Sojmolov Swjetschin
(convertita dallo scisma d’oriente)
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russa: Maria Madre degli afflitti
Sophie-Jeanne
Swetchine, nata Sojmolov, una russa che Lacordaire e Montalembert e Falloux e
tanti altri spiriti eminenti venerarono come madre spirituale e ascoltarono maestra
lungiveggente nacque a Mosca nel 1782 da un alto funzionario, governatore della Siberia,
dove prima era stato anche deportato.
Ragazza di straordinaria intelligenza, studiò lingue, arte, musica, teologia,
filosofia. Precocissima, a 16 anni era dama di corte della Zarina, a 17 fu sposata
al generale Swetchine. Conobbe il cattolicesimo a Mosca. Erano gli anni, in cui ella,
giovane, ricca, spendeva il tempo a studiare e a esercitare la carità, segnalandosi
per doti e opere, e si legava d’amicizia coi più illustri personaggi di Russia
e d’Europa, essendo in quel periodo convenuti in Mosca statisti, letterati, ecclesiastici
fugati dalla Rivoluzione francese e dalla dispotia napoleonica. Durante l’invasione
del Corso, divenne la direttrice dell’opera di soccorso alle vittime della guerra,
e conobbe intimamente Giuseppe De Maistre, il quale restò affascinato da quel
grande cuore e da quella sottile intelligenza.
Allora lesse la migliore letteratura europea, direttamente nelle diverse lingue (nelle
lettere citava Dante e Goethe e Byron, con disinvoltura) e volle conoscere, poiché
gli emigrati gliene parlavano, anche il papato cattolico, studiandolo su opere sospette
o avverse, in Sarpi e sopra tutto in Fleury. Fu De Maistre a suggerirle di leggere
anche le confutazioni, come quella del Marchetti. E così lesse il Febronius
e poi l’Anti-Febronius, e ogni sorta d’autori pro e contro. Voleva rendersi conto:
col suo spirito critico poi deduceva da sè.
E via via venne deducendo alcune delle verità che aveva svolte e stava svolgendo
De Maistre sulla funzione essenziale religiosa, sociale e storica del papato romano.
Dal 1810 frattanto la convertiti principessa Aleksandrina Petrovna Gallitzin (1774-1838),
apprezzando quella rara creatura, s’era messa a recitare ogni giorno una preghiera
di sua composizione perchè anch’ella si convertisse.
E la conversione venne, lentamente, maturando al sole d’un grande amore per la verità,
obiettivamente cercata. L’unità della Chiesa si fece presto il suo ideale,
e la lettura del celebre sermone di Bossuet sull’argomento l’avviò a studiare
le relazioni storiche tra la Chiesa greca e la Chiesa latina, per risalire ai motivi
veri della scissione. I suoi quaderni, zeppi di appunti, rivelano un ingegno critico,
acuto e aperto, e un’anima spalancata, in cui faceva luce un tenero amore per Gesù
Cristo. Alla fine, essendo partita dalla miscredenza propria della sua società
volteriana ed edonista, dopo essere arrivata alla Chiesa greca, si trovò di
fronte al dilemma di scegliere tra la scissione e l’unità; e, poichè
non era spirito capace di accontentarsi d’una postura in bilico, si risolse per la
Chiesa di Roma. E fu cattolica.
I gesuiti, espulsi dalle nazioni cattoliche e ospitati dallo zar scismatico in Russia
e dal re luterano in Prussia, l’aiutarono nella istruzione, e fu il P. Rosaven a
raccoglierne l’abiura.
Ci è rimasta una nota manoscritto in cui la Swetchine fissa il momento della
conversione.
«La mia ultima comunione greca – scrive – il 29 giugno 1813, nella cappella
di Peterhof, era stata fatta con lo scopo unico di veder dissipate le esitazioni
che mi restavano: il buon Dio non s’ingannò sulla scelta del mezzo, e il 27
Ottobre (8 novembre nel calendario Giuliano), dello stesso anno facevo la mia abiura».
Vari anni più tardi, al margine dei discorso funebre del P. Ventura per Daniele
O’Connel, appuntava: «8 novembre: giorno mille volte benedetto; anniversario
ben amato! – Tours, 1847»
La Swetchine tenne qualche mese segreta la sua abiura, nella società nazionalista
e antiromana; però, nel 1816, quando lo zar Alessandro, con delusione amara
di De Maistre, si mise a bandire i gesuiti che erano stati dai suoi predecessori
ospitati e onorati durante la loro generale dispersione, ella, per fiero senso di
giustizia, non volle più nascondere la propria fede; e col marito, che frattanto
era caduto in disgrazia, fece il primo viaggio a Parigi. La religione nuova cominciava
a renderla straniera alla sua patria restata nazionalisticamente antiromana.
La via di Parigi già era stata la via di evasione di altre convertite illustri,
quali la contessa Varvara Nikolaevna Golovin, nata Gallitzin (1766-1825) che, convertita
verso il 1800, a Parigi si spense: e la contessa Anna Ivanovina Tolstoi, nata Barjatinskij,
che, convertita nel 1804, anche lei si spense nella brillante capitale francese nel
1825. Alla sua conversione concorse De Maistre. Altra convertita celebre vissuta
a lungo a Parigi fu la contessa Caterina Petrovna Rostoptsjin, nata Protasov (1775-1859)
e sposata al famoso governatore di Mosca. Attratta sin dalla gioventù dai
problemi religiosi, imparò il latino e il greco, e ammirò il cattolicesimo
pur rammaricandosi che non fosse «vero». Messa da sua sorella in rapporto
col prete francese emigrato Suruge, fu convertita alla fede cattolica, entrando per
questo in fiero contrasto con suo marito, col quale, nel 1814, venne a Parigi e ci
visse sino al 1825, sempre interessandosi alla vita religiosa, e componendo un «catechismo
storico» di cui si valsero Madame Swetchine e altri convertiti. Fu autrice
di Méditaions sur le principe d’écouter l’Eglise, d’un Recueil
d’anti-alogies, e sopra tutto di molte opere di misericordia. Sua figlia Sofia
(1799-1874), anch’essa convertita andò sposa al conte Eugène de Ségur,
e fu loro figlio Monsignor Louis de Ségur, con cui ella visse dal 1852 al
1853 a Roma.
La Swetchine giunse in tale ambiente che aveva solo 34 anni. Lungo il viaggio dalla
Francia, pregata dallo zar, gli scrisse varie lettere, a cui egli rispose amicalmente;
e la loro corrispondenza durò finchè egli visse e, bisogna dire, anche
a lui apportò qualche illuminazione.
Tornata in Russia, l’anno seguente, poichè al marito non riusci di ristabilire
la propria posizione a corte, alla fine del 1818 riprese con lui la via di Parigi,
cercandovi la libertà politica di cui la coscienza aveva bisogno. I russi
più colti videro con dolore allontanarsi quella creatura, la cui irradiazione
di grazia suscitava ammirazione e stima: e di tali impressioni son documento le lettere
scrittele da De Maistre sino al 1817 da Pietroburgo, e poi da Torino, avendo anche
lui abbandonate un paese dove l’assolutismo si stava di anno in anno infoscando,
quasi per una graduale contrazione dell’intelligenza di chi governava.
A Parigi fu presentata da De Maistre con queste parole: «Non è possibile
ritrovare una pari forza morale, e spirito e cultura, congiunti con tanta bontà».
La sua casa divenne centro di ritrovo di uomini come Chateaubriand, Lamartine, de
Broglie, Cousin, Donoso Cortes, Cochin, Tocqueville, Falloux, suo biografo, Montalembert,
Lacordaire…
«Fra tutte le attrattive – scrisse il biografo (1) – che contribuirono a farle scegliere
definitivamente il soggiorno della Francia, si può affermare che la prima
e la più potente di tutte fu la libertà, la dignità e la carità
della Chiesa cattolica»; giudizio che concorda con quello di Lacordaire, il
quale, nel suo testamento, ricordò come la nobile signora russa avesse cercato
e trovato in terra cattolica, «quello che è il primo bene delle anime,
la libertà interna ed esterna della coscienza» (2).
Nel 1823 fece un viaggio in Italia. «L’Italia – scrisse da Firenze a una sua
amica – ha tutto lo splendore, tutta l’ingenuità, e tutta l’ispirazione della
giovinezza» (3). E di lì
a Roma.
«Roma è la regina delle città, un mondo a sè… Qui le
idee si ingrandiscono, i sentimenti si fanno più religiosi, il cuore si rasserena»
(4).
Quella dimora le accrebbe, di giorno in giorno, la gioia delle scoperte spirituali
e artistiche nella Città Eterna: venuta dal settentrione nevoso, trovò
nell’inverno romano la delizia del sole e del verde tra chiese e monumenti, e volle
impossessarsi della sua storia e letteratura e segui i corsi di archeologia del Visconti.
A Roma ricevette il sacramento della confermazione, nel quale prese il nome di Giovanna,
in onore dell’Evangelista. Nelle sue peregrinazioni, un giorno, alla Lungara, conobbe
il primo convento di carmelitane, presso cui s’era portata con la convinzione di
trovarvi un aspetto di cose tetre e di volti terrei per l’austerità della
regola; e con meraviglia si vide «circondata di visi raggianti, sui quali era
dipinta, in una sorta d’immobilità, quella sicurezza che è la gioia
della virtù; … una gioia franca infantile e scherzosa che si comunicava»
(5).
Nel 1825 era di nuovo a Parigi, dove, cinque anni appresso, le ordinanze di Polignac
facevano esplodere quella rivoluzione di luglio, che doveva portare Filippo d’Orléans
al trono e Lacordaire e Montalembert alla redazione dell’Avenir lamennaisiano,
col programma «Dio e libertà»; e da quel momento s’origina la
nobile amicizia di quella donna straordinaria coi due giovani, il domenicano e il
pari di Francia, al quale ultimo, nell’ora dello scoraggiamento e del disorientamento
prodotto dai casi dell’Avenir, ella restituì il coraggio e la fede
con lettere che sono luminose e sagge per fede religiosa e sapienza spirituale. Tutta
la sua vita, ella salvò e restituì energia. Lacordaire le scriveva:
«Voi mi siete apparsa, tra queste due porzioni cosi differenti della mia esistenza,
come apparisce l’Angelo del Signore a un’anima che ondeggia tra la vita e la morte,
tra la terra e il cielo» (6).
Neppure durante la successiva crisi che distaccò Lamnnais dalla Chiesa, ella
perdette la testa; ma fu a fianco di Lacordaire, sorreggendolo con cuore di madre.
In una lettera, vigorosa per talento e dottrina e acume psicologico, gli faceva,
con rapidi tratti, la critica delle Paroles d’un croyant e concludeva su di
esse: «Solo un angelo e un prete possono cadere cosi in basso!» (7). Cioè
aveva letto in quel libro più profondamente di tanti: e intuì il crollo
con l’acume con cui anche il nostro Manzoni l’aveva intuite.
Poi, tendendo conto al domenicano del suo manoscritto Lettre sur le Saint-Siège,
gli diceva: «Il punto di vista su cui voi vi siete situato è il mio:
la mia separazione completa dal mondo non mi lascia veramente accessibile se non
agli interessi della Chiesa, dove tutta la mia vita s’è rifugiata: penso che
noi le dobbiamo tutto, ed essa non ci deve che la gioia di sè medesima»
(8).
Il gesuita P. Ravignan, nel succedere a Lacordaire, partito per Roma, sul pulpito
di Notre Dame, si fece presentare a Madame Swetchine dal confratello P. Rosaven;
e anche l’oratore di Notre Dame fu lieto di riceverne i doni di un’amicizia spiritualmente
prodiga.
Il mondo ammirò di questa donna il salotto famoso, ma le sue amiche più
intime sapevano che il cuore della sua casa era la cappella; e questa donna della
grande società fu, come tutti i russi, e restò, in Francia, una mistica,
amante della preghiera e del raccoglimento, in cui ella soleva riprendersi e rifarsi.
Il raccoglimento del pensiero lo chiamava «quest’altro tabernacolo di Dio»;
e la preghiera la chiamava «l’infinito… l’eternità… l’immensità».
«Se il mio ardore – scrisse – e la mia vigilanza ardono per qualche cosa, è
certo per il santissimo Sacramento»: l’ospite, per cui gioiva e soffriva tra
l’amore e il timore. Nel 1848 Donoso Cortès, nel salotto di Madame Swetchine,
fece la narrazione appassionata della sua conversione, che uno dei presenti, il conte
de Bois-le-Comte, mise poi per iscritto; e anche il grande scrittore spagnolo fu
da lei scortato, con un’amicizia materna, sul letto di morte.
A sua volta, nella sua malattia conclusa con la morte, ella fu assistita filialmente
dal Falloux, che ne riferì al Montalembert.
Lo spirito era sereno, e Falloux e gli ospiti conversavano come d’ordinario con lei.
Tra l’altro egli le chiese se fosse vero che la questione dell’emancipazione dei
contadini russi cominciava a circolare. – Non circola, – rispose lei. – Bolle.
Si mantenne – come disse il medico – per cinque o sei giorni sostenuta dalla sola
sua «incomparabile forza morale ». Sapeva di morire, ma si comportava
coi parenti e gli amici in modo da lasciarli persuasi che non lo sapesse.
Lacordaire anche lui accorse al suo capezzale e celebrò più volte il
santo sacrificio davanti a lei e per lei; e, benchè sofferente, logorata da
crisi di delirii, ella vi assistette rimanendo sempre in ginocchio con meraviglia
di tutti.
Alle amiche, che andavano a salutarla e non sempre comprimevano le lagrime, ella
chiedeva di non domandare al Signore per lei nè un giorno di più nè
una sofferenza di meno: e tutto diceva e sopportava con quel suo spirito fine, cordiale,
sereno, in cui s’esprimeva un cuore denso dell’amor divino. Anche Melun accorse;
e, quando l’abbé Serres le somministrò l’estrema unzione, sì
trovarono nella camera numerose amiche, tra cui la Craven (l’autrice di Fiorangela)
e il P. Chocarne; poi vennero i Cochin, la signora de La Ferrier, la duchessa de
La Rochefoucauld, i principi Gagarin e altri, e con loro parlò sempre affettuosa
e acuta, interessandosi di politica, di opere di carità, di affari loro privati;
E poichè Lacordaire, non sospettando la catastrofe, si era allontanato, ella
un giorno si fece dare da Falloux il manoscritto, da lei custodito, della Vie
de Saint Dominique e si fece leggere la lettera dedicatoria a lei scritta dal
celebre oratore. Quando Falloux arrivò alla frase: «Io auguro che un
giorno qualcuno dei nostri nipoti sappia d’aver avuto per ava una donna di cui san
Girolamo sarebbe stato amico, come di Paola e di Marcella, a cui non mancò
se non una penna abbastanza illustre e santa per dire chi essa fosse», interruppe:
– Questa frase non mi piace: è ridicola applicata a me… Del resto, dove
sarò io, biasimo o elogio sarà la stessa cosa».
Ma ella venerava Lacordaire non meno che egli venerasse lei.
La mattina del 10 settembre 1857, alle 5 e mezza, chiese: – S’avvicina l’ora della
Messa: bisogna che m’alzi! – e senza un sospiro, si spense. Andò alla Messa
eterna.
Il Falloux ha raccolto un volume di pensieri e scritti, nei quali si conserva il
prodotto di un’intelligenza sottile, d’un ragionamento lucido e di un’anima superiore:
non per nulla da Sainte-Beuve fu chiamata «la figlia cadetta di sant’Agostino
».
Uno di quei frammenti dice – «Non riconosco al cattolico che un solo diritto:
quello di agire meglio degli altri».
E questo: «Dio ha dato all’uomo la materia prima. Egli crea il mondo e lo dà
a lui per completarlo. L’uomo non comincia nulla, ma sviluppa e continua tutto. Gli
è data la parola, e lui inventa la scrittura; l’Oceano, uscito dalle mani
di Dio, separa i continenti; per l’opera dell’uomo diviene la maggiore delle sue
strade. La terra gli è data incolta, spesso ingrata: egli la spiana e la feconda;
ha innestato il tronco selvatico. Nell’ordine della salute, le sofferenze dei fedeli
completano la passione di nostro Signore».
Bisognerebbe trascrivere tutti questi frammenti d’una sapienza che non fu frammentaria,
ma organica e piena, nel suo equilibrio, fortificato dalle prove: «Quando uno
s’è ribellato al Vangelo, non ha fatto che darsi a un padrone, che è
il proprio Sé: e questo padrone rende possibile tutti gli altri, in discesa
continua». «Chiunque è privato del diritto di biasimare è
pure padrone di astenersi dal lodare».
«Non si ha il diritto d’esigere la coscienza in colui al quale è rifiutata
la libertà ».
«Bisogna esser credenti per combattere la superstizione, liberi per combattere
la licenza, profondamente religiosi per riprovare il fanatismo e annunziare la tolleranza».
«La morale è la verità del cuore; la fede è la verità
dell’intelletto ».
«La giovinezza dovrebbe essere una cassa di risparmio».
E sulla vecchiaia – ella che rimase giovanile sino all’agonia – scrisse un trattatello
che è un generatore di forza morale cristiana.
(1) De Falloux, Madame Swetchine; sa vie et ses oeuvres, Paris
Didier et C., 1860 (2 vol.), vol. 1, p. 243.
(2) Il Testamento di Lacordaire, versione di I. Giordani,
Roma, S. E. L. I., 1925, p. 34.
(3) Lettera del 31 ottobre 1823; De Falloux, o. c., p, 253.
(4) Lettera del 2 dicembre 1923; ibid., p. 255.
(5) Dal suo diario; ib, p. 295.
(6) Ib. p. 358.
(7) Lettera da Parigi, del 26 novembre 1836; o. c., p. 364.
(8) Lettera del 19 gennaio 1837; ib., p, 365.
testo tratto
da: Igino Giordani, I grandi convertiti, Roma 1951/2, pp. 79-88.