Esercizio di perfezione e di cristiane virtù
composto dal padre Alfonso Rodriguez S.J.
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TRATTATO IV. DELL’UNIONE E CARITÀ FRATERNA
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CAPO XII. Del buon modo e delle buone parole con cui da noi si hanno da esercitare gli uffici di carità verso dei nostri fratelli.
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1. Accompagnare gli uffici di carità con buone parole.
2. Che fare se in questo si manchi?
3. Avvertimenti per chi fa e per chi riceve qualche caritatevole ufficio
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1. S. Basilio, in un sermone che fa esortando alla vita monastica per quelli che si occupano in uffici esteriori in servizio degli altri, dà un avvertimento e un documento molto buono circa il modo che hanno da usare nell’esercitarli. Quando vi toccherà, dice, di far questi uffici, non vi avete da contentare della sola fatica corporale ma avete da procurare di far con buon modo quello che fate, e di usare piacevolezza e soavità nelle vostre parole, acciocché gli altri restino persuasi che lo fate con carità, e così sia loro grato il vostro ministero (S. BASIL. De renunt. saec. etcChe è l’istesso che dice l’Ecclesiastico: «Figlio, nel beneficare non far rimbrotti, né aggiungere al dono l’amarezza delle parole. La rugiada non spegne forse l’afa? Così la parola influisce sul dono. Non vale più una buona parola che il dono?» (Eccli. 18, 15-17).).
E questo è il sale che S. Paolo dice che ha da condire e render saporito e gustoso tutto quello che fate. Valgono più e più si stimano il modo e la grazia con cui servite, e le buone parole colle quali rispondete, che ciò che fate. E per contrario affaticatevi pure e stancatevi quanto volete, che se non lo fate con buon garbo e non usate buone parole e buone risposte, sarà stimato e riputato per niente, e ogni cosa parrà buttata. «Il vostro discorso, dice l’Apostolo, sia sempre con grazia, asperso di sale, in guisa che distinguiate come abbiate a rispondere a ciascuno» (Col. 4, 6). Il vostro parlare sia sempre pieno di grazia e di soavità, come sarebbe il dire: mi piace: molto volentieri. Non perché tu sia occupato, o abbia assai da fare, o non possa fare quel che ti è chiesto, hai da rispondere con istorcimento e con mala grazia al tuo fratello; anzi allora hai da procurare che la risposta sia tanto buona, che l’altro se ne vada contento e soddisfatto, come tu avessi fatto quanto ti chiedeva, vedendo il tuo buon cuore. E il buon termine sarà dicendo: Veramente avrei molto caro di farlo, se potessi; ma adesso non posso: basterà che io lo faccia di poi? o cosa simile. E se la difficoltà nasce dal non averne licenza, dire: io andrò a domandarne licenza. Ove non potrà arrivare l’effetto, suppliscano le buone parole, di maniera che si conosca la tua buona volontà. E questo è ancora quello che dice il Savio: «E una lingua graziosa nell’uomo virtuoso giova assai» (Eccli. 6, 5). Le parole dette con grazia e che mostrano viscere di amore, sempre hanno da abbondare nell’uomo dabbene e virtuoso; perché con questo si conserva grandemente la carità e l’unione di uno coll’altro.
2. S. Bonaventura dice che ci abbiamo da vergognare di dir parola aspra e dispiacevole, che possa offendere o disgustare il nostro fratello, ancorché si dica improvvisamente e di primo moto, e la parola anche sia molto leggiera. E che se talvolta accadrà che in questo ci trascuriamo, abbiamo subito da procurare di confonderci, di umiliarci e di soddisfare al nostro fratello, dimandandogliene perdono. Si racconta di S. Dositeo (Vita S. Dosithei, n. 8) che, essendo infermiere, usava sempre particolar diligenza per non venire a contesa con alcuno e per parlar a tutti con molta pace e carità. Con tutto ciò, siccome trattava con tanti, quando col cuoco, quando col dispensiere, perché non gli dava del meglio per gl’infermi, o perché non glielo dava subito; quando con quegli che aveva cura del refettorio, perché portava via qualche cosa da esso; alle volte parlava un poco alto e diceva qualche parola risentita e dispiacevole. E si confondeva tanto quando ciò gli avveniva, che se ne andava alla sua cella ed ivi prostrato in terra si metteva a piangere dirottamente, sinchè vi arrivava Doroteo suo maestro, che l’aveva udito, egli diceva: Che cosa è questa, Dositeo, che hai fatto? Ed esso subito gli diceva la sua colpa con molte lagrime: Padre, ho parlato con sdegno al mio fratello. Allora S..Doroteo ne lo riprendeva molto bene, dicendogli: Questa è l’umiltà? ancora sei risentito? E dopo di averlo ripreso gli diceva: Adesso alzati su, che Dio t’ha perdonato, e fa conto di cominciare da capo. E dicono che Dositeo si alzava con sì grande allegrezza, come se dalla propria bocca di Dio avesse udito che gli perdonava; e tornava a far nuovo proponimento di non parlare mai ad alcuno con disgusto ed asprezza.
3. Acciocché tutti quegli, i quali o fanno uffici di carità o li ricevono, ne cavino frutto, S. Basilio (S. BASIL. Interr. Reg. brev. tract. 160, 161) dà altri due brevi e sostanziali avvertimenti. Domanda il Santo: In che modo faremo bene quest’ufficio di servire i nostri fratelli? E risponde: Se faremo conto che servendo il fratello serviamo Cristo; poiché egli disse: In verità vi dico, che quello che avete fatto al minimo dei vostri fratelli, l’avete fatto a me. Fate voi altri le cose come chi serve Dio e non uomini; e in questa maniera le farete bene, con buon modo e con buona grazia.
E subito dopo fa il Santo un’altra dimanda: E come ho io da ricevere l’ufficio caritatevole, che il mio fratello pratica meco? E risponde: Come quando il padrone serve il suo servitore; e come si portò ft. Pietro quando il Signore gli volle lavare i piedi: «Signore, tu lavare i piedi a me?» (IO. 13, 6). In questa maniera da un canto si conserverà l’umiltà così nell’uno come nell’altro; perché né l’uno si sdegnerà né si stancherà di servire il suo fratello, perché lo riguarda come figliuolo di Dio e fratello di Cristo, e fa conto che nella persona di lui serve Cristo stesso; né l’altro s’insuperbirà di vedere che tutti lo servano; anzi con ciò si confonderà e si umilierà maggiormente, considerando che non si fa per esso, ma per Dio. E dall’altro canto per la stessa ragione si conserverà e aumenterà grandemente la carità dell’uno coll’altro.