Alcune pagine
autobiografiche
del Card. Joseph Ratzinger
Il secondo grande
evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo
VI, con il divieto quasi completo del messale precedente, dopo una fase di transizione
di circa sei mesi. Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano
profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante,
era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il
divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata
in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto
normale. Il messale precedente era stato realizzato da Pio V nel 1570, facendo seguito
al concilio di Trento; era quindi normale che, dopo quattrocento anni e un nuovo
Concilio, un nuovo papa pubblicasse un nuovo messale. Ma la verità storica
è un’altra. Pio V si era limitato a far rielaborare il messale romano allora
in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli.
Non diversamente da lui, anche molti dei suoi successori avevano nuovamente rielaborato
questo messale, senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre
trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui, pero,
la continuità non veniva mai distrutta. Un messale di Pio V che sia stato
creato da lui non esiste. C’è solo la rielaborazione da lui ordinata, come
fase di un lungo processo di crescita storica. Il nuovo, dopo il concilio di Trento,
fu di altra natura: l’irruzione della riforma protestante aveva avuto luogo soprattutto
nella modalità di riforme liturgiche. Non c’erano semplicemente
una Chiesa cattolica e una Chiesa protestante poste l’una accanto all’altra; la divisione
della Chiesa ebbe luogo quasi impercettibilmente e trovo la sua manifestazione più
visibile e storicamente più incisiva nel cambiamento della liturgia, che,
a sua volta, risulto parecchio diversificata sul piano locale, tanto che i confini
tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili
da definire. In questa situazione di confusione, resa possibile dalla mancanza di
una normativa liturgica unitaria e dal pluralismo liturgico ereditato dal medioevo,
il Papa decise che il Missale Romanum, il testo liturgico della città
di Roma, in quanto sicuramente cattolico, doveva essere introdotto dovunque non ci
si potesse richiamare a una liturgia che risalisse ad almeno duecento anni prima.
Dove questo si verificava, si poteva mantenere la liturgia precedente, dato che il
suo carattere cattolico poteva essere considerato sicuro. Non si può quindi
affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento
regolarmente approvati. Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che
si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica
Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze
potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza,
era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio
che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell’introduzione
delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece
a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale
di cui era fatto l’edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non
c’è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli
autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato
presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo
la storia, che si vietasse quest’ultimo e si facesse in qualche modo apparire la
liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione
specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente
gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l’impressione che la liturgia
sia fatta, che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di
donato , ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza,
che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a
un’autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna comunità
voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa
che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è
la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro
prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita. Per la vita della
Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica,
una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia
della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo.
Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte
dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus
non daretur: come se in essa non importasse più se Dio c’è e
se ci parla e ci ascolta. Ma se nella liturgia non appare più la comunione
della fede, l’unità universale della Chiesa e della sua storia, il mistero
del Cristo vivente, dov’è che la Chiesa appare ancora nella sua sostanza spirituale?
Allora la comunità celebra solo se stessa, senza che ne valga la pena. E,
dato che la comunità in se stessa non ha sussistenza, ma, in quanto unità,
ha origine per la fede dal Signore stesso, diventa inevitabile in queste condizioni
che si arrivi alla dissoluzione in partiti di ogni genere, alla contrapposizione
partitica in una Chiesa che lacera se stessa. Per questo abbiamo bisogno di un nuovo
movimento liturgico, che richiami in vita la vera eredità del concilio Vaticano
II.
Da: JOSEPH RATZINGER,
La mia vita: ricordi, 1927-1977, Cinisello Balsamo: San Paolo, 1997,110-113.
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