Esortazione
apostolica
«Redemptoris custos»
di Giovanni Paolo II
La figura
e la missione di san Giuseppe nella vita di Cristo e della Chiesa
INTRODUZIONE
1. Chiamato
ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato
l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24).
Ispirandosi
al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san
Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno
all’educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Irenaei, «Adversus haereses»,
IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico
corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello.
Nel centenario
della pubblicazione dell’epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa
Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182)
e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla
vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale
Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S.
Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P.
M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham»,
die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale,
perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e
l’amore al Redentore, che egli esemplarmente servì.
In tal
modo l’intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san
Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre
dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare»
all’economia della salvezza (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.»,
V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all’identità
del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d’Egitto
per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più
preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr.
v. g., S. Bernardi, «Super “Missus est” Hom.», II, 16: «S.
Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15
aug. 1889: «l. c.» 179).
Ritengo,
infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo
consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l’umanità,
di ritrovare continuamente la propria identità nell’ambito di tale disegno
redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell’Incarnazione.
Proprio
a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun’altra
persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò
insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu
depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre «ci ha predestinati
ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5).
I
IL
QUADRO EVANGELICO
Il
matrimonio con Maria
2. «Giuseppe
figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel
che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un
figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo
dai suoi peccati» (Mt 1,20-21).
In queste
parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe,
il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della
Chiesa.
L’evangelista
Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo
ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è
importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci
al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo:
sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere
insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l’origine
della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione
più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l’Annunciazione
della nascita di Gesù: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città
della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa
di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le
parole dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con
te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero
a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le
rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché
hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai
Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore
Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32).
L’Evangelista
aveva poco prima affermato che, al momento dell’Annunciazione, Maria era «promessa
sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste
«nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito
ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come
avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa
risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà
la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque
santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata»
con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei
sin dall’Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo.
A questo
punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò
che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò
incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il
contenuto dell’Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da
Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al
chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela
davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che
deve partorire e porta in sé il mistero della maternità.
3. In
queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla,
decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi
di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava
una risposta all’inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita
da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste
cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio
di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che
è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio,
e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi
peccati”» (Mt 1,20-21).
Esiste
una stretta analogia tra l’«Annunciazione» del testo di Matteo e quella
del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità
di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo
vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il
Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere
il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte
veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che – secondo
la promessa divina – adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù
– Yehossua’, che significa: Dio salva.
Il messaggero
si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo
dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret,
a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre
terreno nei riguardi del Figlio di Maria.
«Destatosi
dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con
sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della
sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per
opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di
volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva
per mezzo del suo messaggero.
II
IL
DEPOSITARIO DEL MISTERO DI DIO
4. Quando
Maria, poco dopo l’Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare
la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate
da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che
si ricollegavano al saluto dell’angelo nell’Annunciazione, Elisabetta disse: «E
beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc 1,45).
Queste parole sono state il pensiero-guida dell’enciclica «Redemptoris Mater»,
con la quale ho inteso approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma:
«La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò
fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium»,
58), «andando innanzi» (cfr. «Lumen Gentium», 63) a tutti
coloro che mediante la fede seguono Cristo.
Ora,
all’inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe.
Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto»,
si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché
rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento
decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all’«annuncio» dell’angelo
come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con
sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza
della fede» (cfr. Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6).
Si può
dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede
di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che
ella aveva già accettato nell’Annunciazione. Il Concilio insegna: «A
Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede”, per la quale
l’uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il “pieno ossequio
dell’intelletto e della volontà” e assentendo volontariamente alla rivelazione
da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca
l’essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret.
5. Egli,
pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli
nella mente di Dio» (cfr. Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo
che dall’Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché
«Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare
coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l’adozione
a figli» (cfr. Gal 4,4-5). «Piacque a Dio – insegna il Concilio – nella
sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della
sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi
della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2).
Di questo
mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme
con Maria – ed anche in relazione a Maria – egli partecipa a questa fase culminante
dell’autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo
sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può
anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di
Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione.
Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione
della fede», sulla quale Maria – soprattutto dal tempo del Calvario e della
Pentecoste – andrà innanzi in modo perfetto (cfr. «Lumen Gentium»,
63).
6. La
via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima,
cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella
– ritornato Cristo al Padre – si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno
della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità.
Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente
determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il
primo depositario. L’Incarnazione e la Redenzione costituiscono un’unità organica
ed indissolubile, in cui l’«economia della rivelazione avviene con eventi e
parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio
per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe,
stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione,
fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei
Sommi Pontefici e dei martiri (cfr. S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus,
die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]).
Il
servizio della paternità
7. Come
si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico
della paternità di Giuseppe. E’ per assicurare la protezione paterna a Gesù
che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di
Giuseppe – una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo,
termine di ogni elezione e predestinazione (cfr. Rm 8,28s) – passa attraverso il
matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia.
Gli evangelisti,
pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello
Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità
(cfr. Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di
Giuseppe (cfr. Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5).
Ed anche
per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù,
non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché
giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui
si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia
di Giuseppe. «Perché – si chiede santo Agostino – non lo dovevano essere
attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (…) La Scrittura
afferma, per mezzo dell’autorità angelica, che egli era il marito. Non temere,
dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato
in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino,
benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu
lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme
di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l’origine della gravidanza di
lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l’autorità
paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine,
anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall’unione
coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51»,
10, 16: PL 38, 342).
Il Figlio
di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che
li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere
chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo
stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della
carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12:
PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL
34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio
non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori
di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà,
il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la
fedeltà, perché non c’è nessun adulterio; il sacramento, perché
non c’è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia»,
I, 11, 13: PL 44, 421; cfr. Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL
44, 810).
Analizzando
la natura del matrimonio, sia sant’Agostino che san Tommaso la collocano costantemente
nell’«indivisibile unione degli animi», nell’«unione dei cuori»,
nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8:
PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34,
1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa
Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio
si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della
salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del
Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà»
il «dono sponsale di sé» nell’accogliere ed esprimere un tale
amore (cfr. «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431).
«In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio,
anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento
della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già
all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva
era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria
costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra.
Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa,
nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare
la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita» (Pauli
VI, «Allocutio ad Motum “Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970:
Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae
communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis
XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta»,
XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS
12 [1920] 313-317).
Quanti
insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l’essenza
ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall’amore» e «la
famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso
vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di
Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio»,
17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica»
(«Familiaris Consortio», 49; cfr. «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam
Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In
essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto
per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l’esempio
di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85).
8. San
Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione
di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo
egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è
veramente «ministro della salvezza» (cfr. S. Ioannis Chrysostomi, «In
Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa
concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al
mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver
usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle
totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la
sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del
suo cuore e di ogni capacità nell’amore posto a servizio del Messia germinato
nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110).
La liturgia,
ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe
gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta
«in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio
lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché
custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum»,
Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea
la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua
augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione
degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse
sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza
che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15
aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178).
Poiché
non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le
qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe
ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell’amore naturale,
tutta quell’affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere»
(Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis
Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958]
174).
Con la
potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l’amore
corrispondente, quell’amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende
nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15).
Nei Vangeli
è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù.
Difatti, la salvezza, che passa attraverso l’umanità di Gesù, si realizza
nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando
quella «condiscendenza» inerente all’economia dell’Incarnazione. Gli
evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia
stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito.
La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero…»
e il riferimento dell’avvenimento descritto a un testo dell’antico testamento tendono
a sottolineare l’unità e la continuità del progetto, che raggiunge
in Cristo il suo compimento.
Con l’Incarnazione
le «promesse» e le «figure» dell’antico testamento divengono
«realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo
precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature
particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l’umile serva del Signore,
preparata dall’eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è
colui che Dio ha scelto per essere «l’ordinatore della nascita del Signore»
(Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l’incarico
di provvedere all’inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo,
nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta
«privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla
sua custodia.
Il
censimento
9. Recandosi
a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità,
Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo
di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret»
(cfr. Gv 1,45) nell’anagrafe dell’impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese
l’appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di
questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore
del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo
fatto storico, tutt’altro che marginale: «Poiché il primo censimento
di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe
si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù
venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente
attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione
di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato,
tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla
terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini
della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui,
fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l’impero
nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87,
194 et 196).
La
nascita a Betlemme
10. Quale
depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che
comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo»,
Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato
della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre
si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce
il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché
non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7).
Giuseppe
fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti,
primo annuncio di quella «spoliazione» (cfr. Fil 2,5-8), a cui Cristo
liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu
testimone dell’adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù
dopo che l’angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (cfr. Lc 2,15-16);
più tardi fu anche testimone dell’omaggio dei magi, venuti dall’Oriente (cfr.
Mt 2,11).
La
circoncisione
11. Essendo
la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo
rito (cfr. Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù.
Il principio
secondo il quale i riti dell’antico testamento sono l’ombra della realtà (cfr.
Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti,
anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento».
L’alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (cfr. Gen 17,13),
raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo
Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (cfr. 2Cor 1,20).
L’imposizione
del nome
12. In
occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù.
Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (cfr. At 4,12); ed a
Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»:
«E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo
dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria
legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui
missione di salvatore.
La
presentazione di Gesù al tempio
13. Questo
rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la
successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio.
Il riscatto
dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe.
Nel primogenito era rappresentato il popolo dell’alleanza, riscattato dalla schiavitù
per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero
«prezzo» del riscatto (cfr. 1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie»
il rito dell’antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli
un soggetto da riscattare, ma l’autore stesso del riscatto.
L’Evangelista
rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che
si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone,
indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata
da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria
del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione»
(cfr. Lc 2,30-34).
La
fuga in Egitto
14. Dopo
la presentazione al tempio l’evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto
compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città
di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia
di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40).
Ma, secondo
il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare
un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a
Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del
Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino
e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò,
perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13).
In occasione della venuta dei magi dall’Oriente, Erode aveva saputo della nascita
del «re dei Giudei» (cfr. Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò
ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù»
(Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re
dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla
sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l’avvertimento, «prese con
sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase
fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto
dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”»
(Mt 2,14-15; cfr. Os 11,1).
In tal
modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso
l’Egitto. Come Israele aveva preso la via dell’esodo «dalla condizione di schiavitù»
per iniziare l’antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del
mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova
alleanza.
La
permanenza di Gesù al tempio
15. Dal
momento dell’Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo
senso nell’intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era
rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»
(Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l’ambito della sua dimora fu
la santa Famiglia di Nazaret – una delle tante famiglie di questa cittadina della
Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva
e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui»
(Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta»,
durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento
è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal
vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni.
Gesù
partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe.
Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno,
il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero»
(Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra
i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio,
seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli
che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte»
(Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco,
tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù
fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché
mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?»
(Lc 2,49-50).
Udì
questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre».
Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come
si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel
tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò
che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,… non temere
di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in
lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere
depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente
questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio».
Il
sostentamento e l’educazione di Gesù a Nazaret
16. La
crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc
2,52) avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva
l’alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire
Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati
al padre.
Nel sacrifico
eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria,
ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica
I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare
come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus»,
die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282).
Da parte
sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto
le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri
della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe.
III
L’UOMO
GIUSTO – LO SPOSO
17. Nel
corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria,
rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento
sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell’Annunciazione,
mentre Giuseppe – come è già stato detto – al momento della sua «annunciazione»
non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato
l’angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne
l’inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano
alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza:
grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio
che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19).
Bisogna
saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle
più importanti testimonianze circa l’uomo e la sua vocazione. Nel corso delle
generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale
testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove
e cose antiche» (Mt 13,52).
18. L’uomo
«giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello
sposo. L’Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di
un uomo… chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il
mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l’immagine
dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio
si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio),
e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima
di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»;
Maria però, conservava nell’intimo il desiderio di far dono totale di sè
esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse
con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi
salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell’Annunciazione
Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo
esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità
per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende
dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat».
Il fatto
di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno
stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare
Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di
prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei
viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa
di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il
Figlio dell’Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell’uomo».
Rivolgendosi
a Giuseppe con le parole dell’angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della
Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito
Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente
già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe:
«Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò
che era avvenuto prima – le sue nozze con Maria – era avvenuto per volontà
di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve
continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (cfr. Lc 1,27).
19. Nelle
parole dell’«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità
divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì,
la verità circa la propria vocazione. Quest’uomo «giusto» che,
nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine
di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato
da Dio a questo amore.
«Giuseppe
fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa»
(Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»:
da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene
rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l’amore di Dio, che
è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5,5),
forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche – ed in modo
del tutto singolare – l’amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò
che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell’esclusivo
abbandono, dell’alleanza delle persone e dell’autentica comunione sull’esempio del
mistero trinitario.
«Giuseppe…
prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì
un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un’altra vicinanza sponsale.
La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell’unione
e del contatto tra le persone – dell’uomo e della donna – provengono in definitiva
dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbidiente allo Spirito,
proprio in esso ritrovò la fonte dell’amore, del suo amore sponsale di uomo,
e fu questo amore più grande di quello che «l’uomo giusto» poteva
attendersi a misura del proprio cuore umano.
20. Nella
liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un
vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata
Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta,
infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine
e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La
verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla
dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio
e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza
di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è
comunione di amore tra Dio e gli uomini.
Mediante
il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la
Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi
per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso
ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l’esclusiva appartenenza
a Dio.
D’altra
parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare
dignità e i suoi diritti su Gesù. «E’ certo che la dignità
di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più
sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo
coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la
Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto
mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e
amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio
ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della
vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché
partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei»
(Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII
P. M. Acta» IX [190] 177s).
21. Un
tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima
nella povertà di Betlemme, poi nell’esilio in Egitto e, successivamente, nella
dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola
quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione,
la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme –
così come nella Incarnazione – a questo mistero appartiene la vera paternità:
la forma umana della famiglia del Figlio di Dio – vera famiglia umana, formata dal
mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità
derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o
soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l’autenticità della
paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E’ contenuta in ciò
una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità
della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione
dell’umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò
che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua
esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità
umana di Giuseppe.
In base
a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria
a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io… ti cercavamo».
Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù
indicano tutta la realtà dell’Incarnazione, che appartiene al mistero della
Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall’inizio accettò mediante «l’obbedienza
della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo
la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente
scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità.
IV
IL
LAVORO ESPRESSIONE DELL’AMORE
22. Espressione
quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro.
Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava
di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice
parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli
anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al
tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro
sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza
di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro
di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato
il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine
della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie
umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe
carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la
memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano
e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme
all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione,
come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro
presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò
il lavoro umano al mistero della Redenzione.
23. Nella
crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia»
ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il
lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo
«in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens»,
9).
L’importanza
del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti
«per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore
e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo
e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede
viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di
re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices
assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt;
cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»:
«Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane»
die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11
mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS
47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960:
AAS 52 [1960] 398).
24. Si
tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve
acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello
accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo
solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed
autentici seguaci di Cristo non occorrono “grandi cose”, ma si richiedono
solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti
di Paolo VI», VII [1969] 1268).
V
IL
PRIMATO DELLA VITA INTERIORE
25. Anche
sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio,
che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E’ un silenzio,
però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli
parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono
di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda
contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da
secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo
spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice
del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe
nella cristianità occidentale.
26. Il
sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della
venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua
insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi,
e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle
grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini
la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale,
accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando
per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce
e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).
Questa
sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle
cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l’esercizio della devozione,
la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (cfr.
S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2).
27. La
comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero
dell’Incarnazione proprio sotto l’aspetto dell’umanità di Cristo, strumento
efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In
forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando
in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (cfr.
S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1).
Tra queste
azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non
omettono di sottolineare l’importanza del contatto fisico con Gesù in ordine
alle guarigioni (cfr., ex. gr., Mc 1,41) e l’influsso da lui esercitato su Giovanni
il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno (cfr. Lc 1,41-44).
La testimonianza
apostolica non ha trascurato – come si è visto – la narrazione della nascita
di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in
Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia
contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della
stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso
la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari
in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più
stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (cfr. Pii XII,
«Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s).
Poiché
l’amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull’amore «filiale»
di Gesù e, viceversa, l’amore «filiale» di Gesù non poteva
non influire sull’amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle
profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili
agli impulsi dell’amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di
vita interiore.
Inoltre,
l’apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale
superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo
la nota distinzione tra l’amore della verità («caritas veritatis»)
e l’esigenza dell’amore («necessitas caritatis») (cfr. S. Thomae, «Summa
Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato
sia l’amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della
verità divina che irradiava dall’umanità di Cristo, sia l’esigenza
dell’amore, cioè l’amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela
e dallo sviluppo di quella stessa umanità.
VI
PATRONO
DELLA CHIESA DEL NOSTRO TEMPO
28. In
tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione
del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica»
(S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii
IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un
gesto peregrino, perché a motivo dell’eccelsa dignità concessa da Dio
a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di
lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di
preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum
Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s).
Quali
sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni
per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa,
e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio
di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di
Gesù… Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore
della divina Famiglia… E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato
Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento
la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio
la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis
XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179).
29. Questo
patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto
a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo
rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi
e nazioni dove – come ho scritto nell’esortazione apostolica “Christifideles
Laici” – la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti»,
e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio
di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa
ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (cfr. Lc 24,49; At
1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione
e dall’esempio dei suoi santi.
30. Oltre
che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe,
un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità
cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele.
Come
è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione,
l’attegiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso
ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell’assoluta
disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata
in Gesù. Già all’inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il
modello dell’obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue
per la fedele esecuzione dei comandi di Dio.
Paolo
VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi,
è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione
teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia
della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente
ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (cfr. Gv 15,5), non
è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione.
Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio
di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali
in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969]
1268).
31. La
Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli
inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede
di concederle di collaborare fedelmente all’opera di salvezza, di donarle la stessa
fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo
incarnato e di camminare sull’esempio e per l’intercessione del santo, davanti a
Dio nelle vie della santità e della giustizia (cfr. «Missale Romanum»,
Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B. M. V.»; Post
communio «in Missa votiva S. Ioseph»).
Già
cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere
la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L’epistola enciclica «Quamquam
Pluries» si richiamava a quell’«amore paterno» che Giuseppe «portava
al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia»,
raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò
col suo sangue». Da allora la Chiesa – come ho ricordato all’inizio – implora
la protezione di san Giuseppe – «per quel sacro vincolo di carità che
lo strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue
sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.
Ancora
oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi,
o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi…, assistici propizio dal cielo
in questa lotta col potere delle tenebre…; e come un tempo scampasti dalla morte
la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa
di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» (cfr. «Oratio
ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam
Pluries”» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890]
183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni
uomo.
32. Auspico
vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli
accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di
innalzare a lui. E’ certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe
acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione
al nuovo millennio cristiano.
Il Concilio
Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio»,
a quell’«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro.
Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò
la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum
Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta»,
pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l’«economia
della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel
servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno
e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie
mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a
quelle chiamate all’apostolato.
L’uomo
giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell’antica alleanza, è
stato anche introdotto nell’«inizio» della nuova ed eterna alleanza in
Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla
soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi
la «pienezza del tempo» ch’è propria del mistero ineffabile della
Incarnazione del Verbo.
Che san
Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione
del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Dato
a Roma, presso san Pietro, il 15 agosto – solennità dell’Assunzione della
beata Vergine Maria – dell’anno 1989, undecimo di pontificato.