Arbitrarietà dell’alternativa
fra il «Gesù storico» e il «Cristo kerygmatico»
di Hugo Staudinger
Nel Credo o Simbolo di fede detto degli
apostoli, i cristiani non professano soltanto la fede in Dio, Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra, ma anche in Gesù Cristo, suo unico Figlio,
che si è fatto uomo ed è stato crocifisso sotto Ponzio Pilato. In questo
modo nel Credo è entrato anche Ponzio Pilato, e il suo nome continuerà
ad essere tramandato attraverso questa professione di fede sino alla fine dei tempi.
L’inclusione del nome di Ponzio Pilato nel Credo non significa naturalmente che il
cristiano creda a Ponzio Pilato. Si riesce a capire così un vecchio modo di
dire tedesco, che a volte si usa ancora oggi quando qualcuno ottiene in modo insperato
ed immeritato un particolare onore: «Ci è arrivato come Ponzio Pilato
nel Credo».
Eppure Ponzio Pilato ha tutti i diritti di trovarsi nel Credo. La presenza del suo
nome chiarisce che il messaggio di salvezza a cui aderisce il cristiano con il Credo
non è una professione di fede in un Dio prodotto da ragionamenti astratti,
ma è una professione di fede in quel Dio che da sempre agisce nella storia,
che ha dato suo Figlio per noi e che nello Spirito Santo continuerà ad agire
nella storia fino alla fine dei giorni. E su questa continuità dell’azione
divina che si fonda. secondo la fede cristiana. l’unità fra Antico e Nuovo
Testamento, nonché fra Nuovo Testamento e storia della chiesa.
I credenti sono inoltre convinti che l’azione di Dio nella storia ne influenzi anche
il corso esterno. Da questo punto di vista l’azione di Dio non solo è accessibile
al credenti, ma lo è anche al non credenti. E dal punto di vista puramente
storico anche la storia di Israele è già di per sé una storia
atipica. Si racconta in un significativo aneddoto, che il generale di cavalleria
Hans-Joachim von Ziethen – sorpreso a farsi un sonnellino nel corso di una dottissima
discussione – abbia risposto a Federico il Grande. che all’improvviso gli aveva chiesto
se conoscesse una dimostrazione dell’esistenza di Dio: «Maestà, gli
Ebrei!» (1).
Ma la vera e propria storia della salvezza non è deducibile, nel senso di
scientificamente dimostrabile, dal fatti esterni, e questo vale già per la
storia di Israele. Per esempio, citando un avvenimento chiave che ha segnato la storia
del popolo ebraico, non si può negare che nella zona del Mar Rosso il popolo
di Israele sia stato salvato in modo straordinario dalle mani del faraone, ma da
ciò non si può dedurre, dal punto di vista dell’argomentazione scientifica,
che il Dio di Israele si sia dimostrato per questo l’unico vero Dio. Eppure per quanti
credono nell’Antico Testamento questi due aspetti dell’avvenimento sono inscindibili.
Esempi simili si possono trarre anche dal Nuovo Testamento. In relazione alla vita
e alla missione di Gesù Cristo, i Vangeli riportano determinati fatti storici
e interpretano questi racconti dal punto di vista della storia della salvezza, che
costituisce il contenuto effettivo e fondamentale della buona novella.
Questa accentuazione ha portato molti teologi ad affermare che gli evangelisti non
erano assolutamente interessati a una rappresentazione di fatti storici, ma unicamente
alla proclamazione di un messaggio di salvezza. Rudolf Bultmann sostiene per esempioo: «Il Cristo che viene annunciato non è il Gesù storico, ma il
Cristo della fede e del cul to» (2). Con una accentuazione diversa, ma negando
allo stesso modo una visione storica dei Vangeli, si esprime Willi Marxsen, riprendendo
Bornkamm: «La comunità primitiva […] non era interessata a raccontare
chi era Gesù, ma chi è Gesù» (3).
Effettivamente non ci sono dubbi sul fatto che gli evangelisti non scrivano dei racconti
per il gusto di fare storia, e che quindi – come afferma Willi Marxsen – non volevano «scrivere un manuale di storia» (4), ma erano interessati in primo luogo
al messaggio di salvezza.
Ma lo storico è tenuto a far notare che la stessa cosa vale anche per numerose
opere storiche classiche. Non è affatto vero che chiunque si occupi di storia
sia interessato solo alla storia pura e semplice. In epoche antiche sono nate opere
storiche scritte, per esempio, per mettere in risalto lo splendore di una nobile
casata, per rivendicare su basi storiche diritti e pretese di uno stato., per motivare
e giustificare situazioni o decisioni politiche. Come dimostra in modo convincente
Hans Georg Gadamer nella sua opera Verità e metodo (5), questo tipo di interesse
basato sul presente è un atteggiamento legittimo per chi si occupa di storia.
Da un punto di vista diverso, anche Jürgen Habermas, in tempi più recenti,
ha fatto notare che qualsiasi scienza è caratterizzata e viene portata avanti
da un interesse che guida la conoscenza (6). Anche nella nostra esperienza quotidiana
constatiamo di continuo che i nostri interlocutori si rifanno a determinati fatti
storici per poi motivare le proprie concezioni o aspirazioni.
Così succede che spesso, a causa di queste intenzioni, vengano manipolati
certi avvenimenti o, in casi estremi, vengano addirittura inventati dei «fatti».
Questo modo di argomentare non corrispondente ai fatti può avere successo
solo se non sussiste – o quasi – il pericolo di una verifica con altri testimoni.
Di solito, la persona che si impegna per una causa particolare cerca di fornire argomenti
il più possibile validi. se non addirittura di rifarsi solo a quegli eventi
che nessuno potrà mai contestare. Questo vale anche per i seguaci di Gesù
e per la loro predicazione. È significativo, come riporteremo in seguito,
che gli stessi nemici di Gesù, e quelli che si oppongono al messaggio cristiano,
non negano i «fatti storici» in quanto tali, ma soltanto ne danno un’interpretazione
diversa.
In questo contesto si può naturalmente far notare che l’interpretazione che
i seguaci di Gesù danno a tutta la sua opera è segnata dall’esperienza
della risurrezione; non abbiamo alcun racconto su di lui redatto prima della risurrezione
e che quindi non sia stato influenzato da questo avvenimento. In questo senso Rudolf
Bultinann ha certamente ragione quando sostiene che il Cristo che viene annunciato
è principalmente il Cristo della fede. Ma diventa problematica l’affermazione
che ne deriva, che cioè questo Cristo della fede non è «il Gesù
storico»; come anche l’affermazione alternativa di Willi Marxsen, scondo cui
alla comunità originaria non interessava «raccontare chi era Cesù,
ma chi è».
Effettivamente chiunque voglia sapere chi è qualcuno, chiede chi era. Lo riscontriamo
nelle nostre esperienze quotidiane. Persino i nostri documenti di riconoscimento
riportano, a cominciare dal luogo e dalla data di nascita, dei dati sul nostro passato.
Chi si interessa a una persona. perché vuole instaurare con lei un rapporto.
stringere un’amicizia o avviare una collaborazione professionale, si informa su quello
che ha fatto in precedenza. A chiunque si candidi per una posizione di responsabilità
si richiede un curriculum privo di ombre. Se due persone provano simpatia l’una per
l’altra, può capitare che uno dica improvvisamente: «Tu non sai nemmeno
chi sono in reaItà», e comincia quindi a raccontare un capitolo della
sua vita. Nel famoso repertorio di personaggi importanti Who is Who, nel quale
ci si chiede, come indica il titolo stesso, «chi è chi», sono
riportati soprattutto dati sulla vita trascorsa, cioè sul passato delle singole
personalità. Da tutto ciò si deduce chiaramente che chiunque voglia
sapere chi è qualcuno, chiede chi era.
La stessa cosa vale anche per l’interesse nei confronti di Gesù Cristo. Chi
vuole sapere chi è il Cristo risorto deve domandarsi a ritroso quali fossero
la vita e le opere di Gesù prima della sua crocifissione. Questa domanda riceve
senza dubbio una connotazione particolare attraverso l’esperienza della risurrezione,
dato che ormai si sa già qualcosa di lui e si ha un’esperienza diretta di
cose che prima si potevano solo vagamente intuire.
Questa nuova conoscenza «a posteriori», però, non deve assolutamente
portare a un disconoscimento o addirittura a una distorsione di quello che Gesù
ha detto e fatto prima della sua crocifissione e risurrezione. L’impostazione di
base, che cioè si possa concepire un resocontoo su una personalità
storica alla luce delle ultime fasi della stia vita e, della sua opera, non è
affatto singolare. Se, per esempio, uno storico scrive su Hitler, prenderà
anche in considerazione gli anni che lo portarono alla presa del potere e gli «anni
di pace» del Terzo Reich nell’imminenza della terribile catastrofe della seconda
guerra mondiale e della crescita dell’inumano regime di terrore all’interno del paese.
Ma ciò non porta assolutamente ad una visione distorta. Al contrario, dato
che l’autore in questione conosce gli ultimi sviluppi in tutta la loro manifesta
brutalità, può comprendere e giudicare molto meglio numerose azioni
e affermazioni di Hitler di quanto non potessero essere comprese e giudicate in un
periodo precedente, quando potevano ancora sussistere dubbi e illusioni sulla concezione
complessiva del nazionalsocialismo e non si sapeva ancora con assoluta certezza se
determinati fenomeni fossero delle aberrazioni o delle caratteristiche fondamentali
del sistema. Lo stesso vale anche in positivo, quando si parla di persone la cui
grandezza si è manifestata interamente solo nell’ultima fase della loro vita,
come per esempio Thomas More, Massmiliano Kolbe o, in modo diverso, Peter Wust.
Il fatto che particolari avvenimenti o azioni si comprendano e si interpretino correttamente
solo a posteriori è un’esperienza che si fa a volte anche nella vita quotidiana.
In seguito ad una particolare esperienza. capita a volte di dire: «Adesso capisco
perché allora la mamma ha detto o ha fatto la tale cosa». Può
essere addirittura sconvolgente per i parenti scoprire, dopo la morte di una persona
cara, di non aver dato alcun peso a certe sue parole o azioni, o magari di averle
del tutto fraintese. A volte si dice allora: «Se lo sentiva che non ne avrebbe
avuto ancora per molto; perciò ha voluto sistemare tutto». Anche in
questi casi si rivela la stessa impostazione di base: certe azioni o parole di una
persona si capiscono bene solo a posteriori, alla luce di un’esperienza successiva.
La stessa cosa vale evidentemente anche per i discepoli dopo il loro incontro con
il Risorto. Il fatto che gli evangelisti raccontino che più volte i discepoli
«Allora» – cioè prima della crocifissione e risurrezione – non
avevano capito questa o quella espressione di Gesù, ma che dopo se ne erano
ricordati, corrisponde esattamente alla fenomenologia delle esperienze citate. E
caratteristico, per esempio, che i discepoli, al principio, siano coinvolti nelle
aspettative messianiche di carattere politico dei loro contemporanei, nonostante
le molte indicazioni correttive di Gesù. In base al racconto dei Vangeli,
è stato il Risorto a comunicare loro definitivamente una nuova e più profonda comprensione dell’Antico Testamento.
Tutti questi fatti e ragionameni dimostrano come sia arbitrario formulare un’alternativa
fra un «Gesù storico» e un «Cristo kerygmatíco».
Al contrario, dal punto di vista teoretico-scientifico, può essere giustificato,
e in alcuni casi necessario, distinguere fra gli avvenimenti storici e le interpretazioni
teologiche ad essi connesse. In questo senso è certamente possibile e giustificabile
una distinzione fra storia e kerygina.
In un gruppo di studio dell’Istituto tedesco di formazione e cultura sono state elaborate
cinque tesi a proposito di questa tematica (7):
l. Dio agisce nella storia ed entra nella storia, ma non si esaurisce nella storia.
La storia della salvezza quindi è costituita da avvenimenti che non si possono
dimostrare con metodi storici, e quindi, in questo senso, hanno un carattere inetastorico.
2. Ma dato che Dio agisce effettivamente nella storia ed entra nella storia, la componente
metastorica racchiude in sé anche una corrispondente componente storica. Questa
componente storica è inscindibile: l’evento salvifico della redenzione racchiude
necessariamente in sé l’evento storico della crocifissione. L’istituzione
dell’eucaristia presuppone l’ultima cena di Gesù con i suoi discepoli.
3. In considerazione di questa connessione, chi crede alla realtà metastorica
della storia della salvezza deve necessariamente presupporre determinati fatti storici.
In questo senso anche questi stessi fatti possono essere considerati oggetto di fede
e costituire così un elemento delle comuni professioni di fede delle chiese.
4. La componente storica della realtà metastorica può essere studiata
anche con i metodi delle scienze storiche. A prescindere dalle singole argomentazioni,
con l’ausilio di metodi storici si potrebbe in teoria dimostrare se Gesù ha
guarito dei malati, se ha consumato l’ultima cena con i discepoli, se è stato
crocifisso, e questioni simili. Ma anche se queste ricerche dessero risultati positivi,
però, con esse si può arrivare a cogliere solo la componente storica
e non la realtà metastorica, conte per esempio la redenzione o la conseguente
sconfitta della morte.
5. Una questione difficile dal punto di vista metodologico è quella della
risurrezione, perché in questo caso si tratta di un fatto che non è
direttamente accessibile alla ricerca storica, dato che non ci sono testimoni del
processo stesso della risurrezione. Con metodi storici però si può
stabilire se il sepolcro è stato effettivamente trovato vuoto e se testimoni
degni dì fede hanno univocamente affermato che Gesù Cristo è apparso vivo a loro dopo la crocifissione.
Queste tesi chiariscono che le sacre Scritture non annunciano solo una realtà
di salvezza metastorica. ma testimoniano, allo stesso tempo, di eventi storici, e
che non impongono un’alternativa fra il «Gesù storico» e il «
Cristo kerygmatico». Dato che in realtà non esiste un Gesù storico
scindibile da un Cristo kerygmatico, e dato che la componente storica appartiene
necessariamente agli eventi salvifici metastorici, la ricerca storica può diventare in effetti sia un ostacolo che un sostegno della fede.
(È chiaro – nel primo caso – che si tratterebbe solo di un ostacolo provvisorio,
perché non si potrà mai avere una reale contraddizione tra fede e scienza.
N.d.r.)
La seguente ipotesi può chiarire questo punto: se un giorno gli archeologi
scoprissero un elenco completo e affidabile, in base al criteri delle scienze storiche,
di tutti gli ebrei giustiziati a Gerusalemme sotto Ponzio Pilato, e se in questo
elenco mancasse Gesù, questo documento non costituirebbe solo una importante
scoperta storica, ma nel contempo anche un argomento contro la frase del Credo in
cui si afferma che Gesù è morto in croce per la nostra salvezza sotto
Ponzio Pilato. Al contrario, la scoperta di un simile elenco che contenesse anche
il nome di Gesù di Nazaret, e magari anche un riferimento all’arresto e alla
grazia concessa a Barabba, costituirebbe un’ulteriore conferma della credibilità dei Vangeli e indirettamente anche un sostegno per la fede.
Questi accenni mostrano come sia lontana dalla realtà l’affermazione di alcuni
teologi, secondo cui la fede «non è interessata a questioni storiche» (8)
In realtà sia i credenti che i nemici della fede hanno un giustificato interesse
alla ricerca storica, anche se l’interesse che spinge alla ricerca è diverso:
il miscredente spera di dimostrare che non sono avvenuti quel fatti che, come componente
storica, appartengono inscindibilmente alle azioni di salvezza metastoriche di Dio.
Il credente spera invece di poter sostenere anche con argomentazioni storiche che
quei fatti sono effettivamente accaduti.
Se, dopo aver fatto queste importanti considerazioni di carattere generale, ci si
chiede come gli autori stessi dei testi neotestamentari vedano il rapporto fra rivelazione
e storia, la risposta è chiara:
1. Innanzi tutto essi distinguono chiaramente la cronaca da raccconti sapienziali
come allegorie, parabole, miti e altri racconti simili. Da questo punto di vista
essi raggiungono un livello di consapevolezza superiore a quello di certi moderni
esegeti che affibbiano la generica etichetta di «leggenda» a quasi tutto
quello che si trova nel Vangeli (9).
2. Inoltre essi fanno chiaramente capire di essere convinti che non è possibile
annunciare Gesù senza fornire una testimonianza credibile di eventi storici.
Solo partendo dall’idea della testimonianza nel senso di una conferma di eventi storici
si spiega come, secondo quanto riportato dagli Atti degli Apostoli, Pietro non abbia
fatto chiamare come discepolo al posto di Giuda uno qualsiasi dei fratelli credenti,
ma abbia ristretto chiaramente la cerchia dei candidati dicendo:
«Bisogna quindi che tra coloro che ci furono compagni per tutto il tempo in
cui il Signore Gesù ha vissuto in mezzo a noi, incominciando dal battesimo
di Giovanni fino al giorno in cui è stato di tra noi assunto in cielo, uno
divenga, insieme a noi, testimone della sua resurrezione» (10).
Per un annuncio indipendente da fatti storici non sarebbe stato necessario un testimone
oculare, che avesse vissuto tutto il periodo della vita pubblica di Gesù a
partire dal battesimo di Giovanni.
In questo contesto si può collocare anche il discorso di Pentecoste di Pietro.
Pietro fa notare innanzitutto agli ebrei quello che hanno vissuto come testimoni
quando dice:
«Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di
miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua,
come voi ben sapete – dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza
di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi
e l’avete ucciso»
E in seguito dice ancora:
«Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (11).
In questo discorso vengono riportati eventi di cui gli stessi ebrei erano a conoscenza
e completati con altri di cui gli apostoli sono testimoni.
Anche nei Vangeli si trovano dei riferimenti specifici a testimonianze personali.
Così dice Giovanni:
«Non gli spezzarono le gambe, ma uno idei soldati gli colpì il fianco
con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza
e la sua testimonianza è vera» (12).
Analogamente, nella conclusione del Vangelo di Giovanni si afferma:
«Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li
ha scritti. e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera» (13)
Questi passaggi dimostrano che gli evangelisti sono certamente interessati a un messaggio
di salvezza, ma anche che la credibilità di tale messaggio dipende dalla credibilità
di determinati fatti storici. Per questo motivo porre l’alternativa se i Vangeli
costituiscano un messaggio di salvezza oppure una testimonianza di eventi storici
è porre la domanda in modo sbagliato e privo di senso. Chi cerca di rispondere
a questa domanda impostata in modo fondamentalmente errato, può solo ottenere
risposte prive di senso. I Vangeli dimostrano che nell’intenzione degli autori c’è
il messaggio di salvezza – in questo la teologia moderna ha certamente ragione –
ma dimostrano altrettanto chiaramente che questo messaggio di salvezza è di
per sé inscindibilmente legato alla testimonianza di determinati avvenimenti,
in particolare alla morte e alla risurrezione di Gesù.
Come dimostrano gli scritti neotestamentari, i primi annunciatori del messaggio cristiano
erano perfettamente consapevoli di questa connessione inscindibile. In questo senso
Paolo scrive nella 1ª Lettera ai Corinzi:
«Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione
ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio,
perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre
non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono» (14)
Non si potrebbe evidenziare in modo più chiaro il rapporto fra il messaggio
di salvezza e la testimonianza credibile di determinati fatti storici.
NOTE
(1) Naturalmente Federico il Grande si aspettava di sentire una dimostrazione
filosofica dell’esistenza di Dio, consona al tenore della discussione.
(2) R. BULTMANN, Die Geschíchte der svnoptischen Tradition, Göttingen
1964/6, 396; tr. it. Storia dei vangeli sinottici, EDB, 1969.
(3) W. MARXSEN, Einleitung in das Neue Testament, Gütersloh 1964/3, 114s:
cf. G. BORNKAMM, Jesus von Nazareth, 1956, 15; tr. it. Gesù di Nazaret,
Torino 1977.
(4) W. MAWXSEN, Der Streit um die Bibel, Gladbek 1965, 22; tr. it. Bibbia
in contestazione, Brescia 1969.
(5) Milano 1983.
(6) J. HABERMAS, Erkenntnis und Interesse, Frankfurt/M. 1973; tr. it. Conoscenza
e interesse, Bari 21 973.
(7) Queste tesi sono state pubblicate per la prima volta, in una versione precedente,
nella rivista della Kari-Fleim-Gesellschaft Evangelium uud Wissenschaft – Beiträge
zum interdisziplinären Gespräch (1982) 5, 23s.
(8) Così si esprime R. BULTMANN, «Neues Testament und Mythologie»,
in Kerygma und Mythos, 4 ed. ampl. 1960, 1, 46s.
(9) Onde, evitare malintesi, si noti innanzi tutto che la differenza fra una cronaca
e un racconto non consiste nel fatto che la cronaca corrisponde sempre e totalmente
agli avvenimenti reali. A differenza di quanto accade per il racconto, però
nel caso della cronaca è assolutamente legittimo porre la questione della
verità, chiedersi cioè se la cronaca corrisponde o no agli eventi reali.
Peraltro W. MARXSEN sostiene, per esempio, (Die Auferstehung Jesu von Nazareth,
Gütersloh 1968, 159s; tr. it. La resurrezione di Gesù di Nazareth,
EDB, 1970) che gli autori degli scritti neotestamentari non facevano distinzioni
fra immagini, racconti e fatti storici, ma che siamo stati noi, «che viviamo
nella tradizione dell’Illuminismo, […] a introdurre nei testi una distinzione, che
allora era ancora estranea ai loro autori».
Ma chi si occupa di storia del pensiero, sa invece che la concezione, sostenuta da
Marxsen, di uno stacco assoluto – fra prima e dopo l’illuminismo – è sbagliata.
Al più tardi a partire dallo sviluppo del pensiero filosofico nell’antichità,
ritroviamo continuamente dell’illuminismo nella storia del pensiero europeo, e fin
dagli inizi della storiografia ad opera di Erodoto e Tucidide è stata sempre
posta la domanda se degli eventi tramandati possono essere considerati eventi storici,
e se si sono svolti proprio così come vengono raccontati. Quando, basandosi
su questo livello superiore di consapevolezza, miti e leggende sono stati inseriti
in opere storiche, sono stati chiaramente indicati come tali e, in questo senso,
separati dalla storia. Al posto di tanti esempi citiamo solo una frase tratta dall’introduzione
di Livio: «E consentito all’antichità rendere più solenni le
origini delle città facendo concorrere l’umano e il divino (Ab urbe condita,
proemio).
Un’impostazione critica analoga si ritrova anche nella storiografia medievale. Otto
von Freising scrive per esempio nella sua Cronaca universale: «Fra gli
altri venne preso prigioniero anche il reverendo arcivescovo Thiemo che, secondo
la tradizione, sarebbe stato costretto ad adorare degli idoli. Ma egli chiese del
tempo per riflettere, entrò nel tempio e, con grande forza di corpo e di spirito,
fece a pezzi le statue degli idoli che avrebbe dovuto adorare, e dimostrò
così che non erano dei, ma opera dell’uomo. Per questo fu portato dinnanzi
al tribunale e, con terribili torture e supplizi di ogni genere, ricevette la gloriosa
corona del martirio. Il fatto che egli subì il martirio a causa della sua
fede cristiana è tradizione assolutamente attendibile, ma il fatto che egli
fece a pezzi le statue degli idoli è già più difficile da credere,
perché è risaputo che tutti i saraceni adorano un solo Dio» (Cronaca VII, 7). Anche qui, indipendentemente dal significato del racconto, ci si chiede
quale sia l’evento storico e quale la sua credibilità storica.
Senza dubbio Marxsen ha ragione sostenendo che questa problematica è stata
approfondita dall’illuminismo ed è diventata patrimonio comune di un numero
relativamente ampio di intellettuali. Ma questo fatto, d’altra parte, non può
nascondere che c’è stato un illuminismo a partire al più tardi dal
VI secolo a.C. in tutto l’ambito della cultura occidentale, a cui appartenevano anche
le province dell’impero romano, e nemmeno che, a tutt’oggi, ci sono persone che intellettualmente
ancora non hanno raggiunto lo stadio dell’illuminismo. Quindi Marxsen sbaglia quando
presuppone genericamente, per tutte le opere nate prima dell’illuminismo, un pensiero
di tipo inconsapevole. A quale livello di consapevolezza si trovino le opere va ricercato,
al contrario di quanto sostiene Marxsen, nelle opere stesse.
Questo tipo di ricerca è relativamente facile per quanto riguarda gli scritti
neotestamentari. Il loro livello di consapevolezza è dimostrato già
dal fatto che le parabole vengono quasi sempre indicate come tali. Si legge per esempio:
«Egli disse loro ancora un’altra parabola…»; oppure «il regno dei
cieli è come un re…». Non si legge invece: «Gesù disse:
C’erauna volta un re, che diede un banchetto…». Ciò significa
che i Vangeli raggiungono un livello di consapevolezza in cui i racconti inventati
vengono separati nettamente dagli avvenimenti reali. Analogamente, a proposito di
eventi reali, a volte si assicura espressamente che si sono svolti nel modo riportato.
Questo accade in varie forme: o nominando espressamente i testimoni, o con sottolineature
dei tipo «Egli è risorto davvero» e in molti altri modi. La questione
che si tratti di avvenimenti reali oppure no non viene lasciata inconsapevolmente
aperta, ma viene risolta in un modo o nell’altro.
I dati dimostrano quindi che Marxsen ha semplicemente torto quando sostiene che la
distinzione fra gli eventi storici reali e le rispettive interpretazioni «era
ancora estranea» agli autori degli scritti neotestamentari.
(10) At 1,21s.
(11) At 2,22s e 2,32.
(12) Gv 19, 33b-35a.
(13) Gv 21,24.
(14) 1 Cor 15,14s.
testo tratto da: H. STAUDINGER, Credibilità storica dei Vangeli, Bologna: EDB, 1991, pp. 11-20.
ll testo è stato annotato in un punto a c. della redazione di Flos Carmeli