Chesterton
convertito dall’anglicanesimo
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Nel cerchio
della Meynell Si trova anche l’immenso Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), la cui
conversione, nel 1922, ebbe una risonanza mondiale.
Morto ormai da alcuni anni, il suo ricordo resta vivissimo nella memoria, e più
ancora nel cuore, di quanti lo seguivano sulle riviste, nei quotidiani, nei libri
dove giornalmente appariva con la sua arguzia paradossale accesa su un fondo di straordinario
buon senso.
Chesterton è morto sulla breccia nella difesa della Chiesa e della giustizia
sociale, per cui aveva creato la Lega redistributista.
Dell’Italia latina e cattolica era vivo ammiratore.
Nell’estate precedente alla sua morte era venuto a Firenze a tenervi una conferenza.
Aveva scritte, uno degli ultimi libri su Roma: The Resurrection of Rome, 1930;
in un altro, su s. Tommaso d’Aquino (1933), aveva preso argutamente in giro il famoso
decano Inge, il quale disprezzava il papa perché italiano.
Dal cattolicesimo gli veniva un senso armonioso della vita, un ottimismo cordiale,
e un’ampiezza di vedute che lo differenziavano dai sostenitori della insularità
spirituale dell’Inghilterra.
Era il più giovane dei tre veterani dell’arte e della critica britannica con
Shaw e Wells, da cui era amato e di cui fino all’ultimo aveva denunciato l’irrazionalità
di un pensiero senza Dio.
Chesterton è stato un romanziere fantasioso e divertente: un pubblicista versatile,
un lavoratore infaticabile, ma è stato soprattutto un apologista del cattolicesimo
in terra protestante, o, come diceva lui, pagana. Procedeva con ragionamenti rettilinei,
freschi e geniali, di parvenza paradossale. Era il teologo del buon senso; e in san
Tommaso aveva ammirato e rilevato sopra tutto la razionalità, l’obbedienza,
il senso comune del due più due che fanno quattro, in contrasto coi sentimentalismo
e con l’istinto isterico di tanta letteratura di derivazione luterana.
Faceva della «filosofia popolare» e se ne vantava, mettendoci il meglio
dell’anima popolare inglese; e si considerava perciò giovialmente come un
caposcarico o un lunatico. Ricordava in questo san Tommaso More che
scherzò sino al patibolo. Chesterton ha scherzato fino alla morte, dicendo
verità serissime con una lepidezza spassosa. Soltanto quando stigmatizzava
i delitti contro la santità familiare non sorrideva. E perciò fu severo
contro Milton.
Come apologista, il capolavoro di Chesterton resta Ortodossia, scritto nel
1908. Il buon senso ivi affermato lo portò ad accettare il libero arbitrio
che gli aperse i battenti del cattolicesimo romano: «religione che è,
fra tutte le fedi, libera e bella, avventurosa e universale».
Se tardò a entrare apertamente nella Chiesa fu per aspettare… sua moglie,
che esitava a convertirsi e che poi, come capitava, arrivò prima di lui.
Con la sua morte, che lo colse in mezzo al lavoro, la letteratura cattolica perdette
il suo decano e uno dei maestri più geniali del nostro secolo; la letteratura
inglese uno stilista poeta e prosatore mirabile, l’umanità uno degli uomini
più simpatici.
Gilbert Keith Chesterton scrisse non meno di 65 volumi tradotti in parte anche in
italiano, oltre a un nugolo di articoli sui principali periodici quotidiani inglesi
e americani.
Se i libri suoi, apologeticamente più noti, sono Ortodossia e Manalive,
nella massa dei lettori rimane più viva la stia produzione di romanzi polizieschi.
Di questi racconti l’eroe è Padre Brown: un prete cattolico, che, con le inesauribili
trovate del suo buon senso e della sua esperienza, fa da Sherlock Holmes in parecchie
congiunture particolarmente imbrogliate.
Quando Chesterton era in vita, da più d’uno sì pose il quesito se il
tipo di Padre Brown fosse stato inventato dal romanziere o fosse stato copiato su
di qualche personaggio reale. Ora che Chesterton è morto, la sua autobiografia
postuma ci dice, com’era da prevedersi, che P. Brown è copiato dalla realtà
ed è inventato., Cioè, c’è stato il padre gesuita John O’Connor
di Bradsford, che ha offerto all’autore uno spunto, un’idea, degli elementi: e c’è
stato lo autore Chesterton che, rielaborandoli, ne ha plasmato una sua creatura.
La storia del come la cosa avvenisse è importante non solo dal punto di vista
letterario.
Era il tempo, – narra Chesterton nella sua autobiografia, – in cui egli correva da
un capo all’altro dell’Inghilterra, specie nelle serate nevicose, per tener conferenze.
Una sera si recò in una cittadina industriale, denominata Keighley, dove si
trovò tra un gruppo di persone, rassegnate pel cattivo tempo ad ascoltare
la sua conferenza: e tra esse un curato cattolico, il quale, pur essendo solo curato
e il solo cattolico della compagnia (Chesterton non s’era ancora convertito: e P.
O’Connor poi ci ha rivelato in Downside Review, che nel 1912 lo scrittore
per la prima volta gli confessò l’intenzione di farsi cattolico) si trovava,
a suo bell’agio, nella comitiva protestante, da cui pareva assai stimato. Chesterton
apprese come la sua presenza fosse stata possibile. Due giganteschi agricoltori dello
Yorkshire (protestanti al cento per cento) erano andati in giro tra le diverse comunità
religiose del distretto, a radunar gente per la conferenza; e si eran trovati, a
un certo momento, dinanzi al presbiterio del curato. Non è a dire il loro
terrore, una volta messi dinanzi al dilemma se entrare o no; fino a quando, a furia
di pensarci e di discutere, erano venuti alla conclusione che, infine, il prete da
solo non avrebbe potuto far a loro due gran danno; e in tutti i casi – s’erano detto
– «chiameremo la polizia».
Da buoni antipapisti, i due credevano che nel presbiterio fosse impiantato tutto
un arsenale da Inquisizione spagnola per lo sventramento dei conformisti e lo squartamento
dei non-conformisti… Senonchè, penetrati nel covo del nemico, vi avevano
trovato un uomo simpatico e cordiale. dall’intelligenza viva e aperta.
«Anche a me – narra Chesterton – il curato (che era poi null’altri che P. O’Connor)
– piacque assai: però se mi avessero detto che di li a dieci anni io sarei
andato missionario dei Mormoni nell’Isola dei Cannibali non sarei stato meno sorpreso
che se mi fosse stato sussurrato che a distanza di quindici anni io avrei dovuto
fare a quel prete, la mia confessione generale per essere ricevuto nella Chiesa,
di cui egli era ministro».
Il giorno appresso parlarono a lungo e divennero amici. Chesterton accennò
ad alcune sue opinioni sulla criminalità e il sacerdote garbatamente gli mostrò
una conoscenza sbalorditiva del cuore umano e dei fatti sociali. Lo scrittore non
avrebbe mai immaginato che, stando nel celibato, si potesse arrivare a tanta esperienza
(ignorava la scuola del confessionale).
Sopravvennero, nel loro colloquio, due studenti di Cambridge che si misero a discutere
di musica e di paesaggi; e Padre O’Connor li sbalordì con la versatilità
della sua cultura, la quale passava agilmente dalla criminologia al barocco, dalla
musica alla sociologia. I due studenti rimasero di stucco. Alfine uno di loro, per
rifarsi, usci in questa riflessione:
– Sarà tutto bene quanto voi dite in fatto di musica.
Ma in fatto di mondo, per quel che riguarda il male della vita, che ne potete conoscer
voi, che siete chiuso in un chiostro, fuori della cruda realtà?… bella cosa
esser innocenti e ignoranti; ma più bella ancora entrar nella vita e non aver
paura di conoscere!
Chesterton, che aveva avuto quel tal colloquio col Padre, stette per scoppiare nella
sua più omerica risata: perché egli aveva capito bene che del robusto
satanismo, di cui il Padre aveva acquistato conoscenza nel suo ministero sacerdotale
per combatterlo ed espellerlo dalle anime, quei due garzoni (per fortuna) ne sapevano
quanto due marmocchi da latte.
«E allora mi balzò l’idea vaga di far uso di quella comica e pur tragica
situazione, costruendo una commedia in cui ci fosse un prete che in apparenza non
sapesse niente e in realtà conoscesse intorno al crimine più degli
stessi criminali».
E di là cominciò la storia di P. Brown, che divenne rapidamente uno
dei personaggi più popolari di qua e di là dell’Atlantico (1).
Ma l’episodio non fu importante solo perchè diede vita a tutto un glorioso
ciclo letterario. Esso fu importante altresì perchè diede vita a tutto
un ciclo di riflessioni che portarono Chesterton alla Chiesa. «Che la Chiesa
cattolica conoscesse intorno al bene più di quanto conoscevo io, era facile
a credersi. Ma che essa conoscesse intorno al male più di quanto ne sapevo
io, questo mi pareva incredibile».
Ma la Chiesa è per combattere il male: ne è l’antitesi.
E se è l’antitesi del male, dunque essa è il bene. E’ la vera unica
incarnazione di Cristo.
E Chesterton si diede perciò, generosamente, a lei.
In un pranzo, una volta, gli fu chiesto da una signora.
– So che siete cattolico: ma in realtà che cosa pensate della religione?
E Chesterton rispose:
– A dire il vero, penso che sia tutta una truffa.
Sbalordimento generale.
– Si, tranne l’unica religione. Se guardate le altre religioni vedrete che esse sono
una specie di collirio per non farci vedere il peccato. Invece la religione cattolica
vi tiene sempre nel pensiero il peccato. E questo annoia: ed ecco perchè la
gente l’odia…».
Si diceva e si dice: – C’è più fede in un onesto dubbio che in, tutte
le credenze. – E Chesterton rimbeccava: – Che significa un dubbio onesto? Sarebbe
come se uno si chiamasse onestamente tubercoloso e quindi rifiutasse d’entrare in
un sanatorio.
Un suo tratto apologetico: «Herbert Spencer si sarebbe assai infastidito se
qualcuno gli avesse detto che egli era imperialista… della più bassa risma.
Egli ha popolarizzato questo disprezzabile concetto: che la dimensione del sistema
solare debba diminuire il dogma spirituale dell’uomo. Perché dovrebbe l’uomo
cedere la sua dignità al sistema solare e non ad una balena? Se la sola dimensione
prova che l’uomo è l’immagine di Dio, allora una balena può essere
l’immagine di Dio: un’immagine un po’ informe che si potrebbe qualificare un… ritratto
impressionista.
«E’ un futile modo di ragionare il dire che l’uomo piccolo paragonato al cosmo:
l’uomo è sempre piccolo anche se si paragona all’albero dell’orto» (2).
L’11 luglio 1922, dal suo rifugio di Top Meadow, Chesterton scrisse al suo caro Father
Brown, cioè al padre O’Connor, una lettera d’una lunghezza inusitata: più
d’una pagina; invitandolo alla propria casa per discutere di «cose serie, di
carattere religioso, relative alla sua piuttosto difficile posizione»; la posizione
d’uno che non era né pagano né protestante né agnostico, ma
non era neppure quel elle doveva essere.
All’invito di Gilbert tenne dietro una missiva di Frances, la moglie, di cui lo scrittore
aveva aspettato per anni la conversione per entrare insieme in Chiesa come insieme
avevano sempre proceduto; una missiva non meno pressante.
Il prete andò, discusse con Chesterton e gli lasciò un catechismo per
fanciulli: egli conosceva il poeta e lo chiamava Chesterton child, Chesterton
il ragazzo. Cosa all’amico Phillimore, l’arcivescovo di Glasgow aveva mandato la
dottrinetta per ragazzi, avvertendolo: – Quando la saprete a memoria comunicatemelo
Imparata la dottrina, pochi giorni appresso, davanti a tre o quattro amici, in una
cappella improvvisata nella sala da ballo di un ristorante, Chesterton recitò
«assai fervorosamente» il credo di Pio IV, mentre la moglie piangeva:
e fu interamente cattolico.
Prodotto di quella adesione ufficiale alla Chiesa, a cui da un pezzo aderiva col
cuore e col cervello, furono due grandi libri: The Everlasting Man e S.
Francesco.
O’Connor ricorda: «In quel pomeriggio, contro la sua abitudine, Chesterton
poco parlò. Spero di non aver parlato troppo io!».
Il card. Bourne, il card. Merry del Val e amici grandi e piccoli ammiratori (ammiratori
di qua e di là dell’Oceano) gli comunicarono la loro gioia per quella conversione,
che non era la conversione di Saulo, dopo che egli da anni già difendeva gl’ideali
del cristianesimo ortodosso.
«Noi mai sottoponemmo a giudizio il suo passato anglicanesimo e neppure i suoi
amici anglicani perchè l’uno e gli altri gli avevan servito di impulso a salire
alla pienezza della fede», dice O’Connor.
Chesterton narrò lui stesso le vicende di questa salita. «Prima di arrivare
al cattolicesimo, son passato attraverso differenti fasi, dibattuto per lungo tempo.
Non è facile rievocarle tutte, analiticamente. Dopo molto studiare e riflettere,
sono venuto alla conclusione che i malanni di cui l’Inghilterra soffre sono: il capitalismo,
un crudo imperialismo, l’industrialismo, una ricchezza iniqua e la dissoluzione della
famiglia: tutti prodotti dal non essere l’Inghilterra cattolica. La teoria anglo-cattolica
pretende che l’Inghilterra sia rimasta cattolica malgrado la Riforma o addirittura
in grazia di essa. Ma io sono venuto alla conclusione che è assurdo sostenere
la cattolicità dell’Inghilterra. Perciò mi son volto al solo cattolicesimo:
il romano. Prima ancora della mia conversione, io avevo molte idee cattoliche, e
la mia visuale difatti s’è poco mutata.
«Il cattolicesimo ci dà una dottrina e una logica della vita. Non si
tratta solo d’una autorità ecclesiastica, ma di una base che rinsalda il giudizio.
Mi spiego con un esempio: oggi tutti scrivono di moda, e discutono di gonne corte
e di donne svestite; ma fanno una critica non poggiata su un punto fermo. E la ragione
è questa: che i critici non conoscono più il significato della castità,
mentre un cattolico lo conosce, e sa i motivi per cui la moda d’oggi è condannabile».
Con l’aria paradossale con cui presentava lo svolgimento logico del suo pensiero,
Chesterton pose tra i fattori della sua conversione «i principali maestri del
protestantesimo» inglese: il dean Inge e il bishop Henson. «È
evidente per me che una Chiesa, la quale voglia agire con autorità, debba
essere in grado di dare una risposta alle grandi questioni morali. Ora, posso io
ammettere il cannibalismo e l’assassinio dei neonati per ridurre la popolazione o
per consimili riforme scientifiche e progressive? Una Chiesa provvista di autorità
di magistero deve sapermi dire se si possa o no. Ma le chiese protestanti sono in
un enorme disorientamento di fronte a questioni, quali la limitazione delle nascite,
il divorzio, lo spiritismo…
«Eccovi gente come il dean Inge che vien fuori a bandire pubblicamente
e perentoriamente quella che io considero una frode meschina e velenosa, la quale
rasenta l’infanticidio. So bene che ci sono, nella Chiesa anglicana e in altre comunità
protestanti, persone le quali denunciano questi gravi vizi pagani allo stesso modo
che faccio io: e il bishop Gore ne parlerebbe con lo stesso sdegno del papa.
Ma il guaio è che la Chiesa anglicana non ne parla con quello sdegno. Essa
è scissa nell’agire; e io non so che fare di una Chiesa che non è militante
e non sa ordinare una battaglia, ne sa combattere e marciare in una direzione unica.
Più tardi, in una serie di cinque articoli sull’Universe, ebbe a spiegare
le cinque ragioni per le quali si sarebbe convertito se non si fosse dato il caso
che convertito già era.
Fatto così pienamente cattolico, combattendo con uno scherzo e un paradosso,
su tutti i fronti – letteratura, filosofia, politica, economia, ecc. – arrivò
a quel giugno 1936, in cui sentendosi venir meno, chiese i sacramenti, che gli furono
somministrati da un grande spirito: padre Vincent Mc Nabb, domenicano, il quale,
presso il capezzale dell’immortale amico morente, cantò la Salve Regina, come
si usa per i domenicani moribondi (Chesterton aveva scritto da poco il suo bel libro
su san Tommaso, a cui rassomigliava per l’amore della logica e del buon senso e della
vera razionalità, come gli rassomigliava nel fisico, che gli consentiva di
cedere, in autobus, il suo posto a tre signore – dicono – alla volta ! …).
Padre Brown celebrò la Messa di Requiem nella cattedrale di Westminster, avendo
padre Rice e padre Me Nabb per diacono e suddiacono.
E Bernhard Shaw scrisse alla moglie una lettera in cui si vide come il caustico drammaturgo
celasse, dietro le apparenze, un grande cuore.
A dieci anni dalla morte (Recognita decennalia) Padre Brown (indi Mons. John
O’Connor) tornò a parlare del suo amico G. K. Chesterton, da lui introdotto
nella Chiesa cattolica, e spentosi il 14 giugno 1936, proprio nel momento che il
Padre diceva la Messa dei bambini per lui.
In un articolo su The Nineteenth Century (giugno 1946) volle far vedere che
Chesterton era stato la più perfetta incarnazione della poesia di Tennyson
sul Poeta. Poeta e clown, con suo piacere e per sete, deliberato proposito. «Egli
fu dotato dell’odio all’odio, del disprezzo pel disprezzo, dell’amore all’amore.
E sopra tutto, fu uno che vide attraverso la sua anima… e impresse all’intera vita
un atteggiamento infantile di fronte alle cose tutte ».
Lo chiamavano perciò «Chesterton il fanciullo».
«Egli era avvinghiato all’innocenza, e coltivava, o almeno praticava, la spensieratezza,
perché (altro paradosso suo) trovava affannoso il rammentar le date, i posti,
i treni: sua regola ben nota per pigliare un treno era di perdere quelle partito
prima.
…Erano le cose materiali che lo angustiavano; viceversa stava sempre a suo agio
in mezzo a pensieri metafisici. (Non ho mai incontrato uno che, come lui, possedesse
tale istinto o bruta passione per l’universale. Dalla più umile osservazione
sapeva ascendere verso il cielo della pura ragione, sia che lo seguissero o no. …Egli
aveva una tendenza all’innocenza come alla stella del suo cammino, magari inconsciamente.
E ciò potrebbe spiegare la sua sollecitudine a non offendere nessuno, neppure
col non prestarsi a offrire una sedia.
«H. G. WelIs, inviando le sue condoglianze alla moglie, le scrisse su per giù
queste parole: – Se io ottengo la felicità all’altro mondo, son certo che
lo dovrò all’intervento di G. K. C. » (Chesterton). E Walter de la Mare,
restando alla poesia, scrisse subito questi versi (stampati nell’annuario-ricordo
di Gilbert):
Cavaliere dello Spirito Santo, va per la sua via:
Sapienza la sua insegna, Verità il suo scherzo d’amore,
I mulini di Satana tengono la sua lancia in resta
Pietà e innocenza danno pace al suo cuore.
Un profeta, un ridente profeta… ».
«Suo fratello, Cecil, esercitava un grande influsso su di lui. Cecil era il
più fine polemista del mondo, e discuteva nello stile con cui Cobbet scriveva;
e i due fratelli discutevano di tutto, ma era Cecil a dare un tono serio e a chiarire
quasi ogni soggetto a cui come giornalista era portato. Gilbert invece era il grande
poeta, che vedeva troppe cose insieme e il suo istinto creativo lo portava a vedere
Dio in tutte le cose… Prima ancora di aver 21 anni aveva scritto:
Ma ora una grande cosa nella via
Pare ogni accenno dell’io,
Dove cangiano, in strana democrazia,
Milioni di maschere di Dio.
«La moglie mi disse a proposito parole stupende: – Egli si considerava ne più
ne meno che un gioviale giornalista, il quale voleva dipingere la città in
rosso e non faceva che chiedere secchi di vernice rossa».
Chesterton non poteva capire che cosa fosse la scienza comparata delle religioni:
per lui non esisteva che il cattolicesimo. Ma Padre Brown lo informò che quella
scienza era nata a Leida, nella Università protestante, dopo che per dieci
anni non s’era iscritto nessuno studente alla facoltà di teologia: allora
per radunare qualche scriteriato o distratto, tirarono fuori lo studio di religioni
comparate.
Durante il conflitto mondiale, Chesterton ebbe occasione di prendere in giro quegli
agnostici che avevano sempre contrastato la Chiesa e poi le rimproveravano dì
non aver saputo assicurare al mondo la pace. «Dire – scriveva – che la Chiesa
è stata screditata dalla guerra, come si va dicendo, equivale a dire che l’Arca
fu screditata dal Diluvio. Quando il mondo ha torto ciò prova se mai che la
Chiesa ha ragione. La Chiesa è giustificata non perchè i suoi figli
non peccano, ma proprio perchè essi peccano».
Padre Brown conclude il suo scritto con dei versi tratti da una ballata di Chesterton,
ancora inedita:
“Principe, mi permettete, poi : che siete solo,
Di parlarvi con discrezione del Crocifisso?
Anche Lui fu, nella vita, un fallito:
Il Diavolo non lo amava, ed Egli morì”.
(1) Dopo la morte dell’amico, padre O’Connor ha raccolto alcune
memorie, porgendole al pubblico in una miscela superchestertoniana: di motti arguti,
di amena combattività e di profonda bonomia, servita in una lingua inglese
zeppa di riboboli, e irta d’allusioni cm titolo: Father Brown on Chesterton.
(2) Da L’Ortodossia, trad. it, Roma, 1928, p. 677.
testo tratto
da: Igino Giordani, I grandi convertiti, Roma 1951/2, pp. 201-213.