L’IDEA CRISTIANA DELLA CHIESA AVVERATA NEL CATTOLICESIMO
di Giovanni Perrone S.J.
CAPO II.
La Chiesa da G. C. fondata altro non è che un prolungamento della sua esistenza
visibile sopra la terra.
La istituzione
della Chiesa è il capolavoro della incarnata sapienza, il fine precipuo di
sua divina missione, e quella in cui G. C. compendiò se stesso. Non si può
pensare a questa divina istituzione senza esser compresi dalla più alta ammirazione
nel considerare i profondi disegni che ebbe l’uomo-Dio in fondarla. Ella è
questa una istituzione al tutto nuova riguardata nel suo assieme (1). Perché se ben
si rifletta rispetto agli altri doni che sono stati dalla larga e munifica mano gratuitamente
largiti da Dio agli uomini, distinti da questa istituzione, noi ravvisiamo che questi
già trovavansi nella legge antica; tali sono il dono della fede, il dono della
grazia, il dono de miracoli e della profezia. Imperocché la fede già
trovasi ne’primi progenitori, ne’ patriarchi, e in tutti i giusti dell’antico Patto:
era questa fede nel futuro promesso Messia che quelli giustificavansi, ed anzi di
questa fede vivevano (2), era l’unica
condizione per la quale, essi potevano piacere a Dio (3). La grazia sebbene ora in maggiore abbondanza
e copia concedasi a quei che vivono sotto il Vangelo, pure davasi eziandio nella
sua giusta misura a quei che vivevano tanto sotto la legge di natura quanto a quelli
che vissero nella legge scritta. Del dono di miracoli e profezia non è a dubitarsi
da chi percorra le pagine del Testamento antico. Anzi era questo dono più
abbondante forse negli antichi tempi, perché dovevano gli Ebrei essere con
questi tutelati contro lo scandalo continuo e le insidie del paganesimo dal quale
erano circondati, le profezie poi per avvivare di mano in mano la fede e l’aspettazione
del promesso liberatore. Laddove della Chiesa non avevano che un adombramento, uno
schizzo nella teocratica istituzione del loro governo e della sinagoga.
Nel resto questa teocratica forma, e questa sinagoga era ben lontana dalla istituzione
della Chiesa fondata da G. C. e ciò per più capi. E primamente perché
quella non era esclusivamente necessaria per aver la fede, la grazia e la saluto.
Imperocché la fede, la grazia e la salute poteva aversi fuori della sinagoga,
come di fatto non pochi l’ebbero fra i gentili estranei alla medesima. L’esempio
di Giobbe e dei suoi amici n’è una prova incontrastabile. Lo stesso è
a dire degli altri antichi patriarchi i quali vissero anteriormente alla legge scritta
e alla istituzione della sinagoga. Di più perché la sinagoga era locale,
provvisoria, e come una preparazione della Chiesa avvenire destituita delle proprietà
e prerogative, che alla Chiesa di G. C. si addicono esclusivamente. Dio aveva scelto
nella posterità di Abramo un popolo in cui e per cui si perpetuasse la fede
nell’unico creatore e sovrano dell’universo e nel promesso liberatore fino all’adempimento
di questa: promessa, e che però egli resse con una special provvidenza straordinaria
e sovrannaturale a tal fine, ma senza punto derogare a quanto egli aveva conceduto
e concedeva di fede, di grazia e di salute ai gentili sparsi per tutto l’universo.
Laonde questi, ancorché avessero conoscenza della sinagoga non eran tenuti
affin di operar la loro eterna salute l’aggregarsi alla medesima, come una necessaria
condizione. In terzo luogo la sinagoga era fissa al suolo d Palestina, ed era determinato
il luogo come centro di culto il tabernacolo al quale poscia si sostituì il
tempio, fuori del quale non potevano offrirsi i solenni sacrifici.
Quindi ben potea dirsi in senso largo e in qualche significato Chiesa giudaica, se
così si vuole, una figura, un tipo della vera Chiesa, ma non mai nella stretta
e rigorosa significazione di questo nome, giacché questa per la prima volta
è stata da Cristo istituita e fondata. Di qui è che mai nell’antico
Testamento troviamo esser con questo nome e in questa significazione denominata Chiesa
l’antica sinagoga. Il nome non men che la cosa ‘con esso significata tutta è
esclusivamente nuova, e propria della istituzione del Salvator dei mondo. Egli solo
per primo la istituì e Chiesa e la chiamo sua (4).
Né poteva essere altrimenti, dapoiché egli con questa istituzione ammirabile
qual frutto dei sangue e della morte sua volle perpetuar se stesso, e prolungare
indefinitamente la sua esistenza visibile e terrena pel corso di tutti i secoli.
Volle compendiare in essa le sue prerogative medesime e i vantaggi, che colla sua
incarnazione divina aveva recati al mondo. E perché non abbia a dirsi esser
questa una idea soggettiva nostra, gratuita, e senza fondamento, ragion vuote che
la fortifichiamo con prove di ogni fatta, sino a non lasciar traccia di dubbio intorno
alla sua verità obbiettiva.
Prima prova di questa verità sono le parole con le quali il divin Redentore
promise di essere con i suoi apostoli neìl’esercizio di loro missione del
predicare e battezzare dicendo: Ecco che io sono con voi ogni giorno fino alla
consumazione de’ secoli; con esse non solo promise loro assistenza, ma pure una
permanenza perpetua, sono con voi, colle, quali significò che sebbene
egli si sottraesse alla loro, vista colla sua dipartita dalla terra colla gloriosa
ascensione sua al cielo, pure continuava invisibilmente a rimanersene con loro in
ogni tempo in un modo al tutto nuovo, col convivere in mezzo ad essi. Questa continuazione
di vita colla sua Chiesa sulla terra è quello appunto che io chiamo prolungamento
di sua esistenza visibile perché si manifesta nella esistenza di questa Chiesa
medesima, come il sole seguita a manifestarsi agli occhi dei mortali dopo il suo
tramonto sull’orizzonte coi suoi raggi e coi suoi crepuscoli.
Seconda prova è la denominazione di corpo, cioè mistico, che si dà
alla Chiesa di G. C. nelle sacre Scritture. Or nulla di più frequente di una
così fatta espressione. L’Apostolo così la chiama in più luoghi;
nella prima ai Corinti dice espressamente ai fedeli: «Voi siete il corpo di
Cristo, e membri (uniti) a membra» (5), e nella seconda
epistola ai medesimi esortando i ministri della Chiesa a patire e soffrire per amor
di G. C. scrive: «portando noi sempre per ogni dove la mortificazione di Gesù
Cristo nel corpo nostro affinché la vita ancor di Gesù si manifesti
ne’ corpi nostri. Imperocché continuamente noi, che viviamo, siamo messi a
morte per amor di Gesù; affinché la vita di Gesù si manifesti
nella carne nostra mortale (6)», colle
quali parole questo grande apostolo aperto significa costituir noi una cosa stessa
con G. C. come partecipi della sua morte e della sua vita, ossia della gloriosa sua
risurrezione perché siamo animati dal suo spirito che si governa e regge come
il suo proprio corpo, come apparisce da tutto il contesto.
Tutto questa però vien meglio e più espressamente dichiarato dallo
stesso apostolo nella epistola agli Efesini ai quali dando ragione del conto in che
tien Cristo la Chiesa sua la pone in ciò: «perché siam membra
del corpo di lui, della carne di lui e delle ossa di lui» (7), cioè perché
tutti noi fedeli, quanti siamo, siamo membra del mistico corpo di G. C., siamo della
carne di lui e delle ossa di lui, perché siamo di quella stessa natura, che
egli assunse per noi, e che anima e governa mai sempre col suo medesimo spirito e
le dà vita.
Terza prova è il dirsi così soventemente nelle sacre Scritture G. C.
capo della sua Chiesa; or questo pure troviamo nelle epistole di s. Paolo. Nella
lettera agli Efesini scrive che Dio «costitui Lui, cioè G. C., capo
sopra tutta la Chiesa, la quale è il corpo di lui, ed il complemento di
lui, il quale tutto in tutti si compie» (8); e in quella stessa forma che il corpo
umano in quanto è fatto per l’anima umana è quasi un complemento dell’anima
stessa, cosi la Chiesa fatta per Cristo è il complemento di Cristo, il quale
fa un tutto compiuto e perfetto nella unione con tutti i suoi membri. Questa stessa
locuzione vien ripetuta verso la fine della stessa lettera dicendo: «Perciò
l’uomo è capo della donna: come Cristo è capo della Chiesa; ed egli
è salvatore del corpo suo (9)», e altrove
«Egli, scrive, è il capo del corpo della Chiesa» (10).
Quarta prova è il chiamarsi G. C. sposo della Chiesa qual egli si guadagnò
a prezzo di sangue; or di questa qualità di sposo della Chiesa ragiona lo
stesso apostolo, il quale da essa ricava l’istruzione morale dei doveri scambievoli
dei coniugi scrivendo agli Efesini: «Uomini amate le vostre mogli, come anche
Cristo amò la Chiesa, e diede per lei se stesso, al fine di santificarla mondandola
colla lavanda di acqua mediante la parola di vita, per farsi comparir davanti la
Chiesa vestita di gloria senza macchia e senza grinza od altra tal cosa, ma che sia
santa ed immacolata… Per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre stia,
e starà unito alla sua moglie: e i due saranno una carne. Questo sacramento
è grande, io però parlo riguardo a Cristo ed alla Chiesa (11)», e nell’Apocalisse
l’angelo dice a s. Giovanni: «Io ti mostrerò la sposa, moglie dell’Agnello
(12)», cioè
la Chiesa; e così altrove. Or non vi è unione più stretta ed
indissolubile di quella che passa tra i coniugati, i quali non costituibeono che
una sola persona morale.
Quinta prova è quel dirsi, che Gesù soffre e patisce nei suoi fedeli,
come nelle membra dei corpo suo. A questo si riferiscono le parole dette da Cristo
a Saulo allorché infuriava contro la Chiesa sua: «Saulo, Saulo perché
mi perseguiti?» ancorché Saulo propriamente non, perseguitasse
che i soli seguaci di G. C. ossia la Chiesa sua. In questo senso scriveva l’apostolo
ai Colossesi: «Do nella carne mia compimento a quello che rimane di patimenti
di Cristo, a pro del corpo dì lui, che è la Chiesa» (13), non che la
passione di Cristo abbia bisogno di supplemento, o che alcuna cosa debbano ad essa
aggiungere i patimenti de’ Santi; ma considerando Gesù Cristo e la Chiesa
come una sola persona, della quale il capo è Cristo, e i giusti sono le membra,
e sapendo ancora, come è voler di Dio, che a imitazione del loro capo debbano
patire e portar la loro croce anche i membri per arrivare alla gloria, i patimenti
che soffrono gli stessi membri, figura l’apostolo come sofferti dal medesimo Cristo
per l’intima connessione di amore e di carità, che regna tra questo e quegli;
onde con enfasi grande dice, che quello che egli soffre nella sua carne, è
per compiere per la sua parte la misura di quei patimenti che Cristo soffrirà
nei suoi membri sino alla fine del mondo (14).
Tralascio altre prove che si potrebbero recare a confermar questa verità ,
le quali tutte concorrono mirabilmente in porgerci questa sublime idea della Chiesa
la quale non è che una specie di continuazione della divina incarnazione,
con questa differenza, che nell’assumere il Divin Verbo l’umana natura se la congiunse
in unità di persona e fisicamente, si unì alla Chiesa moralmente e,
per grazia. E in questa unione morale di grazia e di carità seguita egli a
vivere, nella Chiesa e colla, Chiesa finché durerà il tempo, per poscia
continuar questa vita medesima nella celeste magione per la intiera eternità.
I dottori e padri della Chiesa sono unanimi sotto questo rispetto riconoscendo una
intima unione di G. C. con la Chiesa sua sempre permanente; unione per cui la Chiesa
vivo ed opera nella santificazione nel mondo. Quindi essi si piacciono in chiamar
Cristo capo della Chiesa, ma capo che dirige, ma capo che governa, che sostiene,
che difende il corpo suo, capo che in esso influisce coi suoi lumi celesti, con le
sue divine ispirazioni, con le sue consolazioni interiori, capo che riconosce come
fatto a sé ciò che vien fatto ai membri suoi o sia di gloria e di esaltazione,
o sia di persecuzione e d’ignominia, perché una sol cosa é col corpo
suo; così S. Ireneo il quale scrive, che come il Verbo-uomo ricapitolando,
ossia raccogliendo in se stesso le cose tutte, di quella guisa che il verbo di Dio
è il principe delle cose sopracelesti, spirituali ed invisibili; così
è giusto che nelle visibili eziandio e corporali abbia il principato, assumendo
il primato in se stesso, e ponendo sé capo della Chiesa, tragga le cose tutte
a se stesso a tempo suo (15). Così
s. Cipriano (16), così
s. Basilio (17), così
s. Gio. Crisostomo, che inoltre chiama la Chiesa la pienezza di Cristo (18), cosi s. Girolamo
(19).
Ma piaccionsi più particolarmente i medesimi Padri chiamar Cristo sposo della
Chiesa, e la Chiesa sposa di G. C. per quell’intimo ed indissolubile congiungimento
o nodo che assieme li stringe, non che per la comunicazione di beni che da questo
divino sposo alla Chiesa ne deriva. È famigliare ad essi questa appellazione
biblica, come può vedersi in Tertulliano (20), in s. Cirillo Gerosolimitano (21), in s. Gio.
Crisostomo (22), ed altri. Alludono
apertamente al capo V dell’epistola dell’Apostolo agli Efesini e come tra gli altri
fa Tertulliano, il quale da questo luogo trae uno stringente argomento per convincere
Marcione di gravissimo errore nel condannare le nozze, poiché essendo queste
detto dall’apostolo un gran sacramento in Cristo e nella Chiesa, con questo insegna
come un così fatto congiungimento dell’uomo e della donna è sacramento
grande in quanto che significa e figura una gran cosa, cioè l’unione di Cristo
colla Chiesa; l’apostolo esorta i coniugi all’amore scambievole, o a tale amore,
per cui una cosa sola di due si facciano, per forma che siano una sola carne, una
sola anima. Dice poi essere una dilezione siffatta figura e sacramento, ossia tipo,
immagine e specchio dell’amore di Cristo verso la Chiesa, la quale devo aderire e
agglutinarsi con lo sposo suo, che diventino di due una sola cosa, e ambedue non
siano che, uno, e però che la Chiesa non d’altro spirito viva, e si regga
se non di Cristo, affinché in essa viva Cristo, ed essa in Cristo (23). Quindi è
famigliare agli stessi Padri l’affermare essersi formata la Chiesa dal lato di G.
C. morto in croce, come Eva dal lato di Adamo dormiente, come a lungo tra gli altri
espone il Crisostomo (24).
Il sacerdozio che esercita mai sempre G. C. per mezzo de’ suoi ministri nella Chiesa
nella confezione e amministrazione e valore de’ sacramenti non su di altro poggiasi,
che in questa intima congiunzione di Cristo colla Chiesa sua, dell’informarla che
egli fa di sua continuata presenza. Dottrina della Chiesa universale svolta maravigliosamente
e difesa da s. Agostino contro i Donatisti, secondo la quale il valore dei sacramenti
non dipende punto sia dalla fede sia dalla disposizione del ministro. Imperocché
i sacramenti non sono degli uomini, ma di Cristo, ed egli è che per mezzo
dei ministri suoi battezza, assolve o distribuisce la grazia propria di ciascun sacramento,
che opera per virtù propria, ossia per quella virtù inerente per G.
C. ai sacramenti della nuova legge. Per questo principio, inconcusso è divenuto
celebre il detto di s. Agostino: Battezzi Pietro, questi, cioè Cristo, è
quei che battezza, battezzi Paolo questi é che battezza, battezzi Giuda, questi
è che battezza (25). G. C. è
quegli che meritò questa virtù dei suoi sacramenti, e che comunica
ogni qual volta che colla dovuta formula, materia ed intenzione per mezzo dei suoi
ministri si danno e si amministrano. Ciò che chiaramente si manifesta nel
sacramento della Eucaristia, mentre i sacerdoti in nome stesso di Gesù Cristo
pronunziano le parole consecratorie.
Dal che si fa chiaro altro non essere la Chiesa che il corpo mistico dei Salvatore,
la sposa sua, il suo sacerdozio, la manifestazione della invisibile sua presenza,
la quale si estrinseca per mezzo della Chiesa, che forma un sol tutto con Lui. È
G. C. alla Chiesa quello che è il Verbo all’umanità sacrosanta, salva
la dovuta proporzione già per noi notata. Ora il Verbo d’invisibile che egli
è in se stesso per mezzo dell’assunta umanità, si fece visibile al
mondo, operò visibilmente le sue meraviglie nel mondo, insegnò la sua
celeste e divina dottrina in un modo sensibile al mondo; così questo Verbo
fatto uomo sottrattosi dall’ aspetto del mondo con risalire in cielo seguita a rendersi
visibile per mezzo della sua Chiesa, opera nella sua Chiesa i prodigi di sua bontà,
e si rende manifesto al mondo sensibilmente per la sua Chiesa. Quindi ben può
analogicamente, chiamarsi la Chiesa la perenne manifestazione del Divin Verbo-incarnato,
la continuazione di questa sua ammirabile incarnazione.
E poiché il divin Verbo con l’assumere a sé ipostaticamente l’umana
natura la fece sua e se ne servì per operarci prodigi di sua carità
e bontà in pro degli uomini, principalmente in ammaestrarli, in porger loro
gli esempi di ogni eccelsa virtù, sicché questi avessero in lui un
modello perfetto cui imitare col calcare le vestigia da lui segnate nel suo passaggio
sulla terra, ma sopra tutto col dare il prezzo dei riscatto nella redenzione dell’uman
genere, così a proporzione egli seguita a fare della sua Chiesa e per mezzo
di essa Chiesa. Continua G. C. in essa e per essa a far la manifestazione e di questi
esempi di virtù e di ammaestramenti e di redenzione, con l’applicazione perenne
dei meriti del riscatto fino alla fine dei secoli. Tanto che gli uomini hanno sempre
nella Chiesa e per la Chiesa presente a sé quest’uomo-Dio, che porge esempio
di sé, che istruisce, che santifica, come fosse ognor vivente, e tra lor conversasse.
Né qui si restringe il tutto, ma proseguendo l’idea della continuata incarnazione
di quest’uomo-Dio nella sua Chiesa, ne rampollano quali preziosi corollari non pochi
pregi di’ questa sua istituzione che la innalzano incomparabilmente agli occhi della
fede che la contemplano. Imperocché è fuor di ogni dubbio; che per
l’ipostatico congiungimento del Verbo colla umana natura comunicò alla medesima,
in quanto n’era capace, e salva la perfetta distinzione delle due nature, quelle
proprietà che spettano alla natura divina. Tal è la dottrina dei Padri,
i quali all’unisono in ciò convengono che per la sostanziale intima unione
delle due nature in Cristo, la natura divina invase e penetrò talmente la
natura, umana, che questa oltrepassò la misura e i termini suoi, come tutta
deificata, ed innalzata al di sopra di sua condizione. Tra gli altri in celebrare
questo ineffabile innalzamento si distinse s. Gregorio Nisseno, il quale dalla unione,
e come egli parla, dal mescolamento o temperazione delle due nature
pronunziò, che la parte inferiore più non rimanga nei propri termini
e proprietà, ma sia tratta alle doti della superiore, specialmente ove vi
sia una certa infinita differenza di forze e di maestà; e però che
Cristo-uomo per la unione della divinità sia stato imbevuto d’immortalità,
di luce, d’incorruttibilità, regno e dominazione (26).
Anzi lo stesso santo Dottore professa poco di poi, in ciò consistere tutto
l’arcano della divina incarnazione, che per la connessione della natura incorruttibile
e divina colla corruttibile ed umana non perdurassero ambedue in un certo senso ad
essere al tutto come prima; non già che la superiore venisse a cadere nella
inferiore, ma che la inferiore venisse imbevuta della maestà, incorruttibifità
e divinità della superiore; ciò che spiega lo stesso santo con dire
essere la divinità incommutabile ed efficacissima, mentre l’umanità
è inferma ossia debole e mutabile, e però ne seguita venir questa da
quella come assorta dalla sua maestà che prevale e sopraeccede infinitamente
l’assunta natura, come poscia a lungo espone. E così tengono del pari gli
altri Padri (27).
Di qui è agevole il farsi una qualche idea della sopraccellenza, della santità,
delle incomprensibili prerogative che per la incarnazione del divin Verbo provennero
nella assunta umanità, e qual concetto dobbiam farci di questo Uomo-Dio. La
comunione degli idiomi o proprietà, l’immeazione, se così è
lecito di esprimersi, della divina natura nella umana, le operazioni teandriche ,
e quanto può concepirsi di grande, di sublime di cui è capace una natura
finita, invasa, investita, penetrata da un Dio, e fatta propria di Dio. Possiamo
ciò illustrare coll’esempio di un limpidissimo disco di cristallo il quale
sia investito dai raggi solari, diviene questo, salva la condizione sua di cristallo,
per tal forma in ogni sua, parte illuminato da quell’ immenso torrente di luce che
dal sole dimana, che, appena distinguesi dallo stesso sole per la chiarezza; ovvero,
per servirmi di una similitudine famigliare agli antichi Padri, qualora un ferro
vien dal fuoco penetrato ed invaso diventa rovente, a tal punto che appena lo distingueresti
dal medesimo fuoco.
Or ecco quanto da queste premesse ne conseguiti per il nostro argomento. Se la Chiesa
è quasi un prolungamento della esistenza terrena dei Verbo fatto uomo tra
noi, se è come una continuazione della incarnazione medesima nella Chiesa
stessa, ne rampolla necessariamente, che debbano colla dovuta proporzione comunicarsi
alla Chiesa dì G. C. quei pregi, quelle proprietà , quelle doti di
sovrannaturale eccellenza che ne provennero alla sacrosanta umanità di G.
C. dall’intimo congiungimento che fece il divin Verbo nell’assumerla a sé
in unità di persona. Anzi ne segue, che avendo servito questa umanità
stessa di vivo ed animato strumento al divin Verbo che l’assunse ad uso suo nell’opera
della redenzione, il Verbo stesso deve considerarsi come il principale agente, che
in essa e con essa operava, la dominava e la reggeva, così devo considerarsi
l’uomo Dio come l’agente principale nella Chiesa sua e colla sua Chiesa che quale
strumento adopera in produrre le maraviglie sue nella santificazione delle anime,
nel reggerla e nel governarla in tutti gli atti suoi.
Di più, in quella guisa che gli atti direttamente, come a principio che opera,
alla persona si attribuiscono, sebbene come in radice provengono dalla natura, gli
atti di G. C. in retto si predicano del Verbo, giusta la dottrina di s. Cirillo alessandrino
nella sua lotta contro Nestorio, con dire che il Verbo nacque dalla B. Vergine, patì,
morì crocifisso, risorse nella carne (28), così quanto si fa nella Chiesa
deve ascriversi a G.C. il quale in lei e cori lei agisce, patisce, trionfa, santifica.
Laonde o si riguardi la Chiesa da Cristo istituita in sé, o si riguardi nelle
sue prerogative, nelle sue doti, nei suoi titoli, o si riguardi infine nelle sue
operazioni, e nei suoi atti sì ha a considerare come lo stesso Signor G.C.
in sé, nelle sue prerogative, doti e titoli, e nelle suo operazioni, come
quegli che in essa e per essa e con essa forma un sol tutto e una persona morale.
A lui come a dominante e reggente principale deve attribuirsi quanto essa è
e quanto da essa si fa.
Tale e non altra è la genuina idea cristiana della Chiesa di G. C. e dalla
quale come da sua vera sorgente dobbiamo dedurre la dottrina, che ci siam proposti
di svolgere a mano a mano nel nostro lavoro. Qualunque altra idea a questa si volesse
sostituire sarebbe sempre difettosa, manchevole ed imperfetta. Infatti colla idea
cristiana della Chiesa che, abbiam qui solo abbozzata ne deriva naturalmente e logicamente
la sua santità, la sua indefettibilità, la sua infallibilità,
perpetuità ed ogni altra proprietà e dote sua; si rende ragione di
sua condotta, e di ogni sua operazione nel reggimento de’ fedeli.
Per questo motivo l’illustre Moehler nella sua Simbolica di qui prese le mosse
in trattar della Chiesa; Gesù Cristo, scrive egli, per continuar l’opera sua
ha stabilita una società, umana, sensibile, che si può ascoltare ,vedere
e toccare ; ben più, l’incarnazione dei Verbo esigeva che la Chiesa fosse
visibile e cadesse sotto i sensi. La Chiesa è adunque G. C. che si rinnovella
incessantemente, riapparendo continuamente sotto una forma umana. È l’incarnazione
permanente del Figliuolo di Dio (29).
Prima però di svolgere per singolo nei seguenti capi quanto si contiene in
questa idea madre, e qui al nostro scopo appena accennato, a maggiore lucidezza dell’argomento
debbo osservare che il nome di Chiesa si piglia in doppio senso. Nel senso comunemente
adoperato per Chiesa s’intende tutta la collezione dei fedeli che professano la stessa
fede, partecipano agli stessi sacramenti, e sottostanno ai legittimi pastori, e principalmente
al vicario di G. C. il romano Pontefice capo visibile della stessa Chiesa. In senso
più ristretto si adopera a significare esclusivamente il ceto dei pastori,
che costituiscono la gerarchia, o il sacro principato. Ora delle proprietà
comunicate alla Chiesa, delle prerogative e doti, talune sono comuni a tutto il ceto
dei cristiani che costituiscono la Chiesa nel suo più ampio significato; talune
poi sono esclusivamente proprie dei ceto ecclesiastico, ossia della Chiesa tolta
nel suo più ristretto senso. Quindi secondo la diversa materia di che si tratta
sarà facile il discernere e sceverare quanto alla Chiesa dal divin Salvatore
in essa sia pertinente con l’uno o con l’altro dei due indicati sensi. Quanto, a
cagion d’esempio, si attiene agli atti dì autorità, d’insegnamento,
di amministrazione di sacramenti è di per sé manifesto doversi riferire
alla Chiesa nel più stretto significato di questa voce; quello per contro
che spetta alla fede, agli effetti e frutti dei sacramenti, e simili alla Chiesa
compete tolta nel suo più ampio significato.
Noi non pertanto dietro questa dichiarazione, ci serviremo promiscuamente dell’uno
e dell’altro senso, qualor non crediamo spediente il distinguerlo appositamente,
a scanso di qualsivoglia equivocazione. Nel resto, parleremo generalmente della Chiesa,
quale è stata da G. C. istituita coi due ordini complessivamente, e colla
quale egli intese perpetuare se stesso, e far di sé una continua manifestazione
sulla terra sino al terminar dei secoli. In tal guisa ci formeremo meglio quell’alto
concetto, che si addice a questa meravigliosa istituzione, vero capolavoro della
infinita sapienza e bontà di Dio, il quale si è degnato di ammetterci
a far parte di questa Chiesa medesima, e perciò meglio apprenderemo qual debba
essere la gratitudine, che gli dobbiam professare.
NOTE
1
Quando la istituzione della Chiesa qui si dice nuova riguardata nel suo insieme,
deve intendersi rispetto alla speciale istituzione di G. C. nel suo nuovo modo di
essere; poiché in quanto alla sostanza e nella sua generalità la Chiesa
cominciò fin dal principio del mondo, continuò nella legge mosaica,
e fu perfezionata in G. C. con avere da lui il suo compimento. In questo senso Bossuet
nel suo ammirabile discorso intorno alla storia universale dal principio del mondo
ne ripete la origine.
2 Habac. II, 4. Heb. X, 39.
3 Heb. XI, 6.
4 Ved. Bellarm , De Ecelesia militante, cap. 1, n.
5, ove osserva che non mai la Chiesa di G. C. fu chiamata sinagoga come fu
denominata la giudaica.
5 I. Cor. XII, 57.
6 II. Cor. IV, 10, 11.
7 Ephes. V, 50.
8 Ephes. I, 22, 23.
9 Ephes. V, 25.
10 Coloss. 1, 18.
11 Ephes. V, 25, segg.
12 Apoc. XXI, 9.
13 Coloss. I, 24.
14 Vid. Estia, Piconio, Martini a questo luogo.
15 Lib. III, Cont. hares. Cap. XVI, n. 6, ed. Mass.
16 Lib. De op. et Unit. Eceles. p. 344
17 Tom. I, p. 168, e tom. III, pag. 372.
18 Tom. II, p. 19.
19 Tom. 11, p. 699.
20 Lib. V, Cont. Marc. c. 18, p. 484, ed. Rigol.
21 P. 298, ed. Touttée.
22 P. 593. – Tom. V, p. 50 e 178.
23 Loc. cit. col commento di Regalzio.
24 Loc. cit. pag. 315, tom. III.
25 Tract. VI, in Jo. n. 7.
26 Orat. IV, cont. Eunom: – Ut enim in altissimo factus, superexaltatus
est; sic etiam alia omnia factus est in immortali immortalis, in luce lux, in incorruptibili
incorruptibilis; in invisibili invisibilis; in Christo, Christus; in Domino Dominus.
Nam eum pars altera in corporalibus temperationibus multis modis exuberat, quae minor
est transformari solet in eam partem, quae prevalet, id etiam in mystico sermone
plane, per vocem Petri docemur, quod humilitas ejus qui ex infirmitate crurifixus
est , ipsa autem infirmitas carnem declarat: … hoc per temperationem cum infinito,
et interminato non mansit in propriis mensuris et proprietatibus, sed dextera Dei
sublime elatum est, atque servi loro factus est dominus, et pro subdito Christus
rex, proque humili altissimus, et pro homine Deus. – Ed. Paris., 1615, p. 156.
27 Ved. Thomas, De Verbi Dei incarnat., lib. IV, c. 16.
28 Ved. in lib. De recta in Dominum Nostrum Jesum Christum
fide, Opp. ed. Paris, 1658, tom. V, par. II, et par. I, Dial. VIII, ad Hermiam,
De incarnatione Unigeniti. Ma specialmente negli anatematismi contro Nestorio
nel tom. VI. A questa la formula della quale egli felicemente si servi in combattere
l’empia dottrina di Nestorio. Formula consacrata anche dalla Chiesa nella sua liturgia.
29 Symbol., chap. V, § XXXVI, 2.me édit.
Trad. Lachat, Paris, 1852, tom. II, pag. 1, segg. – Defense de la Symbolique, tom.
III, 1853, cap. IV, pag. 386, segg.
Testo tratto
da: Giovanni Perrone S.J., L’idea cristiana della Chiesa avverata nel Cattolicesimo,
Genova 1862, pp. 43-61.