«La Vera carità
verso il popolo ebreo»
del Servo di Dio
Mons. Pier Carlo Landucci
Giovanni Paolo
II
il giorno della canonizzazione di S. Teresa Benedetta della Croce – Edith Stein (1891-1942)
ebrea convertita, Carmelitana Scalza, martire “per il suo popolo”
In un importante Simposio in memoria del centenario della nascita del Cardinale Agostino
Bea, [1881 Ü nov 1968 n.d.r.] tenuto a Roma nel dicembre u.s., furono riferiti alcuni
stralci di uno studio dell’illustre biblista, sugli Ebrei. Si trattava di un articolo
che il cardinale aveva preparato per la “Civiltà Cattolica”, ma
che allora non fu pubblicato, presumibilmente perché i tempi non erano ancora
maturi. Il testo è stato ora pubblicato integralmente nel n. 3161, 6 marzo
u.s. della rivista. Si è infatti maturato frattanto un clima di distensione
riguardo agli Ebrei, precisato nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate,
§ 4.
Ma è rimasto entro i limiti di tale precisazione il Card. Bea, tutto proteso
alla “benevola scusa” dei condannatori di Gesù, a distinguere la
loro responsabilità “oggettiva” dalla “soggettiva”, a
collegare soltanto alla prima le 94 calamità” conseguenti profetizzate
da Gesù, a suscitare la “doverosa carità” e “gratitudine”
verso quel “popolo eletto”, a giustificare tutto ciò per “amore
di Gesù e di Maria”, e tutto questo senza distinguere il prima
e dopo la tragedia del Calvario?
Per un sereno esame critico di tali posizioni non mi aggancerò ora strettamente
alle parole di detto articolo, dato che in esso sono come riassunte e in qualche
modo radicate tutte le posizioni filoebraiche, più spinte, che stanno sempre
più diffondendosi nel mondo cattolico. Passo cioè senz’altro alla loro
generale considerazione.
Qualunque siano le accuse che sì fanno, fra i motivi di benevolenza verso
gli Ebrei, si adduce sempre il dovere della carità, da estendersi evangelicamente
anche ai nemici.
Ora a me preme soprattutto rilevare che queste metodiche scuse a loro riguardo sono
invece contro la illuminata e vera carità, perché contribuiscono a
nascondere ad essi la drammatica e tragica situazione obiettiva in cui sono venuti
a trovarsi dopo la condanna di Gesù.
La vera carità verso gli ebrei è di illuminarli lealmente su tale situazione,
sollecitando in tal modo anche per essi – e come individui e come popolo – il “ravvedimento”
e la redenzione ad essi promessa “per primi” (At. 3,26), essendo
i «doni di Dio e la vocazione di Lui irrevocabili.» (Rm.
11,29)
Tale “irrevocabilità” infatti, come spiega San Paolo, non si riferisce
a coloro che proseguono a rifiutare Gesù, i quali, «per la loro incredulità
sono stati recisi (dall’olivo salvifico)» (11,20), ma a coloro che, «se
non persistono nella incredulità (vi) saranno innestati / … / di nuovo»
(23), quando cioè avrà termine «l’accecamento di una parte d’Israele
e tutto Israele si salverà.» (25,26)
San Paolo
predica agli Ebrei
mosaico XII secolo
Tornerò più
avanti su questo punto fondamentale. Ma intanto è chiaro che tale “irrevocabilità”
del “dono di Dio riguarda proprio il piano obiettivo (sempre concesso che ognuno,
soggettivamente in buona fede, può salvarsi, parte la maggiore o minore difficoltà)
e la vera carità deve mirare a togliere quell'”accecamento” e non
ad alimentarlo, facendo dimenticare i fatti obiettivi e moltiplicando le scuse.
Dunque proselitismo? Certo. Non vi può essere dubbio, per chi ha veramente
la carità verso gli Ebrei e quindi vuole il loro vero bene. Nel quadro anzi
della missione apostolica, pur essendo essa rivolta a tutti (Mt. 28,19; Mc.
16,15) essi debbono avere una posizione privilegiata, un “primato”, come
ho già accennato, per condurli a riconoscere il Redentore.
Così si regolò Gesù inviando gli Apostoli «prima
alle pecore sperdute della casa d’Israele» (Mt. 10,6), obiettando addirittura,
alla Cananea, di «non essere stato mandato che per esse» (15,24), così
da essere stato definito da San Paolo come «posto al servizio dei circoncisi
/ … / compiendo le promesse fatte ai padri.» (Rm. 15,8) E, di fatto,
dopo la Pentecoste, la prima predicazione degli Apostoli e le prime abbastanza vaste
adesioni si ebbero tra gli Ebrei e San Paolo, nei suoi viaggi, iniziò sempre
la predicazione nelle sinagoghe e nelle assemblee ebraiche (At. 9,20; 13,5;
13,14; 14, 1; 16,13; 17, 1-2; 17,10; 17,17; 18,4; 19,8).
Il dialogo quindi animato da vera carità verso gli Ebrei, non solo non esclude,
ma deve mirare soprattutto alla loro conversione. È umanamente comprensibile
che, prima di questa conversione, tale prospettiva sia ad essi sgradita. Ma non potranno,
in definitiva, non ravvisarvi la lealtà e l’amorevole intenzione dell’interlocutore
cattolico (il quale agisca, s’intende, con illuminata discrezione).
La traduzione, oggi non rara, del clima ecumenico come dialogo senza proselitismo
è una errata interpretazione dell’ecumenismo, in antitesi con l’insegnamento
evangelico. (Devo quindi supporre che, quando l’anno scorso, in una intervista, il
nuovo arcivescovo di Parigi [Lustiger; n.d.r.], escluse, in relazione agli Ebrei,
il proselitismo, si sia riferito soltanto ad una sua modalità artificiosa,
non ispirata dal vangelo, indiscreta.)
l’ex rabbino
capo di Roma Eugenio Zolli
convertio al cattolicesimo
La soggettiva scusante
della ignoranza viene, in genere, addotta per scagionare gli Ebrei che vollero
la morte di Gesù. Se ne addita la conferma nelle parole stesse di Gesù,
dalla croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno»
(Lc. 23,34) Anche San Pietro, parlando al popolo, nel portico di Salomone,
dopo la clamorosa guarigione dello storpio, disse: «Io so che voi operaste
per ignoranza, come anche i vostri capi.» (At. 3,17)
Ma sono rilievi ingannatori. Prima di tutto, Gesù non escluse la colpa, tanto
è vero che chiese al Padre di “perdonare”. Né la escluse
San Pietro, tanto è vero che aggiunse: «Ravvedetevi dunque e convertitevi
perché si cancellino i vostri peccati.» (19)
Inoltre le attenuanti, se vi sono, non eliminano la responsabilità
grave. In fondo qualsiasi grande peccatore non sa pienamente “quello che fa”,
in quanto va incontro alla propria infelicità che non vorrebbe avere. Nel
caso particolare del Sinedrio, l’ignoranza riguardava bensì la verità
di Gesù come promesso Messia e tanto più come Dio. Essi non intesero
certo di uccidere un Dio. Ma la responsabilità sta proprio in quella ignoranza
la quale non era invincibile, come è provato dal fatto degli Apostoli e di
tanti altri Giudei che seguirono Gesù.
Vi fu cioè la grave responsabilità di non aver vinto, con l’aiuto
della grazia, quella ignoranza. Su questo punto dobbiamo, d’altra parte, stare alla
rivelazione, che svela i motivi viziosi di tale oscuramento. Gesù ha parlato
chiaro. Le profetizzate punizioni sono esplicitamente legate alla colpa (Castighi
“esemplari per l’umanità”, come dice il card. Bea, nel tentativo
di non legarli alla colpa? “Esemplari” certamente; ma non lo sarebbero
più, se fossero staccati dalla colpa): «Se non vi accolgono … /vi
dico che Sodoma in quel giorno avrà sorte più tollerabile / … / Guai
a te Corozain! Guai a te Betsaida, perché se in Tiro e Sidone fossero stati
fatti i miracoli che sono stati fatti in voi, già da tempo / … / avrebbero
fatto penitenza / … / E tu, Cafarnao, / … /fino all’inferno sarai abbassata»
(Lc. 10, 10-15) «Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti e lapidi
coloro che a te sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figlioli
/ … / e voi non avete voluto! Ecco la vostra casa sarà abbandonata»
(Lc. 13, 34-35) «Pianse su di essa (Gerusalemme) dicendo: Ah! se avessi
/ … / anche tu riconosciuto il messaggio di pace! Ma ormai è rimasto nascosto
ai tuoi occhi / … / ti assedieranno, ti stringeranno da tutte le parti / … /
poiché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc.
19, 41-44)
E, più direttamente, ecco le motivazioni peccaminose di quell’accecamento,
rivelate da Gesù: «Sono le Scritture che rendono a me testimonianza
/ … / Come potete credere voi, che andate in cerca di gloria gli uni dagli altri,
e non cercate la gloria che viene dal solo Dio? / … / Se voi credeste a Mosè,
credereste anche a me, perché egli di me ha scritto.» (Gv. 5,
39. 44. 46) «Se voi non credete che io sono, morirete nei vostri peccati /
… / Per qual ragione non comprendete il mio linguaggio? / … / Voi avete per padre
il diavolo / … / egli è mentitore e il padre della menzogna/ … /Voi non
ascoltate le parole di Dio perché non siete da Dio.» (Gv. 8,
43. 44. 47) «Se non fossi venuto e non avessi loro parlato, non avrebbero colpa;
ma ora non hanno scusa per il loro peccato… Se non avessi fatto tra loro le opere
che nessun altro ha fatto, non avrebbero colpa; ma ora, benché abbiano veduto,
pure odiano me e il Padre mio.» (Gv. 15,22.24). Confronto con la colpa
di Pilato: Chi mi ha consegnato nelle tue mani è più colpevole.»
(Gv. 19,11) Gli ebrei rigettati: «Voi non credete perché non
siete delle mie pecore.» (Gv. 10,26)
Una sintesi generale, ovviamente riferibile, in particolare, ai condannatori di Gesù,
è così espressa da San Giovanni: «La luce è venuta nel
mondo e gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le
loro opere erano cattive.» (Gv. 3,19)
Analoga e illuminante, circa le responsabilità soggettive degli Ebrei
e, in particolare, del Sinedrio, è l’azione contro Santo Stefano e la reazione
di questi, illuminato dallo Spirito Santo, ampiamente descritta dagli Atti.
Morì gridando a gran voce: «Signore non imputare a loro questo peccato»
(7,40) V’è il perfetto eco delle prime parole del Signore dalla Croce. E la
richiesta caritatevole del perdono per il peccato che era però effettivamente
commesso.
Santo Stefano non nomina nemmeno le attenuanti della ignoranza che potevano, in qualche
modo, esservi. Non manca anzi di svelare il colpevole atteggiamento interiore dei
suoi carnefici: «O duri di cervice e incirconcisi di cuore e di orecchi: voi
sempre contrastate con lo Spirito Santo. Come i padri vostri, così voi. Quale
dei profeti i padri vostri non perseguitarono? Uccisero anche i preannunciatori della
venuta del Giusto, del quale voi foste ora i traditori e gli omicidi» (7,51-52)
Il Ven. F.
Libermann C.S.S.R.
ebreo convertito
Si insiste, sempre a riguardo
della responsabilità soggettiva, che essa è nota solo a Dio:
nessuno avrebbe quindi il diritto di giudicarla. Questo è vero in generale
e in senso assoluto. Ma nel caso della responsabilità giudaica per la condanna
di Gesù, la responsabilità soggettiva risulta dalle parole di Gesù
e dai testi scritturali sopra ricordati.
Ma, anche a prescindere da essi, si devono usare, a riguardo di quegli eventi storici,
i criteri di valutazione normali nelle indagini storiche, nelle quali i fatti vengono
valutati nelle loro manifestazioni esterne e i personaggi giudicati in relazione
ad esse. È sottinteso che la misura intima della responsabilità è
vista e giudicata solo da Dio e proprio per questo essa trascende il piano storico.
Ma il giudizio umano è invece legittimamente formulato sul piano storico.
Precludersi quindi di giudicare gli Ebrei, che condannarono Gesù, per il fatto
che Dio solo conosce appieno la intima responsabilità di ognuno è antistorico.
La responsabilità va legittimamente affermata in base al comportamento storicamente
provato, oltre che, come ho già detto, in base alle parole di Gesù
e alle affermazioni scritturali.
Hermman Cohen.
ebreo convertito divenuto carmelitano
Nessun dubbio vi può
essere quindi proprio sul fatto e la responsabilità del deicidio. Pur ammesse
le attenuanti per la ignoranza (non però scusabile, come ho detto sopra),
il deicidio risulta, sul piano obiettivo, come realtà ovvia, per il fatto
che il condannato è Gesù uomo-Dio. Il fatto, come tale, prescinde totalmente
dal grado di responsabilità soggettiva degli uccisori.
Anche supposto quindi il massimo delle attenuanti, nella linea della ignoranza della
vera persona di Gesù, il deicidio sarebbe, sul piano delle responsabilità,
colposo (cioè non propriamente colpevole), ma ancora reale.
L’esigenza, il dovere di un riconoscimento riparatore del clamoroso misfatto obiettivamente
compiuto, urgerebbe ugualmente per gli Ebrei. La massima carità verso essi
è ancora di richiamarli a questo supremo dovere. Ma, come ho già detto,
l’ignoranza fu tutt’altro che incolpevole (della colleganza con i non direttamente
responsabili, dirò tra poco).
È chiaro che, in merito al doveroso atteggiamento del proselitismo e della
carità cristiana, cattolica, verso gli Ebrei, si deve tener presente la certezza
assoluta di fede cristiana della divinità di Cristo. Non si tratta
del giudizio su un qualunque grande personaggio ma su colui che viene da centinaia
e centinaia di milioni di cristiani adorato come Dio. Il riconoscimento o
la negazione di tale personaggio e della sua missione assurgono quindi al massimo
livello di drammaticità e rendono inammissibile il disinteresse sul
problema da una parte e dall’altra.
Bisogna anche riflettere alla drammatica alternativa: o Gesù è veramente
l’uomo-Dio, affermato dai cristiani o egli è un sacrilego ingannatore. È
una alternativa che vale di fronte a qualsiasi posizione non cristiana, ma tanto
più di fronte a quella ebraica (vedremo perché “tanto più”).
Ogni valutazione quindi – e ogni intesa reciproca – che induca a far dimenticare
o a minimizzare tale alternativa costituisce un grave inganno e una offesa alle responsabilità
fondamentali della verità e della fede.
La vera carità verso gli Ebrei deve mirare quindi a farli riflettere su tale
alternativa e sulla obiettiva tesi del deicidio, per sollecitare il
ripensamento e la conversione a cui deve mirare il salutare proselitismo. Questo
potrà bensì dispiacere frattanto agli Ebrei: ma non offenderli se vedranno
il disinteresse e l’amore che anima quelle sollecitazioni (a differenza di un antisemitismo
anticristianamente animato dall’odio). Tutto considerato (e senza escludere la prudenza
tattica) la leale franchezza sul proselitismo è la più desiderabile.
Su questo punto, d’altra parte, non si può dimenticare o rinnegare l’esempio
apostolico, certamente ispirato (cfr. At. 4,8,31) dallo Spirito Santo. Eccetto
quella attenuante (non scusante) della “ignoranza” (non incolpevole) addotta
una volta sola da San Pietro (At. 3,17), questi ha sempre apostrofato tutti
quegli Ebrei come responsabili del grande misfatto, delineando implicitamente il
deicidio.
Nel Cenacolo, alla Pentecoste: «O Giudei e voi tutti, abitanti
di Gerusalemme / … / Gesù di Nazareth, da Dio approvato con grandi opere
e prodigi e portenti / … / catturato per mano di iniqui, voi l’avete crocifisso
e ucciso e Dio lo risuscitò / … / Riconosca dunque fermamente tutta la casa
d’Israele / … / Signore e Messia questo Gesù che voi crocifiggeste / …
/ convertitevi da questa generazione perversa. » (At. 2,14-40)
Nel tempio, nel portico di Salomone, al popolo accorso dopo la guarigione dello storpio:
«Dio ha glorificato il figlio suo Gesù che voi deste in
mano di Pilato / … / e chiedeste che vi fosse graziato un assassino. Voi
uccideste l’autore della vita.» (At. 3,13-15)
Arrestato con Giovanni, davanti al Sinedrio: «Sia noto a tutti voi e
a tutto il popolo di Israele che nel nome di Gesù Cristo Nazareno,
che voi crocifiggeste, e che Dio risuscitò dalla morte / … / quest’uomo
sta davanti a voi risanato. Egli è la pietra rigettata da voi edificatori,
che è diventata la pietra angolare (cf. Ps. 118,22); e in nessun altro
è salvezza.» (At. 4, 10,11)
Liberati e tornati Pietro e Giovanni presso i discepoli, nella comune preghiera innalzata
a Dio: «Sì, veramente si unirono in questa città contro
il santo Figlio tuo Gesù, da te consacrato, Erode e Ponzio Pilato con
le genti e con le plebi d’Israele.» (At. 4,27) E fu una preghiera sigillata
da una nuova clamorosa effusione dello “Spirito Santo” (31).
Di nuovo, davanti al Sinedrio, il sommo sacerdote, dimostrando di avere ben capito
la predicazione degli Apostoli, contesta loro: «Volete far ricadere su di
noi il sangue di quest’uomo.» E Pietro con gli Apostoli ribadisce: «Il
Dio dei padri nostri risuscitò Gesù, che voi uccideste appendendolo
in croce.» (At. 3,28.30)
Ancora Pietro a Cornelio Centurione: «Noi siamo testimoni di tutte le cose
che (Gesù) fece nella terra dei Giudei e in Gerusalemme; ed essi lo uccisero,
configgendolo in croce.» (At. 10,39)
Similmente Santo Stefano davanti al Sinedrio: «Voi foste ora del Giusto i
traditori e gli omicidi.» (At. 7,32) Così San Paolo: «Gli
abitanti di Gerusalemme e i loro capi ne chiesero a Pilato la morte.» (At.
13,28)
Come si vede, è una martellante e costante denuncia della responsabilità
obiettiva – e congiuntamente – subiettiva – giudaica, formulata sotto l’ispirazione
dello Spirito Santo, che sarebbe un inganno e contro la vera carità, far dimenticare.
E quanto, del resto, affermarono gli stessi Giudei, gridando a Pilato la celebre
espressione che indica il riconoscimento della piena responsabilità e l’accettazione
di tutte le conseguenze: «E tutto il popolo rispose: “Ricada il suo sangue
su di noi e sopra i nostri figli”.» (Mt. 27,23; cfr. At.
18,6) Affermazione che, troppo tardi, cercarono poi di rinnegare davanti agli Apostoli
(At. 3,28).
Da notare anche che il richiamo all’ignoranza quale attenuante (benché non
scusante) vi è solo nel discorso di Pietro al popolo comune, dopo la guarigione
dello zoppo, a un uditorio cioè nel quale era più facile ammetterla
in qualche misura e in circostanze che inducevano particolarmente a espressioni accattivanti
di benevolenza.
I fratelli
Auguste e Joseph Lemann
convertiti al cattolicesimo
E gli altri Giudei,
di allora e di oggi? ovvia la differenza di responsabilità diretta. Basta
pensare che, di contro agli uccisori di Gesù, molti Giudei si convertirono,
sicché le prime comunità di fedeli erano costituite da essi.
Il problema va posto però per i non convertiti.
Colpisce il fatto che nelle martellanti denunce dei crocifissori di Gesù,
gli Apostoli accumunarono sempre i capi e il popolo. E evidente che, quanto alla
possibile buona fede e alla possibile ignoranza pienamente scusante, esse possono
essere assai più facilmente ammesse per il popolo che non era direttamente
a conoscenza dei fatti e che giudicava in base alla autorità dei capi. Per
il popolo quindi – di allora e di oggi – può valere largamente la distinzione
tra piano soggettivo e obiettivo. Ma, a prescindere dal grado di responsabilità
soggettiva della ignoranza, la verità di Cristo e la tragedia del deicidio
restano integre sul piano obiettivo e reclamano la riparazione su quello stesso piano.
La carità verso gli Ebrei reclama quindi di condurli a tale riparazione, al
riconoscimento cioè del clamoroso errore compiuto, così da giungere
alla auspicata conversione.
Se si riflette alla suddetta fatale e suprema alternativa: o veramente uomo-Dio o
sommo, sacrilego ingannatore; che non c’è via di mezzo; e che i Giudei agirono
attivamente secondo la seconda valutazione, si comprende come non sia ammissibile
la noncuranza o neutralità di giudizio ed urga per i Giudei la conversione
riparatrice. La vera carità verso di essi non può quindi non tendere,
in tal senso, al più fervido e sereno proselitismo.
L’Ebreo attuale quindi, pur non avendo avuto alcuna parte attiva nel processo e nella
condanna storica di Gesù, rifiutandosi di riconoscerlo come Dio, non può
non essere moralmente solidale con quella condanna e far proprio, in qualche modo,
quel giudizio del Sinedrio come formulato verso un sacrilego e sommo ingannatore.
Questo se vuol seguire una elementare coerenza.
Ma, a parte la coerenza logica – che alcuni potrebbero anche trascurare – v’è
una ragione psicologica che dovette inclinare e gli antichi e gli attuali Ebrei a
solidarizzare senz’altro con l’atteggiamento di quel Sinedrio. È un popolo
infatti caratterizzato da straordinaria unità per il mutuo compenetrarsi dei
legami di sangue, di storia, di politica, di religione. Chi perde uno di questi legami
(per essere caduto, per esempio, nella miscredenza e aver perduto quindi il convinto
legame della religione) resta legato mediante gli altri, con il primario fondamento
nel sangue e nella circoncisione (avvalorati da forte unità familiare e grande
ostilità a matrimoni con non ebrei).
Questa solidarietà non ha confronto con altri popoli perché permane
nonostante la frammentazione di questo popolo nelle varie nazioni, assumendone le
rispettive nazionalità (anche dopo la creazione d’Israele, dove sono confluiti
soltanto 3,5 milioni di individui dei circa 15 milioni oggi esistenti). È
una unità etnica che ha sfidato i millenni e che difficilmente si può
spiegare senza un disegno della Provvidenza, perché si attui la profezia,
già ricordata, secondo cui, finalmente, dopo l’«accecamento di una parte
d’Israele / … /tutto Israele si salverà/ … / perché i doni di Dio
e la vocazione di Lui sono irrevocabili.» (Rm. 11,25-29) Perché
sia palese tale ritorno di Israele come tale, esso deve così mantenersi unito.
È una solidarietà quindi che fatalmente lega a quella antica condanna
di Gesù. Un semplice attuale silenzio, a tale riguardo, non rompe tale solidarietà.
Occorre una pubblica sconfessione di essa. Sono state anche prese particolari iniziative
in tale senso, ma con scarsa risonanza. Taluni hanno anche cercato di evadere da
quella tremenda alternativa – o Dio o sacrilego ingannatore – ma facendo violenza
alla storia e alla logica. Quella solidarietà fondamentale resta. Il mondo
cristiano giustamente attende una riparazione.
È contro la carità nascondere questo dovere al mondo ebraico.
i fratelli
Théodore e Alphonse Ratisbonne
converiti al cattolicesimo
Inutile dire quanto sia
contro la carità l’antisemitismo di infausta memoria, con le violenze e le
stragi, che arrivarono, in epoche moderne, ai “pogrom” (devastazioni, saccheggi)
russi e alle stragi di A. Hitler. La verità richiede però di fare le
necessarie distinzioni.
La parola “antisemitismo”, creata in ambiente tedesco circa un secolo fa,
si riferisce propriamente all’antiebraismo etnico-filosofico-sociale-razzista, non
religioso, come era invece nel mondo antico e medievale, quando ostilità e
tolleranza insieme si risolvevano, in definitiva, nelle segregazioni dei “ghetti”,
proseguiti anche in epoche moderne e infine aboliti.
È inoltre contro la carità della verità di considerare solo
il riprovevole “antisemitismo” e non il reciproco e attivo anticristianesimo
ebraico. Contro di questo può essere doverosa la difesa: purché la
si intenda cristianamente senza alcun odio dell’avversario, anzi amandolo
e bramandone la conversione, in soprannaturale spirito di proselitismo.
Questo “anticristianesimo” è storicamente innegabile, come
proseguimento della ostilità del Calvario. Basta vedere negli Atti
la sistematica e furiosa ostilità dei Giudei alla predicazione degli Apostoli
e contro San Paolo, in tutti i suoi viaggi, cioè anche nella diaspora. Ciò
secondo la predizione di Gesù: «Vi cacceranno dalle sinagoghe; anzi
viene l’ora che chiunque vi uccide penserà di rendere culto a Dio. E tutto
ciò faranno perché non hanno conosciuto né il Padre né
me.» (Gv. 16, 2-3; cfr. 9,22)
Ed ecco Pietro e gli Apostoli ripetutamente catturati, minacciati, flagellati; ecco
il martirio di Stefano e la «grande persecuzione contro la Chiesa che era in
Gerusalemme» (At. 8,1) e il martirio di Giacomo (12, 2-3). Ecco Paolo
perseguitato a morte: Damasco: «I giudei si accordarono di ucciderlo»
(9,23); Gerusalemme: «gli Ellenisti tramavano di ucciderlo.» (9,29) Antiochia
di Pisìdia: A giudei, vedendo la folla si riempirono di malanimo e presero
a contraddire con oltraggiose parole», «istigarono le donne pie e ragguardevoli
e i più influenti della città e suscitarono una persecuzione contro
Paolo e Barnaba e li cacciarono dai loro confini.» (13, 45. 50). Iconio: molti
Giudei credettero, «ma i giudei rimasti increduli eccitarono e irritarono gli
animi dei Gentili contro i fratelli», «ci fu, da parte dei pagani e dei
giudei con i loro capi, un tentativo di maltrattarli e lapidarli (gli Apostoli).»
(14, 2. 5). Listra: «Sopraggiunsero da Antiochia di Pisidia e da Iconio dei
giudei i quali, tirata dalla loro parte la folla, lapidarono Paolo e lo trascinarono
fuori della città, credendolo già morto.» (14,19). Tessalonica:
«I giudei, pieni d’astio, presero con sé alcuni ribaldi di piazza e,
fatta folla, misero a tumulto la città, / … /gridando: Costoro, dopo aver
posto sossopra il mondo, sono venuti anche qua / … / ribelli contro i decreti di
Cesare, proclamando che c’è un altro re, Gesù.» (17,5-7). Berea:
«I giudei di Tessalonica vennero anche là a scuotere e agitare le turbe.»
(17,13). Corinto: «I giudei gli si opponevano e lo ingiuriavano / … / insorsero
unanimi contro Paolo e lo trassero al tribunale, dicendo: Costui persuade la gente
a rendere a Dio un culto contrario alla legge» (18, 12-13); ancora in Grecia:
«I giudei gli tesero insidie, mentre era in procinto di salpare per la Siria.»
(20,3). Mileto: Paolo ricorda «le lacrime e le prove che gli sopravvennero
per le insidie dei giudei. » (20,19). Gerusalemme: «I giudei dell’Asia,
veduto Paolo nel tempio, sobillarono tutta la folla / … / e impadronitisi di Paolo
/ … / tentavano di ucciderlo / … / Togli dal mondo costui: non è degno
di vivere / … / I giudei ordirono una congiura e si votarono con anatema a non
mangiare e non bere finché non avessero ucciso Paolo.» (21, 27. 30.
31; 22,22; 23,12; 26,21)
Questo anticristianesimo combattivo non può non essere permanentemente
radicato, sia pure in varia misura, nella mentalità e prassi ebraica, perché
fondato su quella drammatica alternativa: o il vero, atteso Messia, uomo-Dio o il
più sacrilego mentitore. Esclusa la prima ipotesi non resta logicamente che
la seconda che non può non estendersi, in qualche modo, al cristianesimo e
suscitare verso di esso una fondamentale opposizione, capace anche di traboccare
in tenace odio e disprezzo, come e più che per i generici non ebrei “goyim”
secondo la mentalità (male interpretata) dell’Antico Testamento.
Va tenuta inoltre presente la concezione ebraica del Salvatore promesso come trionfatore
terreno, che deformò l’interpretazione delle profezie e ostacolò la
comprensione di Gesù. Il perdurare attuale di tale concezione può determinare
indubbiamente una qualche tendenza ebraica al dominio terreno universale, facilitato
dalla contemporanea presenza nelle varie nazioni, dalla emergenza scientifica di
varie personalità e soprattutto dalla grande potenza economica internazionale,
oltre che dalla massiccia presenza negli Stati Uniti di Ebrei, particolarmente ricchi
e potenti.
Naturalmente questa tendenza al dominio non affiora ugualmente alla coscienza dei
singoli, o non affiora affatto, data anche la moderna variabilissima partecipazione
all’unità ebraica, sovente estranea alla vera adesione religiosa (tanto che
alcuni, per esempio, identificano oggi tutta la realtà del Messia con il costituito
e consolidato Stato d’Israele).
Per rendere però il fenomeno importante e preoccupante basta che riguardi
settori particolari e gruppi particolari ebraici, particolarmente potenti. E comunque
si tratta di una tendenza sempre latente.
Tale tendenza induce purtroppo a stabilizzare la psicologia ebraica, in antitesi
all’orientamento di conversione. È quindi mancanza di carità verso
il mondo ebraico di nasconderla e non denunciarla. Il mondo cattolico, d’altra parte,
ha il dovere prudenziale di tenere presente questo pericolo potenziale o attuale
contro l'”ovile” di Cristo.
Ed è ingiusto e unilaterale, ad ogni modo, di condannare soltanto l’antisemitismo,
dimenticando l’anticristianesimo, che l’ha preceduto e l’accompagna.
la famiglia
Lob
interamente convertita al cattolicesimo
Il primato della
vocazione salvifica ebraica è, alla luce della Scrittura, evidente. Ma è
fonte di tanti equivoci, quando si prescinda dal fatto discriminante del rifiuto
e della condanna di Gesù. Già toccammo il fatto di tale “primato”
in relazione al “proselitismo”. Va ora un po’ approfondito.
Dovendo il profetizzato Messia e Salvatore nascere dal seno del popolo ebraico, questo
popolo si presentava come prediletto da Dio e ovviamente doveva essere il primo oggetto
della rivelazione salvifica di Gesù. «Andate prima alle pecore sperdute
della casa d’Israele» (Mt. 10,6) disse infatti Gesù agli Apostoli.
E ribadì con forza tale primato e precedenza dei Giudei rispondendo iperbolicamente
alla Cananea: «Io sono stato mandato soltanto alle pecore perdute della casa
d’Israele.» (Mt. 15,24)
Così San Pietro, alla folla radunata dopo la guarigione dello zoppo: «Gesù,
a voi è stato destinato per Messia / … / A voi per primi Iddio lo
ha inviato a recarvi benedizione, convertendosi ciascuno di voi dalle sue iniquità.»
(At. 3, 20. 26)
Così San Paolo ad Antiochia di Pisidia: «O fratelli, figli della stirpe
di Abramo e chiunque tra voi teme il Signore (“proseliti” o quasi): il
verbo della salvezza fu inviato per noi / … /A voi per primi era necessario
che fosse detta la parola di Dio.» (At. 13, 26. 46) E nella lettera
ai Romani: «Agli Israeliti appartiene l’adozione in figlioli, e la gloria e
le alleanze e la legislazione e il culto e le promesse; a cui appartengono i patriarchi
e da cui è nato Cristo quanto alla carne.» (Rm. 9, 4-5)
Ma quale conseguenza trarne? Non certo l’assoluzione o le maggiori attenuanti per
il misfatto del Calvario, ma immense aggravanti, per lo meno obiettive, per il rifiuto
e la condanna del Redentore, profetizzato e nato dal proprio seno: «Spunterà
il germoglio di Jesse (dalla stirpe di Davide, ultimogenito di Jesse).» (Rm.
15,12; Is. 11,1)
Così per esempio il traditore Giuda fu immensamente privilegiato essendo stato
annoverato tra i “dodici”; ma proprio per questo fu tanto più colpevole
come traditore: «Colui il quale mangia il mio pane ha levato il calcagno contro
di me. » (Gv. 13,18) «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?»
(Lc. 22,48; Sl. 41,10; 55, 13-15)
Il primato salvifico diviene, col rifiuto, primato di condanna.
Suor Maria
Samuele
un tempo Sonia Katzmann
e ora Holy Spirit Adoration Sister
La vocazione permanente
che giustamente si attribuisce ai Giudei acquista allora il suo chiaro significato.
Interpretarla come identica missione e identica benevolenza divina verso di essi,
così prima come dopo il Calvario, è assurdo e offensivo gravemente
della divina paternità e giustizia.
Non esistono infatti due economie della salvezza, ma solo quella nel Figlio unigenito
inviato a tale fine dal Padre (a cui si collega, in modo riduttivo e implicito chi
lo ignori in buona fede): «Ioo sono la via la verità e la vita: nessuno
può andare al Padre se nonper mezzo mio. » (Gv. 14,6) «La
pietra (riferimento a Sl. 118,22 s.) che i costruttori hanno rigettata è
riuscita in capo all’angolo… Chi cadrà su questa pietra si sfracellerà
e colui sul quale essa cadrà lo stritolerà.» (Mt. 21,42.44)
San Pietro al popolo: «Ogni anima che non avrà ascoltato quel profeta
sarà sterminata di mezzo al popolo.» (At. 3,23) Al Sinedrio:
«Egli è la pietra rigettata da voi edificatori, che è diventata
la pietra angolare: e in nessun altro è la salvezza, perché non vi
è sotto il cielo altro nome dato agli uomini per il quale possano essere salvi.»
(At. 4,11-12; cfr. 1 Pt. 2,6-8)
Lo ribadisce San Paolo in Rm. 9, 31-33.
Sono verità essenziali della rivelazione che per nessuna ragione possono essere
dimenticate o fatte dimenticare.
Non viene con ciò minimamente negato quanto San Paolo dice degli Ebrei, circa
la «irrevocabilità dei doni di Dio e della vocazione di Lui»
(Rm. 11,29) cui ho già ripetutamente accennato: purché la si
intenda rettamente e non come un loro permanere attuale nello stesso rapporto con
Dio che avevano prima della condanna di Gesù. Non è leale che a favore
degli Ebrei si ripetano spesso queste parole di San Paolo, nella lettera ai Romani,
falsificandone il senso, il quale invece è chiaramente e ampiamente spiegato
in tale lettera. Vi si parla infatti di «giusta punizione» (9), di «rami
stroncati / … / dalla santa radice» (16-17), «recisi per la loro incredulità»
(20), di «perdurante accecamento di una parte d’Israele (coloro che non hanno
riconosciuto Cristo)» (25); ma che (ecco la “irrevocabilità”
e lo scopo del proselitismo), saranno «se non persistono nella incredulità
/ … / innestati di nuovo» (23), ossia saranno dopo il «ripudio / …
/ riammessi riacquistando vita da morte.» (15)
Può servire, a chiarimento della bene intesa “irrevocabilità”
la vocazione universale – anch’essa irrevocabile – alla salvezza, che
riguarda tutti ed è testificata in 1 Tm. 2, 4. 6: «Dio, nostro
Salvatore vuole che tutti si salvino»: «Gesù per tutti
ha dato se stesso come riscatto.»
Chi, peccando, perde la grazia non è più in stato attuale di
salvezza; ma rimane nella economia della salvezza fino a che vive, venendo stimolato
alla conversione dalla divina misericordia: «Non sono venuto a chiamare i giusti,
ma i peccatori a convertirsi. » (Lc. 5,32)
Dio non prosegue ad amare il grande peccatore in quanto tale, non prosegue a volerne
la salvezza lasciando che esso resti tale, ma in quanto lo vede candidato
alla conversione e lo stimola ad essa fino al termine della vita. Ma se la conversione
sarà definitivamente rifiutata allora la “irrevocabilità”
della vocazione salvifica si trasformerà nella “irrevocabilità”
della condanna: «Via da me, operatori di iniquità», «maledetti»
(Mt. 7,23; 25,41).
Il già ricordato esempio di Giuda è emblematico. La misericordiosa
volontà salvifica emerse per lui nel continuo richiamo di Gesù. Fu
un richiamo fortissimo: «tra voi alcuni non credono … uno di voi è
un diavolo» (Gv. 6,64.70); e incalzante: Gu. 13,10.18.21.26.27. Giunse
fino a chiamarlo “amico” (Mt. 26,50) nel momento del tradimento
e di farsi da lui baciare (Le. 22,48). Cessò quando l’antico prediletto Apostolo,
resistendo ai continui richiami e alla divina grazia, conchiuse il tradimento, anziché
col pentimento, con la morte disperata.
Anche con gli Ebrei, continui divini richiami, cadute, richiami, fino all’indurimento
e al rifiuto deicida. Rispetto al caso di Giuda e di ogni singolo dannato v’è
tuttavia per i Giudei questa fondamentale differenza. Per i singoli il ciclo di prova
e di esercizio della divina volontà salvifica si chiude con la morte. Per
gli Ebrei, sostanzialmente compatti nella loro unità, intesi non come individui,
ma come popolo, il periodo di prova continua e vi è il preannuncio profetico
che verrà il momento in cui, finito l'”accecamento”, «tutto
Israele si salverà» (Rm. 11,26): e ciò perché «essi
sono amati per ragione dei padri loro.» (11,28)
Niente di più dannoso per gli Ebrei che nasconder loro o far dimenticare queste
fondamentali verità rivelate, lasciandoli nella illusione di essere attualmente
prediletti da Dio come prima del Calvario.
La vera carità verso di essi è di sollecitare con la preghiera e l’illuminato
“proselitismo” quel profetizzato ritorno salvifico.
Warren Hecht
ebreo ortodosso di Brooklin e ora diacono cattolico
Dipendenza ebraica del
cristianesimo, così da aversi una unica linea ebraico-cristiana, e da
risultare il «dovere della carità e della gratitudine per tutto quanto
abbiamo ricevuto da quel popolo» (Card. Bea), a cominciare da Gesù e
Maria che erano ebrei: sono le conclusioni in voga dei difensori degli Ebrei e degli
antiproselitisti. Non sono affermazioni del tutto errate. Ma sono tremendamente unilaterali
ed equivoche, tali da falsare completamente le prospettive, le relazioni cristiano-ebraiche
e la vera carità verso gli Ebrei.
Tutto l’equivoco nasce dalla dimenticanza della frattura determinatasi nella storia
ebraica con la tragedia del Golgota, quando furono “stroncati i rami” che
erano uniti alla “santa radice” (Rm. 11,16-17): il che avvenne direttamente
per opera di quei soli condannatori di Gesù, ma staccò per solidarietà
dalla linea profetica e redentiva tutto il popolo che tuttora non riconosce Gesù.
Certo: “unica linea ebraico-cristiana”. Ma con l’ebraismo antecedente a
quel crollo, dalla cui linea profetica si è staccato, per “accecamento”
(Rm. 11,25), l’attuale ebraismo. Proprio in quella linea esso è stato
sostituito, come popolo eletto, dal cristianesimo. È quindi un banale equivoco
di parlare di quanto dobbiamo a quel popolo, senza distinguere il prima e dopo la
tragica frattura. È un banale equivoco sfruttare quanto dobbiamo a quell’antico
popolo profetico per alimentare la simpatia per questo popolo attuale. Non possiamo
certo essere grati all’ebraismo attuale per il rifiuto di Cristo.
E se riflettamo che tutta la precedente storia di quel popolo e tutta la Scrittura
dell’A.T. erano preparatorie e profeticamente indicatrici del Redentore si comprende
tutta la gravità e la sciagura di quel rifiuto. E si comprende anche la piena
sostituzione del “popolo eletto”, divenendo tale il “popolo cristiano”
che ha compiuto quel supremo riconoscimento e seguito il Messia promesso.
In particolare, che Gesù e Maria siano ebrei, non è, per gli Ebrei
stessi, obiettivamente e soggettivamente, che un’enorme aggravante di quel rifiuto;
come è, d’altra parte, la conferma del trasferimento del popolo eletto nel
mondo cristiano, precisamente in quanto innestato nell’ebreo uomo-Dio Gesù.
Questo trasferimento fu evidenziato, storicamente e liturgicamente nell’ultima cena,
appositamente compiuta nella Pasqua giudaica. Il transito avvenne quando, compiuta
la cena giudaica, si passò alla cena e alla immolazione eucaristica. Alla
figura, l’agnello animale, si sostituì la realtà salvifica dell’Agnello
divino.
Sono verità supreme su cui è assurdo sorvolare.
È crudeltà verso gli Ebrei nasconderle.
Salvi i modi opportuni, è suprema carità ricordarle.
testo tratto da:
«Renovatio», n° 3, 1982. 5 – immagini e note a c. della red. di Flos
Carmeli