirittura una mancanza ad un punto d’onore.
1- Il peccato in relazione alla
natura fisica di Cristo
La devozione al S. Cuore insegna a considerare il peccato
nel suo termine. Osservando un’immagine del S. Cuore appaiono chiaramente gli effetti
del peccato: le spine, la croce, la ferita della lancia…, anche se non appare da
dove provengono queste ferite. Ciò non ha importanza. In realtà quelle
ferite esistono e sono gli effetti del peccato di chiunque sia.
Infatti, i nostri peccati sono la causa dei dolori fisici di Gesù, della sua
croce. Egli prese su di sé i nostri peccati, ben sapendo che erano nostri,
di ognuno di noi. Ciascuno può dunque dire: se avessi peccato di meno, Gesù
avrebbe sofferto di meno.
I peccati nostri sono la sofferenza più terribile che patì il suo Cuore.
Un Cuore così sensibile deve aver sofferto immensamente per l’ingratitudine
nostra, Egli, che si lamentò dell’ingratitudine dei nove lebbrosi…
Ogni nostro peccato è un’ingratitudine verso Dio, nostro Creatore, Redentore,
e amico sacrificato per noi: «Ricrocifiggendo essi per conto proprio il Figlio
di Dio» (Eb. 6,6).
Eviteremo perciò di commettere peccati e procureremo che Cristo non sia offeso.
Chi considera il peccato sotto questo aspetto, se prima aveva il coraggio di chiedere
al Signore la morte, piuttosto che commettere un peccato mortale, forse sentirà
ora l’aspirazione ad offrire la propria vita al Signore per evitare anche un solo
peccato mortale di una qualsiasi anima.
I nostri sforzi per seguire Gesù, arrecano una consolazione al suo Cuore,
nella passione: vedendo il nostro pentimento, la nostra buona volontà di aiutarlo
e consolarlo, se ne sarà rallegrato.
«Con tanta maggior verità le anime pie meditano queste cose, in quanto
che i peccati e i delitti degli uomini, in qualsiasi tempo commessi, furono la causa
per cui il Figlio di Dio fosse dato a morte; ed anche al presente essi, di per sè,
cagionerebbero a Cristo la morte, accompagnata dagli stessi dolori e dalle medesime
angosce; giacché si considera ogni peccato rinnovare in qualche modo la passione
del Signore: «Di nuovo in loro stessi crocifiggendo il Figlio di Dio esponendolo
al ludibrio» (Eb. 6, 6).
Che se a cagione anche dei nostri peccati futuri, ma previsti, l’anima di Gesù
divenne triste sino alla morte, non è da dubitare che qualche conforto Egli
non abbia anche fin d’allora provato per la previsione della nostra riparazione,
quando «a Lui apparve l’angelo del cielo» per consolare il Suo Cuore
oppresso dalla tristezza e dalle angosce.
E così anche ora in modo mirabile, ma vero, noi possiamo e dobbiamo consolare
quel Cuore Sacratissimo che viene continuamente ferito dai peccati degli uomini sconoscenti…»
(Enciclica Miserentissimus).
2 – Il peccato e la gloriosa umanità
di Cristo
Soffre Cristo adesso? Certo non nel suo Corpo glorificato.
«Cristo, una volta risuscitato dai morti, più non morrà, non
avendo la morte più alcun dominio su di Lui» (Rm. 6, 9). Il Corpo glorioso
di Cristo non può morire, e sofferenza fisica, ferita, malattia sono nel linguaggio
della Scrittura, morte iniziale: dunque esso non può nemmeno essere ferito
o provare dolore.
Nella sua anima Gesù possiede la visione beatifica, e per essa è nella
pienezza della felicità. Questo però non risolve ancora la questione.
Infatti anche quando Gesù era nel mondo la sua anima possedeva la visione
beatifica e di conseguenza era anche nella felicità. Ma la visione beatifica
non impediva che Gesù soffrisse fisicamente nel suo Corpo, e che moralmente
sentisse compassione nella sua anima alla vista delle offese che il Padre riceveva,
e dei mali morali che affliggevano gli uomini: «Ho pietà di questa folla»
(Mc. S, 2). «Vedute le folle ne ebbe pietà perché erano stanche
e abbattute come pecore senza pastore» (Mt. 9, 36).
Questo sentimento concreto di compassione espresso in questi testi non era esclusivamente
condizionato dalla passibilità del corpo, procedeva direttamente nella sua
anima dalla intuitiva visione della realtà dolorosa.
Nell’attuale stato glorioso, Cristo non soffre; però possiamo ammettere che
sente compassione nell’anima sua. Non è indifferente alle offese fatte al
Padre, né al male morale dei suoi membri sulla terra, e nemmeno ai loro dolori
fisici. Allo stato attuale di Cristo si riferisce la lettera agli Ebrei nel dire:
«Non abbiamo infatti, un sommo sacerdote che non possa compatire le nostre
infermità» (Eb. 4,15).
Possiamo con un esempio umano cercare di spiegare il sentimento di compassione in
Gesù.
Una madre benestante e in perfetta salute, al sentire la notizia che il figlio è
stato trasportato in una clinica, gravemente ammalato, non può fare a meno
di sentire compassione per la malattia e le sofferenze del figlio: anche se in questo
caso la compassione è unita al dolore. In Gesù, invece, no.
Né questa affermazione sembra contraria ad alcuna definizione ecclesiastica;
né sembra incompatibile con la attuale felicità dei beati nel cielo.
Anzi si può dire il contrario. In certo senso, supposta la attuale esistenza
delle offese al Padre e le sofferenze delle sue membra sopra la terra, possiamo dire
che questo sentimento di compassione è un elemento della sua felicità.
Similmente avviene per una madre: supposta la infermità del figlio, non vi
sarebbe pena maggiore di non poterlo compatire. Certamente sarebbe più felice
se il figlio non fosse gravemente malato (come Gesù lo sarà quando
non vi sarà più peccato); ma, supposta la malattia, è più
felice nel poterlo compatire. Poiché, in ultima analisi, nella compassione
vi è una fruizione dell’amore.
Ed è vero che la compassione si esercita in modo perfetto, senza mescolanza
alcuna di imperfezione o di dolore, che turbi la serenità dello spirito beato,
anche se si trattasse di un sentimento più profondo del più ardente
zelo dei santi: più profondo di quello che ardeva in S. Paolo, quando’ esclamava
«Chi è scandalizzato e io non brucio?». Circa il mistero di questa
compassione profonda, insieme con una pace profonda e senza dolore, ci danno alcune
illustrazioni le dottrine degli autori mistici.
3 – Il peccato in relazione
al Corpo Mistico
Se Gesù Cristo non soffrisse ora in nessun modo,
che cosa significherebbero allora le spine che circondano il suo cuore? Erano forse
un puro simbolo le parole del Signore: «Io sono quel Gesù che tu perseguiti!»?
Abbiamo detto che Gesù non soffre nel suo corpo fisico anche se sente compassione
nella sua anima; soffre però nel suo Corpo mistico.
I nostri peccati sono un cattivo esempio. Se non ci comportiamo come dobbiamo, siamo
causa del mancato riconoscimento di Gesù nella sua Chiesa e impediamo che
la vera Chiesa appaia in tutta la santità, in cui è costituita.
«Signore, ti chiedo perdono di essere stato, col mio cattivo esempio, la causa
per cui molti non hanno riconosciuto la tua chiesa». Così pregavano
settantamila persone nel Katholikentag di Berlino.
Però vi è di più: i peccati dei cattolici, anche quelli più
nascosti, causano una vera ferita al Corpo mistico. Gesù Cristo diventa un
lebbroso nel suo Corpo mistico. Spetta a noi aiutarlo o continuare a flagellarlo.
Gesù Cristo soffre dunque attualmente perché il Corpo mistico è
una realtà. I miei peccati non distruggono perciò solamente la grazia
in me, ma minacciano anche quella di altre anime. Esse vengono infatti private del
mutuo aiuto, che la nostra generosità apporta ad ogni altro membro del Corpo
mistico. Questa privazione costituisce già in sé una ferita e può
essere inoltre occasione della mancata generosità di altri. In tal modo appare
chiaro di quante ferite al Corpo mistico ci siamo resi, in certo senso, responsabili
con i nostri peccati.
I peccati degli altri cattolici non devono lasciarci indifferenti. Sono ferite al
Corpo mistico e noi, quali membra vive, non possiamo non risentirne, così
come succede per le varie membra del nostro corpo fisico.
Devono interessarci i peccati dei cattolici e devono colpirci da vicino, così
come era colpita la madre di un giovane affetto da T. B. C., la quale al medico,
che cercava la causa del suo progressivo indebolimento, rispondeva: «Che cosa
mi fa male?… i polmoni di mio figlio!»
Grandezza di una realtà soprannaturale «La passione espiatrice di Cristo
si rinnova e in certo qual modo si completa e continua nel Corpo mistico che è
la Chiesa». (Pio XII).
«Cristo patì, quando doveva patire; non manca niente alla misura della
sua Passione, nel Capo; mancavano ancora i dolori di Cristo nel Corpo» (S.
Agostino).
Non aveva Gesù detto già questo, quando apparendo a Saulo, che spirava
odio e morte contro i cristiani, disse: «Io sono quel Gesù che tu perseguiti!»?.
Così ci indicò che perseguitare la Chiesa è impugnare il suo
stesso Capo. È perciò giusto, che Gesù Cristo, mentre continua
a soffrire nel suo Corpo mistico, ci abbia come soci nell’espiazione.
Noi dovremmo sentire profondamente questa intima unità. Il sentire come cosa
propria ciò che riguarda la salute di tutto il Corpo, è segno di salute
spirituale.
S. Agostino, commentando le parole del Signore: «Restate in me e io in voi»
(Gv. 15, 4), dice: Resteremo in lui, se saremo suoi templi; resterà Egli in
noi se saremo sue membra vive»; membra cioè, sensibili alle ferite e
alle malattie del Corpo mistico. Questa sensibilità presuppone una vita interiore
sufficientemente sviluppata. Dobbiamo chiedere la grazia per poter dimenticare le
nostre difficoltà e pene e per potere, nello stesso tempo, sentire profondamente
il dolore, con Cristo dolorante; l’abbattimento con Cristo sofferente; intimo dolore
per la terribile sofferenza, che Cristo sopporta per me nel suo Corpo mistico. Dobbiamo,
insomma, provare pena non solo per i dolori che Cristo patì per noi duemila
anni fa, ma anche per quelli che Egli sopporta al presente. La pena di Cristo sia
anche la nostra ed il nostro unico desiderio sia quello di alleggerire la sua pena,
curare le sue ferite, consolarlo il più possibile per tutto ciò che
soffre.
4 – I peccati delle «mie anime»
Considerarsi innocente, purificato, provar compassione per
i peccatori e limitarsi ad offrire preghiere e sacrifici perché coloro ottengano
da Dio il perdono, non è atteggiamento pienamente cattolico. Tanto meno agirebbe
da cattolico chi tracciasse una linea di divisione tra sé e i peccatori, anche
se si interessasse di essi, in quanto sono causa di ferite al Corpo mistico.
Chi avesse una simile idea dell’ordine soprannaturale in cui viviamo, troverà
difficile comprendere la riparazione nel suo vero senso. Si domanderà, infatti:
«Se posso curare le ferite del Corpo mistico con il mio apostolato, con opere
buone di ogni specie, perché devo farlo proprio per mezzo del dolore e delle
sofferenze? Se sono innocente, perché devo soffrire?»
Questa domanda diventa più assillante nel mistero della croce di Cristo. Egli,
infatti, perché accettò di soffrire tanto, se un suo atto d’amore sarebbe
stato sufficiente per meritarci la grazia e il perdono?
La riparazione ha un duplice significato: uno più vasto, che corrisponde genericamente
a «consolazione», e un secondo più esatto che indica «espiazione»
Riparazione, in quanto «consolazione», comprende tutte le buone azioni,
che in qualche maniera compensino i peccati e le ingratitudini contro Gesù
Cristo; azioni buone quali: la preghiera, l’amore, le opere buone, i sacrifici…
Riparazione in quanto «espiazione» comporta la necessità di subire
una sofferenza. Trattandosi dei nostri peccati personali, non basta onorare e amare
Dio, ma dobbiamo anche offrirgli una soddisfazione (espiazione) per i nostri peccati.
E per i peccati degli altri vale lo stesso principio.
Ciò è avvenuto concretamente nella soddisfazione che Gesù ha
voluto offrire per noi. Siamo davanti ad uno dei più grandi e fondamentali
misteri dell’ordine soprannaturale: Gesù Cristo ha soddisfatto per i nostri
peccati. Per meritarci la grazia del perdono sarebbe bastato un solo suo atto di
amore. Né era necessaria la sua Incarnazione, sarebbe stato sufficiente che
assumesse la natura angelica per compiere azioni infinitamente meritorie, e ottenerci
perfino la grazia del perdono.
Quanto una tale ipotesi sia contraria al pensiero di S. Paolo appare però
dalle costanti sue affermazioni su Gesù, fattosi a noi simile, uno di noi,
per realizzare il suo piano: «Nato di donna, nato sotto la Legge per riscattare
quelli che erano sotto la Legge» (Gal. 4, 4-5).
Essendo Egli realmente nostro capo, i nostri peccati divenivano in un certo senso
suoi, e la sua riparazione la nostra. Non si trattava di metafora giuridica, quasi
che il Padre agisca come se Gesù fosse carico dei nostri peccati. Ciò
non giustificherebbe la Sua divina azione. Nella realtà, la divina giustizia
come condizione necessaria affinché la misericordia perdonasse, esigeva la
passione e la morte di Gesù Cristo.
Abituati a considerare la misericordia divina solo con i nostri concetti, siamo tentati
di credere che Dio, nella sua misericordia potrebbe perdonare tutti i peccati dell’umanità
senza bisogno di una stretta riparazione, ma ciò forse non è del tutto
esatto. Come è assurdo considerare ciò che può fare l’Onnipotenza
divina, prescindendo dalla ordinata Bontà, forse è altrettanto assurdo
considerare ciò che può fare la Misericordia, senza tener conto della
Giustizia Quest’ultima è, infatti, un attributo divino non meno vero della
Misericordia; ed essa esige la riparazione.
Forse possiamo chiarire la cosa con un esempio.
Supponiamo di essere amici di un’alta personalità, la quale, in un’occasione,
venga ingiuriata da un suo suddito. Certo i nostri atti di amicizia e di riverenza
potranno consolarlo dell’ingiuria, potranno forse fargliela dimenticare; ma ciò
non costituisce una riparazione dell’ingiuria.
Potrebbe esserci vera riparazione, se tra noi e il suddito offensore ci fosse una
unione tale che, senza cessare di essere amici di quella persona, l’offesa del suddito
si potesse considerare come nostra e di conseguenza la nostra soddisfazione, accompagnata
dalla possibile riparazione del suddito stesso, potesse considerarsi come la sua
riparazione. In questo caso la soddisfazione non potrebbe consistere in un semplice
atto di amicizia, ma dovrebbe essere un atto di stretta riparazione dei diritti lesi.
Non è facile dire in che cosa consista l’unione, fondamento della soddisfazione.
Una tale unione esiste realmente tra Gesù e gli uomini, tra Maria, Mediatrice
di tutti, e gli uomini suoi figli.
Non sembra che si possa affermare questa stessa unione, nello stesso grado, tra ognuno
di noi e l’umanità tutta. Esiste però una reale solidarietà
soprannaturale di questo tipo con alcuni membri della Chiesa.
Alle anime che sono a noi unite più da vicino (non in senso spaziale o materiale)
e a quelle che -se anche attualmente non formano parte della Chiesa- possono con
il nostro contributo accrescere il Corpo mistico di Cristo, ognuno di noi potrebbe
dare il nome di «mie anime». È il campo della nostra azione conservativa
ed accrescitiva in quanto membra del Corpo mistico.
Di conseguenza i peccati di queste anime sono veramente nostri, non nel senso che
siano nostri peccati personali, causa di dannazione o castigo per noi. Ma nostri
perché ci riguardano in modo speciale; Così se noi soffriamo per essi,
e ci uniamo alla riparazione, che, per quanto insufficiente, i peccatori offrono
personalmente, possiamo veramente soddisfare per essi. Nel considerare questi peccati
potremo con più verità dire: «Signore, perdonaci», come,
sempre al plurale, ci fa pregare la Chiesa. Potremo riparare con le nostre penitenze
e sacrifici questi peccati delle «mie anime», peccati che sono vere ferite
al Cuore di Gesù.
Comprendere e sentire profondamente questa verità è una grazia. Chiediamola.
Da questa comprensione si capisce quale posto debba avere, tra le pie pratiche della
devozione al S. Cuore, l’Ora santa; e quanto essa sia conforme allo spirito della
devozione stessa. Passando un’ora in preghiera si implora la divina misericordia;
si consola Gesù dell’abbandono in cui fu lasciato nel Getsemani, mentre si
cerca di compenetrarsi dei sentimenti del suo Cuore, di sentirsi con Gesù
sopraffatti sotto il peso dei peccati dell’umanità intera. Quei peccati Egli
aveva fatti suoi; per cui agli occhi del Padre Egli appariva. ripieno di peccato.
Ad anime, chiamate dal Signore ai doni della vita mistica, questi sentimenti possono
far toccare i limiti delle umane possibilità. Noi ci accontenteremo almeno
di chiedere un’interna convinzione di questa realtà, fondata sulla nostra
fede. Assumeremo così nella nostra preghiera e nella vita spirituale un atteggiamento
molto più umile di sottomissione a Cristo nostro Signore.
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