«DELL’AMORE
AL PROPRIO DISPREZZO»
DEL SERVO DI DIO
P. GIUSEPPE IGNAZIO FRANCHI d’O.
ARTICOLO IV
Che
un tal amore non deve solo portarsi al disprezzo generalmente considerato; ma deve
di più stendersi e applicarsi a tutti i particolari disprezzi contenuti negli
esposti ottanta punti ed altri simili.
Acciocchè non si prenda abbaglio in questa sì importante e delicata
materia, è necessario premettere alcune avvertenze, per porre in chiaro lume
la vera dottrina, e ordinarne la pratica.
1. Avvertenza. L’amore al disprezzo si deve regolare dalla volontà
di Dio, che è la sorgente e la norma d’ogni bene e di tutta la santità,
e in conseguenza dall’unione e rapporto che tutti gli oggetti particolari hanno con
Dio medesimo il quale deve essere a noi l’oggetto unicamente amabile e caro, onde
s’adempia con perfezione quel gran precetto: Amerai il Signore Dio tuo con tutto
il tuo cuore; dal che ne segue, che dobbiamo amare quei disprezzi da noi meritati,
che Dio si compiace che amiamo, e che, per una parte, amati da noi, ridondano in
onore di Dio, della sua verità, provvidenza, giustizia, bontà e del
suo santissimo volere; e dall’altra sono efficacissimi a distaccarci dalle fallacie
del mondo e da noi medesimi, e a sollevarci e a unirci con Dio.
Ma quei disprezzi, quantunque da noi meritati, nei quali non vi è il beneplacito
e il gradimento di Dio, e non sono atti a farci promuovere col concorso del nostro
volere la divina gloria, e unirci col sommo ed infinito nostro Bene, per cui siamo
crcati e redenti, non debbono senza dubbio riscuotere il minimo dei nostri affetti.
E rispetto a questi non ha luogo la proposizione, che si pretende di stabilire nel
presente articolo.
2. Nel primo genere di disprezzi, che santamente si possono e si debbono amare da
noi, e sopra dei quali unicamente si aggira la nostra proposizione, si comprendono
tutti quelli che sono stati esposti nei menzionati ottanta punti ed altri simili,
salva sempre la dipendenza ai divini voleri, perché sono tutti, almeno per
se medesimi, atti a trarci fuori dalla terra e da noi stessi e condurci a Dio e renderci
volontari strumenti della divina gloria. Nel secondo genere di disprezzi, se ne contengono
altri moltissimi, i quali incontrati da noi per nostra grave disgrazia, invece di
stringerei con Dio, ci separerebbero miseramente da lui con nostro impercettibile
danno. Ora, riguardo a questi, Dio che è infinitamente buono e amante del
nostro bene, gradisce è vero moltissimo che noi ci persuadiamo d’averne il
merito, e che quindi prendiamo occasione di umiliarci fino agli abissi, ma non vuole
che gli amiamo, anzi che gli scansiamo con tutte le nostre forze, e a tal oggetto
noti cessiamo di implorare del continuo la sua grande misericordia, perché
ce ne liberi, e da lei speriamo d’esserne preservati.
3. Quali siano quei disprezzi senza paragone assai peggiori di quelli esposti
nel secondo articolo, che non si debbono amare, ma deve altamente ognuno abborrire,
se ne accennano qui i principali.
Non merita la grazia di Dio santificante, né l’attuale, né il lume
dello Spirito Santo, né le divine ispirazioni, né il minimo buon pensiero,
e molto meno i santi affetti, né il perdono dei suoi peccati, né il
gran dono della perseveranza finale, né le cristiane virtù, né
lo spirito d’orazione, né che siano da Dio esaudite le sue preghiere, né
il paradiso, né il purgatorio medesimo: perché quantunque sia il purgatorio
un penosissimo carcere, pure tutti i prigionieri che vi sono, racchiusi sono di una
altissima nobiltà e splendore, essendo tutte anime sante e trionfatrici dell’inferno,
figliuole ed eredi di Dio, e infallibilmente regneranno con esso per sempre nel paradiso,
ed ora nelle fiamme si mondano e si raffinano per comparire belle e leggiadre dinanzi
al divino sposo, onde godere delle eterne sue nozze. E come potrà un vero
umile, che si reputa disprezzevole, reputarsi degno di entrare nel ruolo e nella
società di persone sì illustri?
Merita bensì che Dio lo lasci nelle sue spirituali miserie, in preda alle
sue passioni, e al furore dei demoni e nel lezzo dei suoi peccati; e se è,
di presente, amico di Dio, lo lasci cadere in colpa mortale, e quindi precipitare
in eccessi più gravi senza freno e ritegno, fino a perdere il rimorso della
coscienza e la speranza e la fede col più terribile disprezzo e abbandono
di Dio e una pessima morte e l’inferno anche più tormentoso. Si ingegni dunque
il cristiano di penetrar bene a fondo queste divine verità, e ne ricavi un
concetto il più vile che sia possibile di se stesso, che lo deprima e lo abbassi
fin sotto il niente, e confessi sinceramente di non esser degno di alcun bene né
in questa, né nell’altra vita, ma bensì d’ogni maggior male, e che
infinito è il disprezzo che ci merita; dal che si serva per esercizio della
più intima e profonda esinanizione di se medesimo, onde non abbia giammai
ardire d’alzare il capo: e beato lui se saprà farlo! Ma lungi lungi dall’amare
i disprezzi di questa sorta, che tendono a privarlo di Dio nel tempo e nell’eternità,
anzi li odi con tutto lo spirito, li esecri, li abborrisca, e faccia il possibile
perché non gli arrivino, con una vigorosissima speranza nei meriti di Gesù,
che non permetterà che gli succedano; e preghi a tal fine incessantemente
e supplichi Dio, che piuttosto per grazia singolare gli baratti e permuti tali orrendi
disprezzi (che finiscono in colpe e in dannazione dell’anima) in quelli altri disprezzi
temporali e piccolissimi, almeno in senso comparativo, i quali non ci tolgono Dio,
anzi ci aiutano moltissimo ad acquistarlo; e a questi si rivolga e vi si affezioni
e vi applichi il cuore; essendo dovere che ami il disprezzo per i motivi apportati
nel precedente articolo (anzi tutti i sopraddetti disprezzi in particolare, per quanto
può a misura del dono che Dio gli concede) sicuro che in tal guisa il Signore
resterà grandemente glorificato di lui, ed egli innalzato a una eccellente
perfezione.
4. La pratica della proposizione sopraddetta, e che qui s’intende di stabilire, deve
esser diretta dalla cristiana prudenza e discrezione, affinché nessuno non
si avanzi ed inoltri più in là di quello che comportino le presenti
sue forze, attitudine e proporzione, e la grazia che piace a Dio di attualmente donargli.
Benissimo l’intenderà chi si lascerà guidare dall’obbedienza e dalle
istruzioni di un ottimo direttore.
Premesse tali avvertenze, si afferma che qui appunto consiste il più bello
e importante dell’amore al proprio disprezzo, nello stendere ed abbracciare distintamente
più che si può i particolari disprezzi, compresi negli allegati punti,
considerandogli tutti come membra e parti, che formano la sostanza del disprezzo.
Altrimenti, senza una tale applicazione, un tal amore resterebbe imperfetto e non
adeguato, e rimarrebbe meno efficace a rendere un’anima amante dei suo vilipendio;
laddove colla sopraddetta estensione, l’amore si fa perfetto e compiuto, e si vende
efficace a conseguire il preteso fine.
E primieramente senza di ciò, resterebbe l’amore imperfetto, e non adeguato;
perché trattandosi qui di un oggetto pratico e conseguentemente che non si
presenta ad usarsi se non vestito, di particolari diversissime circostanze e modificazioni,
a molte delle quali ciascuna persona sente particolar ripugnanza e avversione, perché
quelle appunto la toccano e la feriscono, sia dove ha il suo più debole e
il più vivo, sia dove l’amor proprio e la superbia hanno gettate più
profonde le loro radici; se l’amor al disprezzo si racchiude solo nei termini generali,
e perciò astratti e remoti dall’esecuzione, e non discende con qualche speciale
applicazione a tutti i sopraddetti particolari disprezzi, ne segue, che un tal amore
o infatti non arriva con la sua attività a quei singolari vilipendi più
contrari al proprio umore e spirito d’orgoglio, il quale anche d’ordinario è
il più profondo e nascosto e il meno capace di rimedio, o v’arriva troppo
languidamente, onde non potrà mai dirsi amore sincero e perfetto. Ciò
meglio si capirà colla considerazione di quel che succede pur troppo frequentemente.
Molte anime vi sono di ottima volontà, che si studiano ancora di amare il
disprezzo, e che infatti si sottopongono volentieri a più sorte di umiliazioni
ed ingiurie. Ma se queste medesime creature sono provocate da qualche sorta d’affronto
che le batta sul vivo, dove giaceva forte la loro segreta superbia, mutano faccia,
si dolgono, si lamentano, perdono la pace, e non sarà poco se s’asterranno
da qualche grave impazienza, risentimento e spirito ancor di vendetta, e se dopo
replicati sfoghi della loro passione alla fine s’acquieteranno; che vuol dir ciò?
Vuol dire, che il loro amore al disprezzo non era sincero, perfetto e adeguato; e
il fatto lo dimostra assai chiaro.
Contente di amare il disprezzo, solo in generale e in astratto (nel cui concetto
e nozione non si presentava loro dinanzi quel genere di particolari vilipendi da
esse più abborriti e più ripugnanti al senso), il loro affetto non
era infatti così adeguato e compiuto, che abbracciasse in realtà tutta
la sostanza del disprezzo medesimo. Vi restava una gran parte del disprezzo allo
scoperto e senza amore, ed era appunto quella che più s’opponeva alla loro
indole, inclinazione ed orgoglio. Che meraviglia pertanto se, alle occasioni, a qualche
sorta di vilipendi si adattino, e se non altro li soffrano con pazienza, altri poi
riescano loro intollerabili?
È necessario pertanto, che l’amore si dilati e si stenda a qualunque sorta
d’ingiurie e d’affronti, e che ove giunge il disprezzo, colà anche pervenga
l’amore: e per non restare ingannati in materia si delicata, è necessario
che, schierati dinanzi più che ci sia possibile tutti i generi di disprezzi
– almeno i principali – sovra tutti essi il nostro spirito vi si applichi con grande
affetto; e ove sente destarsi una special ripugnanza della natura per le sue circostanze
particolari e attuali, più vi insista con esercizio continuo, finché
una volta s’accenda in noi l’amore anche per quel particolare disprezzo a noi più
odioso ed ingrato. Allora sì, che l’amore al proprio vilipendio sarà
sincero, adeguato e compiuto.
Di più, senza di ciò resterebbe un tal amore meno efficace per la pratica,
perché languirebbe e verrebbe meno nelle occasioni più belle per consumar
la superbia e l’amor proprio, le quali occasioni sono in conseguenza le più
atte a spogliar l’uomo di se medesimo ed unirlo con Dio. Queste più belle
occasioni sono appunto quando ci si presenta, un’ingiuria e un vilipendio, che a
dirittura ci colpisce e percuote, ove l’amor proprio e l’orgoglio si sono trincerati,
riconcentrati, e vi hanno fatto il loro nido, ove d’ordinario si sogliono fare mille
eccezioni e riserve, non comprese nelle regole generali, dove la natura si racchiude
e rinserra quasi in profonda tana, e si premunisce con sottilissime industrie, e
si mette in agguato in mille modi, per mettere in salvo se non altro la testa, e
scansare il colpo di morte, nella maniera che usa il serpente, il quale se più
non gli è concesso di fare, procura di nascondere e assicurare il capo per
sottrarsi dal suo totale sterminio. Ora, il vincersi in tali casi molto dolorosi,
e abbracciare il disprezzo con un’abnegazione totale di se medesimo, che possa dirsi
anche morte, non succede, almeno secondo il corso ordinario della grazia, senza un
amore veramente efficace e di vigorosissima forza, che alla comparsa del fiero nemico
non vacilli e non crolli, ma prenda più ardimento, e con gran lena l’investa
e lo batta a corpo a corpo senza fermarsi, finché lo veda interamente atterrato
e distrutto.
Ahimeh! E come potrà esser tale, se è un amore languido, imperfetto
e difettoso o mancante, appunto per quella parte dove bisognava che fosse più
radicato e robusto? Come potrà esser tale, se non,essendo stato applicato
dall’uomo a quel genere particolare di disprezzi, che gli giungono come nuovi, e
da quel lato più geloso non è punto assuefatto ad espugnar la superbia,
e mai non si è provato a scaricarle un colpo?
Ci resti impresso pertanto nel cuore, se vogliamo un amore al disprezzo perfezionato,
compiuto e valevole a resistere alle occasioni di vilipendi, e specialmente a quelli
per cui siamo più sensibili e vivi, ed ove è più veemente la
ripugnanza della natura, e in conseguenza la vittoria più bella, a Dio più
gloriosa e a noi più profittevole, che non ci deve bastare d’impiegare l’affetto
nel solo disprezzo in generale e in astratto, ma, come si è detto, deve prendersi
di mira anche qualunque sorta di vilipendio particolare, e produrre atti di amore
ben intenso sopra ciascuno di essi in modo speciale, salva sempre la divina volontà,
la discrezione e l’obbedienza.
Soprattutto poi bisogna insistere e profondarsi in quei capi di speciali disprezzi,
ove più è riluttante il nostro orgoglio ed amor proprio, affinché
si ami il disprezzo adeguatamente, in tutte le sue parti, e siamo pronti a ricevergli
tutti con buon cuore, e a comportarci da veri amanti dei gran tesoro che si contiene
nella virtù del disprezzo.
Bisogna anche avvertire, che in singolare maniera si debbono amare sopratutto proprio
quei disprezzi che attualmente ci assalgono e ci travagliano; perché dal buon
uso di essi dipende allora la nostra santificazione: quello è il soggetto
in tal tempo per noi più interessante, che richiede l’atto e l’esercizio della
nostra affezione; quella è la preda che in quell’ora si espone alla nostra
conquista, e ancora perché in essi riluce in tali circostanze l’ordine e la
volontà santissima del Signore, che ce li manda e permette, onde sono i più
belli e preziosi; e in conseguenza con amore accettati, riescono a Dio di maggior
gloria, e all’uomo di maggior merito, profitto e corona. Non ci cada mai dunque in
pensiero di voler soffrire qualunque oltraggio e disprezzo con questa riserva: purché
non sia quello in particolare, che ci piomba allora sul capo e c’investe e ci affligge:
perché anzi questo dee essere il primo ad occupare il nostro amore, in ossequio
di quel gran Dio che ce lo vibra dall’alto, prescelto dall’infinita sua sapienza
sin dall’eternità tra mille e mille, come il più atto a recar gloria
a Dio e merito a noi. Quindi alla sorpresa di qualunque special disprezzo senza alcuna
eccezione entreremo nei sentimenti di Gesù, che nell’avventarsigli addosso
l’empio suo traditore con una masnada di sgherri, di soldati e d’uomini assetati
del suo sangue, disse Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?
(Gv 18,11)
prossima |