A dieci anni dal Motu proprio Ecclesia Dei

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«A dieci
anni dal Motu proprio Ecclesia Dei»

del Card. Joseph Ratzinger










Joseph Ratzinger



conferenza,
tenuta a Roma,

presso l’Hotel Ergife il 24.10.1998,

in occasione delle celebrazioni per i dieci anni

del Motu proprio “Ecclesia Dei”




A
dieci anni dalla pubblicazione del Motu Proprio “Ecclesia Dei”, quale valutazione
possiamo fare? Penso che questa sia innanzitutto un’occasione per mostrare la nostra
gratitudine e per esprimere ringraziamenti. Le diverse comunità che sono sorte
grazie al documento pontificio hanno dato alla Chiesa un gran numero di vocazioni
sacerdotali e religiose che con zelo, in letizia e in stretta unione con il Papa,
hanno offerto il loro servizio alla Chiesa in questo nostro attuale periodo storico.
Per mezzo loro molti tra i fedeli sono stati confermati nella gioia di vivere la
liturgia e confermati nel loro amore per la Chiesa o forse hanno riscoperto entrambe
le cose. In molte diocesi – e il loro numero è tutt’altro che piccolo – essi
servono la Chiesa in collaborazione con i Vescovi e in unione fraterna con quei fedeli
che si sentono a loro agio con le mutate forme della nuova liturgia. Per tutto questo
non possiamo mancare oggi di rendere grazie.



Non sarebbe tuttavia realistico se sorvolassimo in silenzio su quelle cose che sono
meno positive. In molti luoghi persistono e si perpetuano difficoltà perché
alcuni vescovi, preti e fedeli considerano questo attaccamento alla vecchia liturgia
come un elemento di divisione che non può non disturbare la comunità
ecclesiale e non far supporre una certa riserva quanto all’accettazione del Concilio
e, più in generale, all’obbedienza verso i legittimi pastori della Chiesa.



Le domande che dobbiamo porci sono dunque le seguenti: come si possono superare queste
difficoltà? Come si può costruire la necessaria fiducia nei gruppi
e nelle comunità che amano l’antica liturgia e che vogliono sia pacificamente
integrata nella vita della Chiesa? Ma c’è un’altra domanda che deriva dalle
precedenti: qual è la ragione profonda di questa sfiducia e del rifiuto di
perpetuare le antiche forme liturgiche?



È senza dubbio possibile che in questo campo esistano ragioni che sono a monte
di ogni considerazione teologica e che hanno le loro radici nel carattere degli individui,
o nel contrasto tra i diversi caratteri, o in altri elementi affatto esteriori. Ma
è certo che vi sono anche altre e più profonde ragioni che spiegano
questi problemi. Due sono le ragioni che vengono più frequentemente addotte:
mancanza di obbedienza al Concilio che volle riformati i libri liturgici e rottura
dell’unità come conseguenza necessaria del lasciare in uso forme liturgiche
differenti. E’ relativamente semplice confutare sul piano teoretico questi due ragionamenti.
Non è stato il Concilio a riformare i libri liturgici, esso ne ha ordinato
la revisione e, a questo fine, ha fissato alcuni principi fondamentali. In primo
luogo il Concilio ha dato una definizione di che cos’è la liturgia e questa
definizione fornisce un metro di giudizio per ogni celebrazione liturgica. Se si
ignorano queste regole essenziali e si accantonano le “normae generales”
formulate nei numeri 34-36 della Costituzione “De Sacra Liturgia”, allora
si che si disubbidisce al Concilio! È alla luce di quei criteri che le celebrazioni
liturgiche debbono essere giudicate, siano esse basate sui vecchi o sui nuovi testi.
Va qui ricordato quanto osservo il Cardinale Newman: nel corso della sua storia la
Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò
sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Una liturgia ortodossa, vale a
dire una liturgia che esprime la vera fede, non è mai una raccolta fatta secondo
criteri pragmatici di cerimonie diverse, manipolabili ad arbitrio, oggi in un modo
e domani in un altro. Le forme ortodosse di un rito sono realtà viventi, sgorgate
dal dialogo tra la Chiesa e il suo Signore; sono l’espressione della vita della Chiesa,
in cui si condensano la fede, la preghiera e la vita stessa delle generazioni, dove
è incarnata nello stesso tempo in forma concreta l’azione di Dio e la risposta
dell’uomo. Questi riti possono estinguersi se il soggetto che li usa in un particolare
momento scompare, o se questo soggetto viene ad inserirsi in un altro modo di vita.
In situazioni storiche diverse l’autorità della Chiesa può stabilire
e limitare l’uso dei riti, ma non li vieta mai sic et simpliciter! Cosi il
Concilio ha ordinato una riforma dei libri liturgici, ma non ha proibito i libri
precedenti. Il criterio espresso dal Concilio è più ampio e più
esigente: esso ha invitato tutti all’autocritica. Su questo punto ritorneremo.



Esaminiamo ora l’altro argomento, quello secondo cui l’esistenza di due riti è
un ostacolo all’unità. Occorre qui distinguere fra l’aspetto teologico e quello
pratico. Dal punto di vista teoretico e fondamentale occorre rendersi conto che sono
sempre esistite molte forme del rito latino e che esse sono gradualmente cadute in
disuso in seguito alla maggiore coesione delle culture secolari europee. Fino al
Concilio, a fianco del Rito Romano sono esistiti quello Ambrosiano, quello Mozarabico
di Toledo, quello di Braga, quello di Chartreux, quello dei Certosini, quello dei
Domenicani, il più noto di tutti, e forse altri di cui non ho conoscenza.
Nessuno si è mai scandalizzato che i Domenicani, spesso presenti nelle nostre
parrocchie, non celebrassero come i preti secolari ma seguissero un rito proprio.
Non abbiamo mai avuto alcun dubbio che il loro rito fosse cattolico al pari di quello
romano ed eravamo fieri della ricchezza di tante diverse tradizioni. Inoltre si può
dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae
lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano
secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate
nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l’antica e la
nuova liturgia, quando l’una e l’altra vengono celebrate in conformità con
le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica
specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino
secondo il vecchio Messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza
fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al Messale di Paolo VI e
la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà
di partecipazione e di creatività, quella differenza si che può essere
enorme!



A me sembra che i contrasti che abbiamo menzionato sono così grandi perché
le due forme di celebrazione vengono a giustapporsi a due atteggiamenti spirituali,
vale a dire a due modi diversi di concepire la Chiesa e l’essere cristiani. Le ragioni
sono molte. La prima è questa: si giudicano le due forme liturgiche dalle
loro caratteristiche esteriori e si giunge così alla conclusione che ei sono
due differenti atteggiamenti di fondo. Il cristiano medio considera essenziale nella
nuova liturgia che essa sia celebrata nella lingua corrente e rivolti ai fedeli,
che sia lasciato ampio spazio alla libera creatività e all’esercizio per i
laici di un ruolo attivo; nella vecchia liturgia al contrario ritiene essenziale
che essa sia in latino, che il sacerdote sia rivolto verso l’altare, che il rito
si svolga secondo tutte le prescrizioni e che i fedeli seguano la Messa in preghiera
silenziosa senza alcun ruolo attivo.



Questo punto di vista considera essenziale per una liturgia la sua fenomenologia,
non quanto la liturgia stessa considera come essenziale. C’era da attendersi che
i fedeli avrebbero interpretato la liturgia a partire dalle forme concrete visibili
e che da quelle forme sarebbero stati determinati spiritualmente: i fedeli non penetrano
facilmente nelle profondità della liturgia.



Le contraddizioni e i contrasti che abbiamo elencati non hanno origine né
dallo spirito del Concilio, né dai documenti conciliari. Nella “Costituzione
sulla Sacra Liturgia” non si parla di celebrazione verso l’altare o verso il
popolo; in tema di lingua si dice che il latino deve essere mantenuto pur dando un
più ampio spazio al vernacolo “specialmente nelle letture e nelle monizioni,
in alcune preghiere e nei canti” (SL, n. 36, 2). Quanto alla partecipazione
dei laici il Concilio ribadisce che la liturgia è essenzialmente cura dell’intero
Corpo di Cristo, Capo e membra (SL, n. 7), che essa appartiene “all’intero Corpo
mistico della Chiesa” (SL, n. 26) e conseguentemente comporta “una celebrazione
comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli” (SL, n. 27).
E il testo specifica: “nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele,
svolgendo il proprio ufficio, compia soltanto e tutto ciò che gli compete,
secondo la natura del rito e le norme liturgiche” (SL, n. 28); e ancora: “per
promuovere la partecipazione attiva si curino le acclamazioni del popolo, le risposte,
la salmodia, le antifone, i canti, come pure le azioni, i gesti e l’atteggiamento
del corpo; si osservi anche, a tempo debito, il sacro silenzio” (SL, n. 30).



Queste le direttive del Concilio; esse possono fornire a tutti materia di riflessione.
In una pane dei liturgisti moderni c’è purtroppo la tendenza a sviluppare
i principi del Concilio in una sola direzione, rovesciando così gli intendimenti
stessi del Concilio. Il ruolo del sacerdote è ridotto da alcuni a qualcosa
di semplicemente funzionale. Il fatto che il Corpo di Cristo nella sua interezza
è il soggetto della liturgia viene spesso stravolto fino al punto che la comunità
locale diviene il soggetto autosufficiente della liturgia e i diversi ruoli vengono
distribuiti al suo interno. C’è poi una pericolosa tendenza a minimizzare
il carattere sacrificale della Messa e ad indurre alla sparizione del mistero e del
sacro con il pretesto – un pretesto asserito imperativo – che in questo modo ci si
fa comprendere meglio. Infine si percepisce la tendenza a frammentare la liturgia,
mettendo arbitrariamente in rilievo il suo carattere comunitario e conferendo all’assemblea
il potere di decidere riguardo alla celebrazione.



Esiste anche, fortunatamente, una cena avversione per un razionalismo pieno di banalità
e per un pragmatismo di ceni liturgisti, siano essi dei teorici o dei pratici, e
si constata un ritorno al mistero, all’adorazione, al sacro e al carattere cosmico
ed escatologico della liturgia, come sottolineato dalla “
Oxford Declaration on the Liturgy” del 1996.
Occorre riconoscere, d’altra parte, che la celebrazione della vecchia liturgia aveva
perduto molto, rifugiandosi nell’individualismo e nel privato, e che la comunione
fra sacerdote e popolo era insufficiente. Ho grande rispetto per i nostri vecchi
che durante la Messa bassa recitavano le orazioni contenute nei loro libri di preghiere,
ma non si può ceno considerare questo come l’ideale di una celebrazione liturgica.
Forse, queste riduzioni delle forme celebrative sono la vera ragione per cui in molti
paesi la scomparsa dai vecchi libri liturgici non ha avuto peso e la loro perdita
non ha causato dolore. Non c’era mai stato, infatti, un contatto con la liturgia
in sé. D’altra parte, là dove il Movimento liturgico aveva suscitato
un certo amore per la liturgia e aveva anticipato le idee essenziali del Concilio
– come, ad esempio, la partecipazione di tutti nella preghiera all’azione liturgica
ñ proprio lì è stato maggiore il dolore, di fronte ad una riforma intrapresa
troppo frettolosamente e spesso limitata all’esteriorità. Là dove,
invece, il Movimento liturgico non è mai esistito la riforma non ha sollevato,
in un primo tempo, dei problemi. Questi sono sorti solo sporadicamente là
dove il mistero sacro ha ceduto il posto ad una creatività selvaggia.



Per questo è molto importante osservare i principi essenziali della “Costituzione
sulla sacra liturgia”, che ho ricordati sopra, anche quando si celebra con il
vecchio Messale. Nel momento in cui questa liturgia tocca profondamente i fedeli
con la sua bellezza e ricchezza, allora essa sarà amata e non la si porrà
più in contrapposizione inconciliabile con la nuova liturgia, purché
i criteri siano fedelmente applicati secondo i desideri del Concilio.



Continueranno ad esistere, certamente, accenti spirituali e teologici differenti:
non saranno due modi opposti di essere cristiani ma, al contrario, patrimonio della
stessa ed unica fede.



Quando, pochi anni fa, qualcuno ha proposto “un nuovo movimento liturgico”
per evitare che le due forme liturgiche si distanziassero troppo fra loro e per portare
a frutto la loro intima convergenza, alcuni amici della vecchia liturgia hanno espresso
il timore che questo fosse solo uno stratagemma o un trucco per ottenere finalmente
la completa eliminazione della vecchia liturgia. Queste preoccupazioni e queste paure
debbono finire! Se l’unità della fede e l’unicità del mistero appaiono
chiaramente in entrambe le forme di celebrazione, ciò può essere solo
motivo di rallegrarsi e ringraziare Dio. Quanto più noi tutti crediamo. viviamo
e agiamo con tale motivazione, tanto più saremo capaci di persuadere i vescovi
che la presenza dell’antica liturgia non turba né rompe l’unità delle
loro diocesi, ma è invece un dono destinato a rafforzare il Corpo di Cristo,
del quale siamo tutti i servitori.

Così,
miei cari amici, vorrei esortarvi a non perdere la pazienza, a continuare ad essere
fiduciosi e ad attingere dalla liturgia la forza per rendere testimonianza al Signore
in questo nostro tempo.


Traduzione
dall’originale frencese tratta, con qualche lieve correzione, dal Notiziario
126-127 di UNA VOCE, Associazione per la salvaguardia dell liturgia latino-gregoriana,
00186, Roma, Via Giulia – telefono 06 6868353 – ccp. 68822006 (pp.4-7).








CARD.
JOSEPH RATZINGER:

importanti scritti circa la riforma liturgica